Dimitrije Bogdanović

La Chiesa serba nei tragici eventi del Kosovo

15 aprile 1986

 

Già da molti anni in Kosovo si combatte una guerra contro il popolo serbo. Dopo un periodo relativamente breve di libertà (1919-1941), le espulsioni in massa dei Serbi sono riprese nell'aprile 1941, sotto la bandiera dei conquistatori italiani, tedeschi e bulgari, e da allora le violenza perpetrate contro la popolazione serba non sono cessate. Al Kosovo viene applicato un piano di albanizzazione che presuppone l'annientamento della popolazione serba presente in quel territorio con l'aiuto di tutto l'arsenale del genocidio: omicidî, espulsioni, eliminazione della coscienza storica. Si tratta di una guerra di conquista il cui scopo è di impadronirsi delle terre serbe, di occupare o annettere il Kosovo e la Metohija, la Serbia meridionale, poi la vallata della Moldava, e, dall'altra parte, la vallata del Vardar, in altri termini tutta la regione centrale dei Balcani, per crearvi uno stato nuovo, a favore di una grande Albania, che modificherà la carta della penisola balcanica, proprio come si era prospettato all'epoca del congresso di Berlino e della creazione della Lega albanese di Prizren (1878).

L'imperialismo albanese ha saputo utilizzare tutti i movimenti politici e sociali che sono apparsi tra le due guerre mondiali, nel corso della seconda e anche dopo, ivi compreso il movimento internazionale operaio. Ha saputo approfittarne e sfruttare il loro appoggio per la realizzazione del suo programma. Non c'è giustificazione all'ignoranza o alle illusioni che circolano a questo proposito. Sarebbe soprattutto insensato continuare a chiudere gli occhi davanti a questa mistificazione politica odiosa che consiste nel trasformare gli strumenti dell'eguaglianza dei diritti delle nazioni in strumenti di assoggettamento nazionale della maggioranza da parte della minoranza, del popolo serbo da parte dell'etnia albanese.

In tutti questi "fatti" - è così che il nostro linguaggio politico definisce, con un eufemismo evidente, la tragedia del popolo serbo in Kosovo - la Chiesa serba ha un ruolo importante, ed anche eccezionalmente importante. Quasi sempre essa è la prima a farne le spese. Le sue basiliche, i suoi monasteri e i suoi beni, e così pure i suoi sacerdoti, i suoi monaci e i suoi vescovi, sono sempre stati i primi a subire i maltrattamenti e l'umiliazione, ogni volta che si verificava una "escalation", una nuova offensiva dell'imperialismo albanese. Così facendo, il nemico non commetteva errori nella scelta dei suoi obbiettivi; mostrava lui stesso che la Chiesa serba fa parte in modo inalienabile, sia da un punto di vista spirituale che morale, dell'identità nazionale del popolo serbo, che essa è il pilastro ed il bastione della sua sopravvivenza. Non è mai stata intrapresa una guerra contro i Serbi senza un'aggressione contro la Chiesa serba. Non si tratta dunque di un atteggiamento della Chiesa con cui essa si imporrebbe da sé, senza esservi chiamata, come attore politico degli "avvenimenti" del Kosovo; non si tratta di un qualunque "clerical-nazionalismo" serbo. Fin dall'inizio la Chiesa serba è stata il bersaglio dell'aggressione grande-albanese, come pure è stata il bersaglio di tutte le aggressioni contro l'integrità del popolo serbo.

Cercherò di spiegare alcune circostanze fondamentali senza le quali, secondo me, non si potrebbe comprendere il ruolo della Chiesa nei tragici eventi del popolo serbo in Kosovo. Non si tratta solo del fatto che la Chiesa è il principale bersaglio degli attacchi più gravi contro il popolo serbo, ma anche della possibilità di adottare un atteggiamento attivo nei confronti di questo destino, nei confronti di queste sventure. Si tratta di una tragedia integrale, di una tragedia che non riguarda solo regioni limitate o periferiche, ma che tocca l'essenza del popolo serbo, qualunque sia il luogo in cui noi viviamo.

