Maria Rita Leto

Dositej Obradović in Dalmazia

in Custodi della tradizione e avanguardie del nuovo sulle sponde dell’Adriatico, a c. L. Avellini N. D’Antuono, Clueb, Bologna 2006, pp. 415-423.

 

C’è una singolare ricorrenza nella storia della cultura serba: i suoi momenti decisivi sono contrassegnati da una fuga e, più precisamente, dalla fuga in monastero. Rastko, il figlio più giovane di Stefan Nemanja, fondatore della dinastia che creò un grande impero serbo medievale, fugge dalla reggia del padre e si ritira sul monte Athos, prendendo il nome di Sava, e diventando dopo morto San Sava. E da lui, organizzatore infaticabile, tutto si origina: Hilandar, il monastero serbo sul monte Athos, lo stesso patriarcato serbo, così come i monasteri sparsi per tutta la terra di Serbia, e ancora fucine di scrittori, copisti, insomma quel che siamo soliti chiamare una cultura. Una cultura nata all’ombra di Bisanzio e rimasta in tale ombra per tanto tempo, troppo, a causa dell’occupazione ottomana della Serbia del 1459, che blocca ogni normale sviluppo e fossilizza per ben tre secoli, tre secoli e mezzo, quel che aveva cominciato a germogliare.

Anche la fine del lungo medioevo serbo è contraddistinta da un’altra fuga: questa volta è la fuga di un bambino appartenente ai cosiddetti “serbi d’Ungheria”, cioè i serbi che avevano abbandonato la Serbia storica, ridotta in condizioni miserevoli, e si erano rifugiati al di là del Danubio. Questo bambino, a furia di leggere agiografie, breviari e salteri, prende la storica decisione di diventare santo e per questo, dato che “purtroppo” i cristiani al suo tempo non venivano più torturati, cerca un monastero, possibilmente fornito di grotte (poiché di deserti - che sarebbero stati più adatti - , ahimè, aveva scoperto che in quelle zone non ce n’erano) per realizzare lì, in questo monastero, il proprio sogno. Il bambino è orfano, libero da vincoli affettivi, ed effettivamente abbandona il proprio paese natale nel Banato di Temesvár e si rifugia nel monastero di Hopovo. Si chiama Dimitrije Obradović, e in seguito prenderà il nome monastico di Dositej, come egli stesso ci racconta nell’autobiografia, uscita nel 1783 a Lipsia. Autobiografia, libro di memorie, Bildungsroman, in parte (cioè nella sua seconda parte) romanzo epistolare, letteratura odeporica: Život i priključenija (letteralmente Vita e avventure) è tutto questo. Ed è anche il primo libro della letteratura serba moderna: ovvero scritto nella lingua del popolo e non più in slavo ecclesiastico, accessibile quindi a tutti (almeno nelle intenzioni dell’autore) e non solo a quella minima percentuale di lettori in grado di decifrare una lingua ormai morta.

Com’era successo con San Sava, anche Dositej intraprende qualcosa di nuovo e di vasta portata nella cultura serba. Anche lui è un infaticabile ideatore e ha in mente un progetto molto preciso e molto ambizioso per i serbi. Però, perché ciò si realizzi, deve prima avvenire un’ennesima fuga; si tratta in questo caso di una fuga doppia: prima verso il monastero e poi via dal monastero, e la seconda avviene quando il giovane Dositej scopre che i monaci sono esseri umani come tutti gli altri. Per i serbi la fuga di Dositej da Hopovo rappresenta, secondo Vatroslav Jagić, quello che per i musulmani è la fuga di Maometto dalla Mecca a Medina[1]. Praticamente, da questo momento in poi Obradović non si ferma più. La mappa dei suoi viaggi, considerando le condizioni in cui si viaggiava al tempo e la sua situazione economica, è impressionante. Mosso da una specie di febbre, viaggia per tutta l’Europa per imparare e acquisire le conoscenze dell’Occidente e metterle così al servizio del popolo serbo e, più in generale, dei popoli dei Balcani. Ben presto individua nella chiesa ortodossa, che domina ogni aspetto della vita quotidiana, una delle ragioni di arretratezza dei serbi, e non tralascia occasione di criticare i monaci che non si fanno scrupolo di alimentare ogni forma di superstizione. Nel 1782, durante un soggiorno a Halle, il bambino che voleva farsi santo getta la tonaca alle ortiche e indossa “i peccaminosi abiti secolari”[2], diventando un acceso sostenitore di Giuseppe II, nella cui figura vede realizzato l’ideale del sovrano illuminato, “padre amorevole” dei propri sudditi. Il giuseppinismo di Obradović, espresso in più occasioni, è assolutamente genuino, perché il sovrano sembra realizzare quelle che sono le sue stesse idee e perché, con la sua politica, probabilmente più antiungherese e antiturca che filoserba, finisce comunque per favorire i serbi, che lo definiscono “Marc’Aurelio serbo” e “liberatore del popolo serbo”[3]. Altri provvedimenti di Giuseppe II alimentano l’entusiasmo di chi, come Obradović, ha abbracciato le idee dell’Illuminismo: la Patente di Tolleranza del 1781, con la quale veniva riconosciuta la parità di culto a tutte le religioni dell’Impero, la chiusura di molti monasteri - che lo stesso Dositej ritiene inutili quando non dannosi, come ha più volte modo di ribadire, - l’apertura di scuole laiche, l’introduzione del matrimonio civile e del divorzio, la sostituzione del tedesco al latino anche nella liturgia.

