Francesco Dall’Ongaro

Marco Cralievich

 

Atto terzo

Casa di Marco Cralievich

 

Scena I.

Marco seduto; Goico, Vlado, Ulislavo, Principi Slavi.

 

Per Dio, baroni, io non comprendo bene
La vostra lingua. Il tempo e le vicende
Corse straniero m’hanno fatto a voi,
O voi stranieri a me. - Codeste vostre
Querimonie mi suonano all’orecchio
Quel cinguettio di passere, quel sordo
Sussurro di cadenti acque lontane.
Dite più chiaro - o andatevene

 

Goico

Chiaro
Dirò. - Straniero t’hanno fatto a noi
L’oro e il favo degli infedeli. Turco
Tu sei, non Serbo.

 

Marco

                  Questo è chiaro. Turchi
Vivono ancor, Serbi non più. Tu stesso
Accettasti quel patto, e ben ti parve.
Ma, di ciò basti, ché la madre mia
Di là dentro non oda.

 

Vlado

Per l’amore
Che serbi a lei, per la sua sacra testa
Te ne scongiuro. Dall’orrendo giogo
Libera la tua patria: ell’empie mani
La mia Milizza togli.

 

Marco

              Per mia madre
Non m’implorar. Che fa mia madre a te?
I begli occhi di Milizza a te fanno.
Questa è la patria tua, questo è il tuo regno.
O generoso. -
Ascoltami. E se a lei
Garbasse più del tuo, l’adusto ceffo
Dell’Albanese? Vari della donna
Sono i capricci.

 

Vlado

Un rinnegato! Un servo
Del mussulmano!

 

Marco

Un forte e valent’uomo.
Fratello - più di te, più di voi tutti.
Chi non ha cuore di pugnar con lui
Non lo disprezzi. Uom valoroso è Mosa.

 

Ulislavo

Tu lo difendi?

 

Marco

Io non difendo alcuno.
Né alcuno accuso; né di te mi cale (a Vlado)
Né dell’amante tua: né di tua figlia (ad Ulislavo)
Né della patria che vi sta sul labbro
Ma non nel core - né de’ musulmani
Né di voi, Serbi!
    Che Serbi, per Dio!
Questo nome finor gloria sonava.
In avvenir sonerà giogo, e ceppi,
E servaggio e viltade. Itene omai!

 

Ulislavo

Privata passione in me non parla.
Mosa a me tolse il mio castello: i miei
Dieci villaggi spopolò, caccionne
I caligeri santi, un vil tributo
Di garzoni e di vergini c’impose. -
Meglio turco signor che un rinnegato
Senza fe, senza legge.
A te, ne vengo
No perché esponga il generoso capo
Con quel ribaldo: ma perchè al Divano
Rechi i miei lagni, le querele e i voti
De’ conculcati sudditi.

 

Marco

Chi sei
Tu che favelli?

 

Ulislavo

Un Serbo io son.

 

Marco

              Di quelli
Che pel Turco pugnaro, o contro il Turco?
Bulgari e Serbi in ogni loco io trovo
Nel Serraglio, al Bazar, nelle Meschite,
A Stàmboli, in Edrina. - Ad ogni zuffa
Pronti, d’ogni bandiera difensori,
Di sangue avidi sempre e più d’argento.
Libera gente e generosa! - Sacri
Sono i tuoi dritti, o forte. A Bajazetto
Recali tu. Ritornerai di certo
Colle man piene, o pur col collo scemo
Del capo.

 

Goico

          Il tuo sparmiò, ma non la lingua
Che il barbaro stipendia a sua difesa:
Se il braccio avessi come quella ardito
Mosa cadrebbe. Di valente il grido
La facondia ti diè. Certo a parole
Nessun ti vince.

 

Marco

Tu, Goico, vincesti
A fatti, quando nella torre buia
Cacciasti Urosio, il giovanetto figlio
De’ nostri re. M’è noto.

 

Goico

In ciò tu sai
A qual cenno io servissi.