A questo punto dovrò interpellare la storia, senza la quale non si potrebbe capire nulla di ciò che riguarda il Kosovo. Sarebbe una fondamentale illusione - un male immenso - trascurare i fatti che, nel corso dei secoli, hanno portato a ciò che succede oggi, perché non si tratta di un passato che se n'è andato, che si è calmato, ma di avvenimenti vivi, che agiscono ancor oggi, anche se sono iniziati due o tre o più centinaia di anni fa. È senza dubbio abbastanza difficile per l'osservatore europeo capire la presenza di questo passato negli avvenimenti, nei conflitti e nelle crisi della nostra epoca. Ma per i nostri destini balcanici, e in particolar modo per il destino del popolo serbo (non solamente in Kosovo) è questa una verità fondamentale ed assoluta. Ciò che è stato chiamato la "contro-rivoluzione" del 1981 in Kosovo non ha per nulla segnato un inizio. Ciò che si è verificato nel 1981 era prevedibile fin dalle insurrezioni del 1968 ed anche del 1944-45, e nel corso degli anni che precedono quest'ultima, cioè nel 1915-18 e nel 1913, senza parlare del genocidio e della confisca delle terre serbe prima del 1912.

È pure necessario conoscere certe cose sul passato lontano del Kosovo e della Metohija per capire la natura conquistatrice ed imperialista della politica della "Grande-Albania" nei confronti del Kosovo e della Metohija. Questo passato remoto mette in luce le radici della chiesa serba in questa regione e le motivazioni che giustificano il suo atteggiamento di difesa del popolo serbo; innanzitutto, il territorio che il nazionalismo albanese vorrebbe conquistare è stato popolato da Serbi nel VII secolo, mentre gli antenati degli odierni albanesi, a quel tempo tribù storicamente anonime di pastori nomadi, le cui origine sono oscure da un punto di vista etnico, si trovavano lontano da là. Secondo le fonti storiche dei secoli XIII e XIV, il 98% della popolazione del Kosovo e della Metohija era serbo e gli Albanesi si dividevano il rimanente 2% con i Greci, i Valacchi, i Sassoni ed altri che erano tutti più numerosi. Queste terre verso la fine del XII secolo facevano parte dello Stato dei Nemanjici; poi, come territorio serbo densamente popolato, esse vi si sono mantenute in tutta l'epoca della dinastia dei Nemanjici.

È proprio in tale epoca che si è sviluppato il centro della vita spirituale e della cultura del popolo serbo nel Medio Evo; è qui che la Chiesa serba aveva i suoi monasteri, e anzitutto la sede del suo Arcivescovado, poi del suo Patriarcato, a Pec. È qui che hanno visto la luce le grandi realizzazioni della cultura serba, con le quali essa è entrata nella civiltà europea e che sono annoverate tra il tesoro della cultura mondiale. È qui che è stata creata la letteratura serba, in comunicazione viva con gli altri centri spirituali della Serbia, da Hilandar fino a Studenica e a Mileseva. Senza tutto questo non è possibile parlare del popolo serbo nel Medio Evo, ed è proprio attraverso tutta l'eredità appena adesso indicata che questa regione ha preso posto come territorio essenziale nelle costituzione storica della nazione serba. È stato finalmente accertato che il colpo portato a questa terra serba dall'irruzione e dall'invasione dei Turchi Osmanli, con tutte le conseguenze nei secoli a seguire, è stata l'origine di molte sciagure e catastrofi nazionali.