È proprio nel decennio di regno di Giuseppe II che escono le opere più importanti di Dositej: Život i priključenija del 1783 e le Basne (“Favole”) del 1788, opere che meglio di altre esprimono il suo illuminismo, segnando sia un discrimine cruciale tra i suoi anni giovanili e l’età della maturità, sia una frattura tra una letteratura serba ecclesiastica in slavo ecclesiastico e una letteratura serba che si sta così avviando sulla via della modernità. È stato detto che dopo Dositej “la letteratura e l’arte serba, sia pure su temi religiosi e scritta da archimandriti e vladike, ebbe un carattere esclusivamente laico”[4]. Non più letteratura medievale, non più Bisanzio dopo Bisanzio.

Tuttavia i giudizi sull’incidenza dell’opera di Dositej nella letteratura serba sono molto discordanti. C’è anche chi, contrariamente a quanto detto sopra, lo vede come l’ultimo anello di quella catena di una lunga tradizione slavoecclesiastica che egli tenta, con poco successo, di avvicinare alle conquiste dell’Occidente, restando però ancora impastoiato nelle proprie radici. Da costoro viene sottolineato come la lingua popolare che Dositej introduce nella letteratura non sia affatto popolare, ma, caratterizzata da slavismi e russismi, sia ancora più vicina allo slavo ecclesiastico che non alla lingua effettivamente parlata dal popolo serbo. Le sue innovazioni sarebbero semplicemente un esperimento fallito rispetto a quel che invece realizzerà, con pieno successo, Vuk Karadžić qualche decennio più tardi. C’è poi chi ritiene che la strada indicata da Dositej sia semplicemente quella che i serbi non presero o non poterono prendere (mi riferisco a un’interessante interpretazione di Nenad Ljubinković[5]). All’inizio della modernità serba, due strade apparivano percorribili, una indicata da Dositej che avrebbe portato l’Europa tra i serbi, e l’altra quella di Vuk che avrebbe portato i serbi in Europa. Finì per essere imboccata la seconda, ma la sola immagine dei Serbi che l’Europa di quel tempo era disposta ad accettare era quella di buoni selvaggi balcanici, tutti dediti alle tradizioni popolari, che in quegli anni entusiasmavano Goethe e Mérimée, e che Dositej, per inciso, non capiva né sopportava. Quest’immagine, da Vuk puntualmente offerta, tracciò un cammino che, purtroppo, considerando gli avvenimenti degli ultimi anni, ha per degenerazione portato a quella che Danilo Kiš definisce “l’ideologia della banalità e del kitsch folklorico”.

È stato notato che l’autobiografia di Dositej ripercorre in modo paradigmatico la storia della cultura serba, ossia, per dirlo con le parole di Stojan Novaković, “come se fosse un racconto metaforico dello sviluppo culturale del popolo serbo di quel tempo”[6]. Lasciando Hopovo, nel 1760, Dositej è ancora strettamente legato al medioevo serbo: vuol raggiungere la Russia, l’unica terra sicura dal punto di vista dell’ortodossia, la sola in cui un serbo possa sentirsi in patria, al sicuro dalle insidie dei cattolici e degli uniati. Come tutti i serbi d’Ungheria, sottoposti a continui, e talvolta pressanti, tentativi di conversione, egli provava una profonda diffidenza verso i cattolici. A Zagabria, prima tappa del suo viaggio, intendeva aspettare, come gli era stato consigliato, un reggimento che si dirigesse verso la Germania e lì unirsi ai molti serbi al servizio della Russia. Nel frattempo, decide di studiare il latino e va a informarsi presso il collegio greco-cattolico della città, che egli ritiene sia un collegio ortodosso; appreso invece che si tratta di un collegio di uniati, scappa via terrorizzato, con le gambe che gli tremano. Nel raccontare questo episodio nella sua autobiografia, Dositej inorridisce al pensiero di quanto a quel tempo egli fosse ancora imbevuto di pregiudizi e “quanto i pregiudizi siano orribili!”[7]