 

Marco

Consigliero
Fosti dell’opra vile, e poi ministro.
Tu del vecchio Vucàssino[1] fiaccata
Hai la grand’alma. -
              Via di qua. Più a lungo
Non celio: il sangue gorgogliar mi sento
Presso alle tempie. Uscite.

 

Ulislavo

            A’ tuoi fratelli
Di servaggio e di duol questa risposta
Tu mandi?

 

Marco

              Uscite, e vi confonda Iddio!
Passò quel tempo che seduti all’ombra
Tracannaste il mio vin, mentr’io sul campo
Per voi pugnava. Chi s’aiuta il cielo
L’aiuti.

 

Ulislavo

Il ciel che tu bestemmi, il degno
Premio ti renda. Usciamo (partono)

 

 

Scena II.

Marco e Ciriaco Arciprete

 

 

Marco

Voi costì.
Venerando pastor?

 

Ciriaco

                  Sì, figlio mio.
Da gran tempo t’aspetto. Un giorno, un altro,
Un mese, un altro mese, lo già temea
Più non vederti.

 

Marco

Eccomi a voi.

 

Ciriaco

Parlarti
Vorrei, figliuolo - ma noioso e grave
Or ti fora il mio dir....

 

Marco

No, padre dite.
Costui m’ha tocca una profonda piaga
Che ancor dà vivo sangue.
              E’ dunque vero?
Ogni speranza di miglior ventura
Tolta è alla patria misera?

 

Ciriaco

              Non anco
Fin che tu vivi.

 

Marco

Più non vivo, padre!
Un’ombra io sono: estranio al mio paese,
Ramingo tra’ nemici. A tal son giunto
Che vendere il mio braccio all’Ottomano
E’ l’opera più degna, o la men vile
Ch’io possa.
                  Udite que’ codardi? - Serbii
Contro Serbi pugnar, fratelli contro
Fratelli! - Il Turco è più leale assai
Ch’essi non sono. - Or che mi resta a fare?
Chiudere gli occhi alla mia vecchia madre
Quando il suo giorno sarà giunto, e accanto
A lei sopra la cenere corcarmi! -

 

Ciriaco

E la tua spada? -

 

Marco

        Contro chi? Mietute
Ha tante vite senza prò. Di sangue
Più non ha sete.
Spegnere potessi
Tutti i vigliacchi, riscattar la terra
Che mi fu culla! -
        Ormai tutto è perduto.

 

Ciriaco

Se qui forte e tremendo allo straniero
Le disperse reliquie de’ gagliardi
Ti adunassi d’intorno...
Il regno è spento
Perché un re manca.

 

Marco

                  Urosio è re de’ Serbi.
A Lazzaro morente io lo giurai
E il giuramento manterrò. L’estrema
Impresa mia sarà codesta - e il giorno
È giunto.

 

Ciriaco

          Urosio...

 

Marco

              È prigionier di Mosa.
Vo salvarlo, o morir.

 

Ciriaco

                 Or ti ravviso!
Or conosco mio figlio! E’ giunto il giorno
Della vittoria

 

Marco

Dio lo sa! Sul campo
Potrei restar.

 

Ciriaco

                  Non fia.

 

Marco

                Padre, guerriero
Formidabile è Mosa. La sua preda
Non lascierà che non sia spento.

 

Ciriaco

        E spento

Cada.

 

Marco

                      Di braccio è pari di me, di frode
Mi vince. Il loco che al cimento ei scelse
È funesto per me.

 

Ciriaco

            Confida, o figlio,
Nel cielo.

 

Marco

          Il cielo è contro noi da lungo.
Ma che io vinca o che io cada - avrò pugnato
per la giustizia. -
Il tempo stringe. Solo
Con la madre lasciatemi. Vederla
Un istante e partir! Povera madre!
A voi l’affido, e se nel cielo è scritto
Ch’io la preceda - allor -

 

Ciriaco

          Deh non lo dire!
Dio non vorrà. Con lei ti lascio. Il core
Non le turbar cò tuoi sinistri auguri. (parte)

 

 

Scena III.