L'integrità del popolo serbo e delle sue terre è stata per la prima volta messa in questione quando è stato minacciato il carattere etnico serbo del Kosovo. È la loro posizione geografica e strategica ("Chi detiene il Kosovo detiene i Balcani") che ha conferito al Kosovo e alla Metohija, già nel XV secolo, un posto importante nei piani dell'imperialismo ottomano. L'islamizzazione di questa regione inizia allora attraverso una colonizzazione da parte del popolo turco (con le sue guarnigioni e le sue città). Più tardi, e in particolar modo a partire dal XVI secolo, continuerà con una colonizzazione da parte degli Albanesi islamizzati, dapprima nella Metohija e poi nel Kosovo, e anche oltre. Il movimento di queste correnti migratorie della colonizzazione albanese riveste un carattere di distruzione pianificata e di accerchiamento del popolo serbo in quanto protagonista della resistenza anti-ottomana.

Nel corso del XIX secolo, dopo le vittoriose insurrezioni serbe nel pasaluk di Belgrado del 1804 e del 1815, tutto questo processo riveste un carattere di espulsione pianificata e metodica dei Serbi, e presenta tutte le caratteristiche del genocidio. Dal XVII secolo il rapporto demografico ha iniziato a deteriorarsi in modo minaccioso: i privilegiati albanesi da poco venuti spezzano le compatte comunità serbe, e si impadroniscono passo dopo passo del paese, al punto che alla metà del XIX secolo, e soprattutto dopo il Congresso di Berlino, si può già parlare di una maggioranza albanese su questo territorio - benché ciò non accadesse ancora in tutte le sue parti e nelle misure che vediamo oggi. Tutto ciò significa che le sventure del Kosovo sono iniziate già nel XVII secolo e soprattutto nel XVIII, che questo processo è andato estendendosi nel corso del XIX secolo e che entra, oggi, in un tentativo finale per cacciare definitivamente il popolo serbo da questo territorio.

Le disgrazie della Chiesa serba in Kosovo e nella Metohija cominciano con le disgrazie del popolo serbo in tutti i momenti fondamentali. Fu così subito dopo la battaglia del Kosovo del 1389: è in quel momento, nei primi anni che seguono l'ecatombe del campo del Kosovo, che sono iniziate stragi e carneficine. Il conquistatore turco non aveva misericordia. Picchiava "sulla testa e sulle membra". Le condizioni di sopravvivenza per la Chiesa serba divennero durissime. Il Patriarca si ritirò nella Serbia della Morava, nella "Despotovine", cosicché, tra la fine del XV secolo e l'inizio del XVI, l'organizzazione della Chiesa serba conobbe la sua più grave crisi.

Il ripristino del patriarcato di Pec nel 1557 mette la Chiesa serba di nuovo, ma per un periodo limitato, in grado di veicolare la spiritualità organizzata del popolo serbo, in assenza di guide politiche - in posizione, dunque, di protezione e di guida. Nello stesso tempo, la Chiesa serba è esposta alle pressioni, alle brutalità e al terrore cronico con cui il potere ottomano tentava di eliminare l'emergere di aspirazioni alla libertà nella popolazione. Nel corso di questi 200 e più anni, fino alla soppressione del Patriarcato nel 1776, la Chiesa serba subisce colpi, ma resiste.

Si sforza di preservare tutti i centri e tutte le testimonianze della spiritualità, il che significa, anche, la coscienza storica del popolo serbo, il patriarcato di Pec con i monasteri, le sante reliquie, gli oggetti di culto serbi, i beni della Chiesa esposti alla confisca e al saccheggio, l'eredità della parola scritta, vestigia della ricca vita letteraria dei serbi nel Medio Evo, quei testi che contengono i principali ricordi serbi, la memoria essenziale della Chiesa e del popolo: la vita dei santi ed i loro uffici, le lodi e le lamentazioni, gli annali e le genealogie, e tutti gli scritti. Preservando e coltivando la vita liturgica e i culti delle reliquie dei monarchi e dei santi serbi, la Chiesa influì sul mantenimento della coscienza del popolo, che sapeva così di aver posseduto uno stato libero cristiano, che sapeva dove l'aveva avuto e che sapeva che valore avevano le carte e i documenti del suo paese.