Lo sviluppo di Dositej, metafora del moderno divenire della cultura serba in una direzione laica, razionalista, illuminista, come la si voglia definire, avviene forse anche per caso, secondo la nota teoria del naso di Cleopatra, perché poi da Zagabria Dositej non va a studiare in Russia, ma decide di fermarsi in Dalmazia in modo da risparmiare il denaro necessario per un così lungo viaggio. Fosse andato in Russia e non avesse fatto il maestro ai ragazzi serbi di alcuni villaggi dell’entroterra dalmata (nelle regioni di Knin e Bukovica), probabilmente sarebbe diventato solo un “colto teologo”[8], avrebbe acquisito una cultura più sistematica, ma forse non si sarebbe reso conto del fatto fondamentale: ossia che esisteva un unico modo di insegnare qualcosa ai ragazzi serbi, e questo modo consisteva nell’usare la loro lingua, “la lingua del popolo”, quella che Dositej chiama prosti jezik, limitando l’uso dello slavo ecclesiastico.

I quattro anni passati in Dalmazia tra il 1761 e il 1765, saranno fondamentali per il suo sviluppo successivo ed è interessante che, dopo la Dalmazia, Dositej non vada in Russia, ma al sud, prima a Corfù, poi sul monte Athos, poi per tre anni a Smirne e, infine, nel 1769 di nuovo in Dalmazia (a Scardona/Skradin e a Zara) fino al 1771. Come se avesse deciso di conoscere bene i Balcani e i bisogni dei Balcani, prima di avventurarsi nell’Europa centro-occidentale: a Vienna, Halle, Lipsia, Londra, Parigi ecc.; la Russia sarà solo una tappa fra le altre e nemmeno tra le più formative. Non è un caso che l’attività letteraria di Dositej prenda l’avvio in Dalmazia. Nella sua autobiografia ci riferisce un episodio preciso, che avrebbe fatto sorgere in lui il desiderio di scrivere nella lingua serba “per le splendide figlie e figli” del suo popolo: a casa del pope Avram Simić, dove si trova a soggiornare dopo il ritorno da Smirne, la figlia maggiore del pope, Jelena, gli chiede di tradurle in prosto srpski alcuni brani delle Omelie di Giovanni Crisostomo che Dositej stava leggendo in quel periodo. Se “questo fu il primo motivo e stimolo”, come lui stesso afferma, che lo spinse a scrivere in una lingua comprensibile al popolo e a coltivare questo desiderio per tutta la vita, è probabile tuttavia che anche la raccolta di poesie del Kačić e l'opera satirica di Vid Došen in lingua popolare[9] che, secondo la testimonianza di Sima Milutinović Sarajlija[10], ebbe modo di conoscere in quel periodo, abbiano contribuito con il loro esempio.

Dositej dunque in questi anni, tra il 1769 e il 1770, comincia la propria attività letteraria, ma stranamente non si preoccupa di stampare le opere che produce, né se ne preoccuperà più in seguito. Questo contrasta con il suo successivo e grande desiderio, espresso più volte nell’autobiografia, di vedere stampati i propri lavori, a beneficio dei lettori serbi, che hanno a disposizione così pochi libri nella propria lingua. Si cura talmente poco dei propri scritti dalmati che, se ci sono arrivati, è solo perché essi godettero di grande successo tra i serbi di Dalmazia, da Trieste alle Bocche di Cattaro, e vennero ricopiati e diffusi. In questo modo, oltre ad alcune prediche, ci sono arrivate tre opere, che restano le meno studiate di Obradović[11]: Ižica, Hristoitija, Venac od alfavita. Ižica, nota in Dalmazia come Dositejeva Bukvica (“L’abbecedario di Dositej”), è la forma semplificata di un genere che poi Dositej utilizzerà di nuovo nelle opere della maturità (nelle Basne, per esempio): una serie di sentenze morali, considerazioni e aneddoti ordinati come in un abbecedario fino alla Ižica, l’ultima lettera del vecchio alfabeto cirillico, che egli compone per far piacere alla figlia del suo ospite; Hristoitija è una traduzione dal greco[12], e anche il Venac od alfavita (“La ghirlanda dell’alfabeto”) è un serto di sentenze e aneddoti, che ci è arrivato fino alla lettera K, che traggono origine sia dalle favole di Esopo e dal Fiore di Virtù[13]. La vera, grande novità degli scritti dalmati di Obradović consiste tuttavia nella lingua usata, che riflette quella parlata dai serbi di Dalmazia, e come tale ricca di italianismi e più popolare di quella dei suoi scritti successivi, compresa la famosa Lettera a Haralampije del 1783[14],

È in Dalmazia, dunque, che Dositej comprende quale sia la vocazione della sua vita: “Come d’accordo, trascorro tre anni con questi uomini di Dio, tre graditi anni che ricordo sempre con cuore lieto e che ho posto a fondamento di tutta la mia successiva vita”[15]. Infatti, da questo momento in poi fino agli ultimi mesi trascorsi a Belgrado come Ministro dell’Istruzione e fondatore della Velika Škola (la futura università), il suo impegno pedagogico non verrà mai meno.