Marco, poi Ierosima

Marco

Madre, a misera vita, a giorni amari
M’hai partorito! Un sol giorno di pace
Non ebbi, un’ora d’allegrezza mai!
Di travaglio in travaglio, di dolore
In dolor mi sospinge un fato arcano,
Indomabile, eterno. Or senza gloria
Vincitor del nemico, or suo campione
Senza nobile méta. Il nome della
Mia patria un’onta, il nome di mio padre
Mi ricorda un delitto. E anch’io - funesta
Rimembranza! grondanti anch’io di sangue
Non ho le mani!
    Oh! madre mia! Tu certo
Non pensi quale orribile secreto
Dentro mi roda!... (pausa).

 

Jerosima

            Nominar m’intesi.
Solo alfin t’han lasciato.

 

Marco

          Alfine!

 

Jerosima

    Or posso
Parlarti.

 

Marco

Madre venerata!

 

Jerosima

          Sola
In questa sede del dolor, non altro
Chiedevo a Dio che di vederti. Or posso
Ringraziarlo e morir!

 

Marco

                    No madre!

 

Jerosima

          Ascolta
Una preghiera. Omai qui ti rimani.
Il tuo nome, l’onor della tua casa
Difendi. A tutti venerato e caro
Render lo puoi - lo devi.

 

Marco

          Amata madre!
Un’altra impresa alla mia fè commessa
Compier m’è uopo. La giustizia il vuole.
Spento il nemico, allor...

 

Jerosima

          Sempre nemici!
Sempre battaglie! Sempre opere d’odio,
Giammai d’amor!

 

Marco

        In tali tempi io nacqui!

 

Jerosima

Oh! riponi la spada. L’odio sempre.
Semina l’odio, il sangue, sangue chiede.
Pria che giunga il mio dì, pria che il Signore
A me s’appelli, o figliuol mio, desisti
Da questo eterno rammingar, ti scegli
Un fida compagna - io stessa a lei
Vo’ della casa confidar la cura.
Degna di te la troverò.

 

Marco

No, madre
Non parlarmi di nozze. Opra gittata,
Madre, Io non posso accompagnarmi a donna.
Questa è la sposa mia. (accena la spada)
Questo il mio letto:
La negra terra.

 

Jerosima

Oh! me dolente! E quando
Io dormirò nel mio sepolcro, chi
T’accoglierà dopo la pugna? Solo
Sarai.

 

Marco

                      Non sarò solo. Una sorella,
Una sorella in Dio, madre, ho trovato
Nella terra dell’Arabo.

 

Jerosima

Sorella
Un’infedele?

 

Marco

                Io l’amerò pur sempre,
Madre! Dovrò rivelarti un segreto
Che Dio solo conosce. Una gran colpa
Commise il tuo figliolo, una gran colpa
Che mi segue dovunque...

 

Jerosima

        Oh figlio!

 

Marco

                  Il vuoi?
Odimi, o madre venerata, a te
Vo’ confessarmi

 

Jerosima

          Narra.

 

Marco

Sai quel tempo
Ch’io fui preso dall’Arabo? - In oscuro
Fondo di torre mi trovai, nell’acqua
Fino a’ ginocchi: innanzi a me, diretro,
D’ambe le parti, scheletri spolpati
Reliquie di color che v’eran morti
Prima di me - mie compagne le serpi
Dalle pareti spenzolanti, e i guffi
Che si posavan sulla ferrea sbarra
Della finestra.
                      Un dì vidi a traverso
Le fitte spranghe una fanciulla ignota.
Amore, vita, libertà m’offerse.
Aprì la mia prigion, fuggì con me
Dalla casa paterna, e sulla groppa
Del mio destriero valicò le sabbie
Del deserto.

 

Jerosima

            Un tuo foglio a me novella
Ne dava, e sempre nelle mie preghiere
la generosa ricordai: ma nulla
Più ne seppi.