Tuttavia la Chiesa ha pagato caro questo sforzo: con le vite dei suoi patriarchi e dei suoi vescovi, dei suoi preti, dei suoi monaci e delle sue monache - con il suo martirio. Le fonti storiche, dal XVIII all'inizio del XX secolo, offrono una testimonianza quasi incessante dei drammi del popolo serbo ed anche del martirio della Chiesa. Nei rapporti dei cattolici romani presso la Congregazione romana per la propaganda della fede già nel XVII secolo, ed anche nei rapporti del console serbo in Kosovo alla fine del XIX secolo e alla vigilia della guerra balcanica, non c'è estorsione commessa contro i Serbi ortodossi senza che i primi ad esser colpiti non siano la Chiesa ed il clero. Dalla bastonata all'uccisione, dal saccheggio alla distruzione, tutto è rappresentato e tutto rimane lo stesso nel corso di questa epoca interminabile. Questa monotonia del crimine è terrificante, ma allo stesso tempo questa solidarietà nel martirio della Chiesa con il suo popolo è esaltante.

La missione della Chiesa non si manifestava però attraverso questi aspetti per così dire esterni della lotta per la sopravvivenza del popolo in Kosovo e nella Metohija (come in altri territori). Tutto lo sforzo della Chiesa e tutta la sua sofferenza si giustificavano con la trasmissione dei messaggi più elevati in ordine allo scopo della nostra esistenza che è "al disopra di questo mondo" e che ha più valore e più forza della storia stessa. Nei testi e nei canti della Chiesa, come nelle canzoni epiche, la cui ispirazione ecclesiale è evidente; nelle sue prediche e nei suoi discorsi, nella sua opera spirituale in seno al gregge; nelle preghiere dei monaci e nella loro rinuncia, era sempre sottolineato il valore eterno di una cultura spirituale che, una volta acquisita con il battesimo dei Serbi nel IX secolo e rinnovata e diffusa con il movimento di san Sava nel XIII secolo, ha sempre avuto la necessità di rinnovarsi e di riconfermarsi.

Il suo trionfo spirituale sta in quello che noi chiamiamo "la scelta del Kosovo": non si tratta di una glorificazione delle morte e della disfatta; al contrario, si tratta di una superiorità dello spirito, del sacrificio, dell'amore e della vita. È in realtà il grande messaggio della risurrezione del Cristo, quel messaggio e nient'altro. Nella risurrezione del Cristo si trovano tutto il senso e tutta la ragione della scelta del Kosovo per il Regno dei cieli. È con questa eredità spirituale che la Chiesa visse ed operò nei tempi oscuri della schiavitù e delle estorsioni turche in Kosovo e nella Metohija; la sua volontà era che questo popolo non dimenticasse cosa esso è, in che cosa consiste il suo vero essere e dove si trovano le forze di cui ha bisogno per resistere alle tentazioni della storia: in ciò che è più forte della storia.

Lo scopo della Chiesa è stato, e così doveva essere, salvaguardare l'integrità spirituale del popolo, e ciò vuol dire, prima di tutto, la sua coscienza e la sua morale. È così che si è formata questa considerevole forza di resistenza che, in funzione delle reali circostanze storiche, si è manifestata in maniera tangibile ed attiva, e anche in modo politico. Non è proprio possibile trascurare il fatto che il popolo serbo, nella sua grande massa, non si è lasciato islamizzare, contrastando la forte attrattiva che esercitavano i privilegi che potevano acquisire i nuovi musulmani e che effettivamente hanno acquisito con abbondanza gli albanesi islamizzati a scapito della raja cristiana (la percentuale dei Serbi del Kosovo e della Metohija islamizzati e albanizzati non fu molto alta e, a dispetto delle grandi pressioni ed estorsioni, si attesta tra il 2 e il 3 %). Ciò significa che alcuni valori dello spirito, la dignità e la morale della persona e del popolo nella sua totalità, nella sua "collettività", pesavano di più di tutti i benefici terreni. E ciò vuol dire che erano più forti della morte stessa. Senza tutto questo, non sarebbe stata raggiunta la libertà nazionale nel XIX secolo. Non si sarebbe conservata l'identità nazionale del popolo serbo senza questa energia spirituale che la Chiesa alimentava con tutti i suoi insegnamenti sull'onestà e la giustizia, sull'umanità e le virtù dell'amore, della fede, della speranza, della saggezza e dell'autocontrollo.