Dei punti del suo programma di educazione del popolo serbo, - introduzione della lingua popolare in letteratura, l’accesso all’educazione per tutti, donne comprese, tolleranza religiosa, - i primi due vengono già delineandosi in questi anni dalmati, trascorsi da Dositej a stretto contatto con quel popolo che rimarrà il destinatario dei suoi studi e del suo impegno. Da qui la necessità, chiaramente avvertita fin dall’inizio, di scrivere in una lingua accessibile a tutti, perché un popolo che non può utilizzare propria lingua, è destinato, come lo scrittore più volte ebbe a sottolineare, all’alienazione e alla rovina.

 

  1. V. Jagić, Zasluge Vuka St. Karadžića za naš književni jezik, “Književnik ”, 1, 1864, p. 451.
  2. D. Obradović, Izabrani spisi, Beograd, Matica Srpska, 1989, p. 217.
  3. Vedi la Pjesna o izbavljeniju Serbije (“Poesia sulla liberazione della Serbia”) di Obradović del 1789.
  4. “[…] srpska književnost i umetnost, i o religioznim temama, i u stvaranju arhimandrita i vladika, ima isključivo svetovni karakter”:V. Đurić, [prefazione], D. Obradović, Izabrani.., cit., p. 9.
  5. N. Ljubinković, Put kojim nismo pošli - Beseda o Dositeju, “XVIII Stoleće”, V, 2004, pp. 131-5.
  6. “… kao da je metaforična pripovetka o datadašnjem kulturnom razvitku srpskoga naroda”: S. Novaković, Dositej Obradović i srpska kultura in AAVV, Spomenica Dositeja Obradovića, Beograd, Srpska Književna Zadruga, 1911, p. 19.
  7. Ingiusta è l’accusa di intolleranza religiosa mossagli dal Tommaseo, dal momento che Obradović è il primo a pentirsi dei propri passati pregiudizi (J. Pirjevec, Niccolò Tommaseo tra Italia e Slavia, Venezia, Marsilio Editore, 1977).
  8. M. Kostić, Dositej Obradović u istoriskoj perspektivi XVIII i XIX v., Beograd, Srpska Akademija Nauka, 1952, p. 30.
  9. Si tratta del Razgovor ugodni naroda slovinskoga di Andrija Kačić Miošić (1756) e di Aždaja sedmoglava di Vid Došen (1768).
  10. M. Kostić, Dositej..., cit., p. 30. Vedi anche K. Milutinović, Vojvodina i Dalmacija 1760-1914, Novi Sad, Institut za izučavanje istorije Vojvodine, 1973, pp. 5-6.
  11. Vedi: M.V. Stojanović, Dositejevi spisi iz Dalmacije, “Zbornik Filozofskog Fakulteta”, IX, 1, pp. 295-304.
  12. Fu lo slavista Milan Rešetar il primo ad individuare la fonte di Hristoitija: M. Rešetar, Dva sitnija priloga. I. Dositej u Smirni; II. O Hristoitiji, “Brankovo kolo”, XVII, 1911, pp. 186-7.
  13. M. Sironić, Esopska basna u Vencu od alfavita i Ižici Dositeja Obradovića, “Rad JAZU”, 324, 1962, pp. 247-275.
  14. Nel Pismo Haralampiju, la lettera che scrisse all’amico Haralampije Mamula, parroco della chiesa di San Spiridione di Trieste, Dositej dichiara che da quel momento in poi avrebbe scritto sempre e solo in una lingua comprensibile al popolo. A proposito degli italianismi nelle opere di Dositej vedi: Lj. Šimunković. Italijanizmi u Dositejevim djelima, “Naučni sastanak slavista u Vukove dane”, 19, 2, 1990, pp. 337-347.
  15. “Tri godine, po pogodbi mojej, provedem s onim božijim ljudma, tri mile godine, koje vsegda s uslaždenijem srca spominjem i koje sam za osnovanje svemu sljedujućemu mojemu življenju položio”: D. Obradović, Izabrani spisi, cit., p. 159.

Prof. Maria Rita Leto (Facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Università degli Studi "G. d'Annunzio" Chieti e Pescara)

 

На Растку објављено: 2008-02-19
Датум последње измене: 2008-02-19 08:25:51
 

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