 

Marco

              Io dormiva - ella al mio fianco
Vegliava a guardia, non forse il fratello
O il genitor, della sua fuga accorto
Mi raggiungnesse. Oh! madre! Ella mi amava,
La sventurata!

 

Jerosima

                    Almen di nostra fede
Fosse!

 

Marco

Mi amava l’infelice, ed io...
L’uccisi! -

 

Jerosima

            Quella che t’aveva slavo!

 

Marco

Madre! io l’uccisi!

 

Jerosima

            Oh! come!

 

Marco

Una gran colpa
Tel dissi: una gran colpa! ad espiarla
Non basterà la vita!

 

Jerosima

Sciagurato!

 

Marco

Tanto dell’otre un dì vuotai, che il caldo
Vapor del vino mi cerchiò di grave
Peso la fronte, e la ragion confuse.
Tra il sonno e tra la veglia, nell’incerto
Crepuscolo de’ sensi affaticati
Vidi sopra me pendere una bruna
Araba faccia: come perle bianchi
Infra le labbra semiaperte i denti. -
Mi prese una vertigine, il credetti
Uno spirito infernal che mi schernisse,
la man corse alla spada: la sua testa
Rotolò nella polvere -

 

Jerosima

Tu Marco?

 

Marco

Io, madre. -
                Inorridii! stetti tremante
Impaurito di quel sangue più
Che di mille pugnali in me rivolti.

 

Jerosima

Misero!

 

Marco

Il capo per le lunghe trecce
Raccolsi, o madre, e lo lavai col pianto,
E la nomai sorella.
                                      Le palpèbre
Parve aprir a quel nome, e lentamente
Le richiudeva. Le scavai la fossa
Nella sabbia deserta, e vi composi
Presso all’esangue tronco il mozzo capo
E fuggir volli, come dall’aspetto
D’una gran colpa, d’una gran viltade -
Ma fuggir non potea.
Là m’inchiodava
Un’arcana malìa! L’occhio smarrito
Ricercò la sua spoglia -
          Oh! madre! strano
Portento a dirsi - più non la rinvenne.
Ma sopra la mia testa udii sonare
una voce per l’aria, e dirmi: addio.
Fratello nel Signor, fratello mio.

 

Jerosima

Illusione del dolor!

 

Marco

                  Chi sa?
Iddio è grande! Rivederla io spero,
E a lei mi serbo. -

 

Jerosima

Sventurata!

 

Marco

                  Ovunque
Onorato periglio s’appresenti,
La sua voce m’appella. Ovunque geme
Sotto il giogo un oppresso, o una fanciulla
In mano all’infedel colà m’invita
E m’incuora a pugnar.
Madre ella vive!
Vila dell’aria[2], spirito vagante
Ella vive! E pur ora a questa Impresa
Ch’io t’accennava irresistibilmente
Mi strascina.

 

Jerosima

                  Deh! Marco, in te rientra.
Qui ti riman.

 

Marco

                Non posso.

 

Jerosima

    La corona
Della misera Serbia un dì t’aspetta.

 

Marco

Giammai! Che mi rammenti? È questo il mio
Destino. Porla sulla sacra testa
Del priggionier degg’io: pugnar per esso,
Seguir la voce della Vila, sperdere
Tutti i tiranni! Addio.

 

Jerosima

                Per quanto?

 

Marco

        Oh! madre!
Tu colle preci il mio perdono implora:
Io la mia colpa espierò col brando! -

 

 

1Vucàssino, padre di Marco. [...].

2 Le Vile sono, presso i popoli Slavi, spiriti di donne forti e sventurate, avverse ai malvagi, soccorrevoli ai buoni. Marco ne aveva una che considerava come sorella posestrima cioè sorella adottiva. È nota questa costumanza slava di legarsi con inviolabile amore ad un fratello o ad una sorella che si considerano come affidati alla tutela di chi li ha scelti.

 

“La Rivista di Firenze”, 19/10/1847, n. 38, III serie, pp. 150-151.

 

На Растку објављено: 2008-02-01
Датум последње измене: 2008-02-01 17:00:17
 

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