La Chiesa serba in Kosovo e nella Metohija accolse la liberazione nazionale del 1912 resistendo alle tentazioni di concepire questa libertà come un'occasione per una sua espansione, per un rafforzamento della fede cristiana ortodossa non fondato sulla libertà di coscienza. Ci ricordiamo i tentativi fatti a Pec nel 1913, sotto l'amministrazione montenegrina e su iniziativa del potere locale, per forzare i musulmani albanesi a ricevere il battesimo. Questo tentativo è stato stroncato sul nascere e condannato nel modo più severo possibile. Idee simili sono emerse dopo la prima guerra mondiale e tendevano, almeno in certi casi, a "reintrodurre" le condizioni di una volta, e "far tornare" il popolo tempo addietro islamizzato alla cristianità, all'Ortodossia, ed anche alla serbità. È proprio grazie all'atteggiamento della Chiesa serba che questi tentativi si sono scontrati con la condanna più severa e che sono stati sventati.

Ciò che la Chiesa difendeva in questo modo non erano solo i diritti elementari dell'uomo e della sua libertà di coscienza, era anche la propria integrità spirituale che poteva essere più minacciata dall'interno che dall'esterno. Riguardo agli Albanesi, la Chiesa predicava "la pace, la tolleranza e la fraternità ", il perdono per le estorsioni e non la vendetta o la punizione. Essa rendeva omaggio alle buone azioni fatte, ed appoggiava gli esempi positivi di comportamento leale dei vojvode di Rugovo e di Decani nella difesa dei diritti dei beni dei monasteri e della popolazione, in conformità alle usanze e alle assicurazioni dei firmani dei sultani che una volta, e soprattutto nel corso del XVIII secolo, tentavano di assicurare da Costantinopoli la legalità e l'immunità della Chiesa e dei beni della Chiesa in Kosovo e nella Metohija.

Con l'avvento della libertà nel 1918, le sciagure della Chiesa non sono purtroppo cessate in queste regioni. Il suo rinnovamento si scontrava con grandi difficoltà, con conflitti "permanenti" con i vicini albanesi, a motivo dei danni alle colture e alle foreste. I monasteri del Kosovo e della Metohija devono ora battersi contro l'incomprensione, la cattiva volontà e la corruzione del nuovo potere. Gli archivi di Decani, per esempio, sono pieni di documenti in cui si può vedere che le traversie non erano cessate, e che in certi momenti erano anche raddoppiate, quando la popolazione albanese era protetta, a danno della Chiesa, dalle autorità statali, locali o distrettuali, molto più spesso di quanto si potrebbe supporre.

I vent'anni del Regno sono pieni di conflitti per la difesa dei diritti di proprietà elementari e dell'influenza della Chiesa serba in Kosovo e nella Metohija. Era pure necessario fare appello ai firmani dei sultani che, almeno formalmente, rispettavano i diritti elementari dei monasteri.

La Chiesa si trovava, inoltre, esposta alle azioni terroristiche dei "Kacaki" albanesi fino al 1924, al punto che l'"alto Decani" doveva avere la sua guardia militare per respingere od impedire gli attacchi contro il monastero.

Durante l'ultima guerra, l'espulsione dei Serbi e della Chiesa serba dal Kosovo e dalla Metohija ha assunto dimensioni notevoli. Gli incendi e le demolizioni delle chiese e dei monasteri ripresero, così come i saccheggi, le espulsioni e gli omicidi.

Anche dopo la liberazione del Kosovo e della Metohija nel 1944, le sofferenze della Chiesa serba non sono purtroppo cessate. I proclamati principi di uguaglianza nazionale e di libertà di confessione avrebbero dovuto permetterle una ripresa pacifica e uno sviluppo nella libertà: la Chiesa serba è divenuta invece il bersaglio non solo dello sciovinismo albanese rinascente, ma anche di un comportamento fazioso da parte dei politici e degli organi del potere a tutti i livelli, da quello locale fino alle istanze superiori. Alle sciagure di sempre se ne sono aggiunte di nuove e ancora più gravi. Gli storici avranno il duro compito di studiare la situazione in Kosovo e quella della Chiesa serba nel periodo che segue il famoso "plenum" di Brioni del 1966. L'esperienza della Chiesa non fu positiva nel corso di questo periodo: in nessun caso si può dire che la Chiesa abbia goduto, in quanto istituzione del popolo serbo, di una qualunque protezione e soprattutto di un qualsivoglia privilegio. Al contrario, lo sradicamento dell'"egemonia grande-serba", che è stata proclamato come uno degli obiettivi principali della politica nazionale jugoslava dopo la guerra, presupponeva numerosi limiti alla vita e all'attività della Chiesa.

Ma le vere e reali sofferenze sono iniziate dopo il 1966; non solo esse non sono state eliminate dopo il 1980, ma sono pure aumentate. La Chiesa è anche diventata il primo bersaglio dello sciovinismo albanese, esposta all'azione sorniona del nemico sul terreno, e al comportamento tutt'altro che benevolo, per non dire ostile, della autorità legali locali. Con i suoi rapporti, il vescovo della Raska e di Prizren informava con regolarità e senza veli il Sinodo dei Vescovi di tutte le forme di violenza cui la Chiesa fu esposta in questa eparchia.

Ciò portò al passo che conosciamo, che la Chiesa intraprese rivolgendosi il 19 maggio 1969 al Presidente jugoslavo Josip Broz Tito. In una lettera ben documentata essa chiedeva la protezione del presidente della Repubblica. Il Concilio della Chiesa ortodossa serba constatava in quell'occasione che si era rivolto a più riprese per dei contenziosi agli organi competenti della Serbia ed anche al governo federale, ma che la situazione non era per nulla migliorata. "Talvolta queste violenze diminuiscono per rinascere altrove e in forma più acuta. Nel corso dell'ultimo anno ha assunto forme sempre più gravi. Non si tratta solo di distruzioni di semine nei campi o di distruzioni di foreste (dei monasteri di Devic, di Decani e di Gorioc vicino a Pec), di pietre tombali spezzate (Kosovska Vitina) ma anche di aggressioni contro persone, contro monaci e monache (nel monastero Binac vicino a Kosovska Vitina; a Musutiste vicino a Prizren; nel monastero di Devic, dove una ferita corporea grave è stata inflitta all'igumena dello stesso monastero; nel monastero di Decani dove è stato ferito con l'ascia un novizio; nel monastero di Gorioc, in cui si è colpito con una pietra in testa lo ieromonaco del monastero, ecc.), cosa che ha provocato l'esodo dei nostri fedeli da queste regioni."

Nella sua risposta del 23 maggio 1969 Tito si rammarica per i gesti che sono stati citati nella lettera della Chiesa ortodossa serba e che "costituiscono una infrazione alla Costituzione della RSFJ". In quanto presidente della RSFJ, farà di tutto "affinché siano impedite le violenze e i crimini illegali, allo scopo di assicurare la vita libera e l'integrità di tutti i cittadini ed anche la tutela dei loro beni". Ragion per cui Tito ha fatto giungere al governo della RS di Serbia la lettera della Chiesa ortodossa serba con il suo punto di vista "sulla necessità di prendere delle misure drastiche per la difesa della legalità".

Tuttavia non solo il resoconto dell'Assemblea fatto nel 1982 e pubblicato nel Glasnik n° 7/1982 (in cui si trova anche la corrispondenza scambiata con il Presidente della Repubblica), ma anche tutti i resoconti fatti fino ad oggi, ivi compresi molti articoli di giornali e l'informazione pervenuta direttamente dalla popolazione e dai credenti, sono ricchi di dati sulla persecuzione ed anche sull'escalation della violenza e sulle aggressioni messe in atto contro la Chiesa ed il clero. Il quadro che se ne ricava è questo: nulla rimane sacro, si profanano le tombe, si aggredisce fisicamente, si disonorano donne giovani ed anziane e soprattutto monache, vengono bastonati i preti, i seminaristi e anche l'arcivescovo di Raska e di Prizren, ci si scaglia non solo contro gli uomini e contro il popolo di Chiesa, ma perfino contro il bestiame delle Chiesa, contro i beni della Chiesa, dunque contro il cibo stesso senza il quale non si può sopravvivere.

La crisi dei rapporti tra le etnie in Kosovo non è più un mistero, non lo è, soprattutto, per l'opinione pubblica jugoslava che non si chiede più quale sia la vittima di questo odio nazionale, dello sciovinismo e del genocidio. La vittima è il popolo serbo, che non invoca e non aspetta altro che l'uguaglianza e la libertà in uno Stato di popoli e di nazionalità libere ed eguali. È il popolo a chiedere la pace e l'uguaglianza. Non nutre spirito di vendetta, vuole solo avere il diritto di rimanere e di lavorare sulla terra dei suoi avi. Nonostante tutte le dichiarazioni fatte, la situazione in Kosovo non è migliorata fino ad ora; mancano, inoltre, le condizioni per una vita ed un lavoro pacifici dei Serbi e soprattutto per il ritorno degli "espulsi". La Chiesa condivide il destino del popolo ed il suo ruolo è particolarmente importante e delicato. È interessante notare che nelle informazioni che si danno e tra le conclusioni stereotipe che si traggono si sente sempre più spesso un apprezzamento negativo in ordine alla pretesa risurrezione del "clerical-nazionalismo" serbo. Sembra che siano sottovalutati gli sforzi onesti fatti dalla Chiesa per salvaguardare tra i Serbi del Kosovo la coscienza nazionale, la volontà di vivere e di sopravvivere sulla propria terra.

Che cosa può e deve fare la Chiesa e quali sono le prospettive della sua azione in Kosovo e nella Metohija?

(1) La Chiesa deve e può combattere per la sopravvivenza dei Serbi in Kosovo, contro le espulsioni.

Essa deve esercitare la sua influenza sui fedeli ricordando loro i santi valori della tradizione e le forze spirituali di san Sava, essa deve incoraggiarli indicando loro le strade della speranza, quelle strade che nell'esperienza storica serba non sono mai state chiuse. Ma perché ciò possa essere realizzato su una base morale più solida, nell'attesa di un qualunque risultato, bisognerebbe ammettere che la questione della sopravvivenza dei Serbi in Kosovo non è una questione che riguarda solo i Serbi del Kosovo; che è una questione per tutti i Serbi. Bisogna che la Chiesa nel suo insieme, e non solo l'eparchia della Raska e di Prizren, operi in questo senso sviluppando la solidarietà, l'assistenza e la cooperazione di tutti i Serbi fuori del Kosovo con tutto quel popolo martire sottoposto alle violenze in questa regione. I Serbi resteranno in Kosovo solo se potranno godere, nella totalità della Serbia e della Chiesa serba, non solo della compassione ma anche di un reale sostegno sul piano morale o sociale e sotto tutti gli aspetti.

(2) Ne deriva una esigenza importante: bisogna che la Chiesa ortodossa serba sia pienamente solidale con la sua eparchia della Raska e di Prizren; non bisogna ricadere in quei peccati di "feudalesimo confederale" di cui si parla molto e a ragione fuori della Chiesa. Il martirio della Chiesa e del popolo in Kosovo riguarda tutta la Chiesa serba e tutto il popolo serbo, e questo dovrebbe apparire non solo nelle parole, ma anche nei fatti e negli atti. Ecco perché mi permetto di far notare che al livello più alto della Chiesa si potrebbe fare molto più di quello che si è potuto fare e realizzare, molto più degli appelli individuali, per così dire privati, di gruppi di preti e di monaci della Chiesa ortodossa serba. La Chiesa può, e io penso deve, informare l'intera ecumene cristiana, e in particolar modo ortodossa, ed anche tutto il mondo civile, di quello che succede a lei ed al suo popolo, in Kosovo. Un "Libro bianco" sul genocidio potrebbe essere preparato con facilità e pubblicato in alcune lingue straniere. Dovrebbe essere rivolto a tutte le Chiese ortodosse e a tutte le confessioni cristiane, ed anche all'opinione pubblica mondiale in genere, per informarle ed ottenere il loro appoggio.

(3) La Chiesa serba deve continuare a lottare per la completa verità sul Kosovo e per il diritto a questa verità. Non si tratta di politica, sfera in cui la Chiesa, in base alla Costituzione, non deve entrare; sono realtà elementari. La difesa di questa verità e la tutela di questi diritti del popolo serbo, e infine della stessa Chiesa di questo popolo, non costituiscono una "politicizzazione" né un "clerical-nazionalismo", ciò dovrebbe risultare chiaro una volta per tutte. Non si può permettere che i diritti esistenziali siano messi in questione, né che la Chiesa sia paralizzata nell'esercizio di questi diritti da condanne di cattivo gusto riguardo ad una pretesa "politicizzazione".

(4) In avvenire la Chiesa serba dovrà, seguendo l'esempio di tutta la tradizione della confessione e del martirio cristiani, predicare l'amore e non l'odio, il perdono e non la vendetta. Nei suoi rapporti con il popolo albanese, essa si sforzerà ad ogni costo di evitare che il sentimento della giustizia e della umanità, della magnanimità e della dignità del popolo serbo mai e a nessun costo vengano spenti. Non è una questione di tattica, è una questione vitale per una Chiesa vera ed ortodossa. L'esempio che fornisce a questo riguardo il vescovo Pavle di Prizren, devo sottolinearlo, è un esempio per tutti noi: sereno come un confessore e come un martire, nella sua fede e nell'amore del prossimo, nella resistenza ma anche nella fermezza, egli difende "ciò che appartiene a Dio", cioè l'anima e la coscienza dell'uomo. Che non si veda in ciò l'espressione di una debolezza: si tratta invece di una grande forza spirituale. Riflettiamo dunque sul Kosovo e su noi stessi in Kosovo in questa condizione di spirito, perché è questo il Testamento di ogni santità serba che vive in Kosovo, anche se noi lo trascuriamo, se lo cancelliamo o lo offendiamo.

Ho parlato della Chiesa nelle avversità del Kosovo. Ciò vuol dire che parlo del Corpo della fede e della santità, dello spirito e dell'eternità in Kosovo. Prima di tutto, la Chiesa, ma anche noi abbiamo bisogno di questa convinzione evangelica che le porte degli inferi non prevarranno, che non bisogna temere, anche se il gregge di Cristo è piccolo, perché, a dispetto di tutto, la vittoria appartiene a Dio.

http://digilander.libero.it/kosovocrocifisso/struttura/articoli_la_chiesa_serba.htm

(traduzione di Roberto Matteazzi)

На Растку објављено: 2008-02-01
Датум последње измене: 2008-02-01 13:21:04
 

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