Alina Kreisberg

Le storie colorate

 

Devo il titolo di questo libro ad un delizioso lapsus della mia cara amica e giovane collega dottoressa Persida Lazarević: le sue “storie colorate”, al posto del banale “colorite” evocano quasi l'attributo della mente di Ermete poikilométis (P. CITATI, 2000:37) “mente…colorata come una pittura o un tappeto o la coda di un pavone: ma anche artificiosa (…) ed intricata ed enigmatica come i nodi, i labirinti”. “Intricato” ed “enigmatico” sono aggettivi che si applicano altrettanto bene al sistema dei termini cromatici nelle lingue di mia conoscenza. Ma il mio debito di riconoscenza nei confronti della dottoressa Lazarević va ben oltre questa provvidenziale svista linguistica: essa mi è stata di grande aiuto non solo nella qualità di “dizionario vivente” di serbo-croato, ma anche con le scrupolose ed appassionate ricerche bibliografiche. Per quanto riguarda invece il corpus russo, un cordiale ringraziamento va alla dottoressa Svetlana Slavkova che, con grande acume e diligenza, ha voluto rivedere gli esempi attinti alle fonti e suggerirmene numerosi altri in base alla sua competenza di parlante nativa e di linguista. Ringrazio le colleghe, prof. Maria Rita Leto e prof. Maria Zalambani per la pazienza con cui hanno riveduto il dattiloscritto, fornendomi molti preziosi suggerimenti sia per le lingue slave di loro competenza, sia per la stesura del testo italiano. Altri consigli stilistici li devo alla dottoressa Elena Ricci che si è assunta inoltre l'ingrato compito di aiutarmi nella preparazione del libro per la stampa.

Last but not least, ringrazio il signor Remo Paciocco che ha voluto farmi il raffinato e spiritoso regalo del progetto grafico della copertina.

L'ultimo ringraziamento infine va al caro amico e maestro prof. Michele Colucci che, senza intervenire direttamente nella ricerca, mi sempre incoraggiato nel mio lavoro.

 

Introduzione

O zieleni można nieskończenie.
J.Tuwim, Zieleń in Treść gorejąca

Credo che a tutti i bambini, verso l’età di 3-4 anni, capiti di anticipare riflessioni  wittgensteiniane[1] , col porsi la  domanda: “Quale garanzia si ha sul fatto che quello che io , insieme agli altri, chiamo rosso venga recepito da noi tutti allo stesso modo? Forse gli altri, dicendo rosso, percepiscono una sensazione cromatica del tutto differente ?”[2] Per quanto ricordi la mia esperienza personale, nemmeno l’apprendimento, in un secondo tempo, delle nozioni dello spettro cromatico  riuscì a soddisfarmi appieno: quello che mi turbava non era la lunghezza fisica delle onde luminose corrispondente ad un determinato colore, bensì la loro percezione da parte degli esseri umani. Intuitivamente, recepivo l’aporia fondamentale insita nel problema della percezione dei colori:” Il colore come effetto non esiste che al livello dell’occhio”  scrive M. GROSSMANN[3] – “La nozione di colore può essere riguardata sotto tre punti di vista: fisico (in riferimento all’energia radiante), psicofisico (in riferimento all’energia luminosa), psicosensoriale (in riferimento alla percezione cromatica)”. Le mie tribolazioni infantili erano centrate in fondo sulla non-identità del primo e del terzo criterio. In altri termini, a turbarmi era il significato dei cromonini.

Se mi è consentito di indugiare ancora un poco sui ricordi adolescenziali personali, apprendendo le basi di qualche lingua straniera, mi sono resa conto di un altro nodo: quello della concettualizzazione dei termini cromatici. Anche nell’ambito delle lingue geneticamente e culturalmente affini si riscontrano notevoli differenze nella strutturazione del campo semantico-lessicale relativo alla gamma cromatica.”L’aspetto linguistico del colore - vale a dire l’esistenza di un continuum che ogni lingua divide in modo arbitrario in segmenti discreti, l’evoluzione verso sistemi di denominazione sempre più complessi e differenziati - è tema privilegiato dell’etnolinguistica e della psicolinguistica”[4] - prosegue la GROSSMANN. Nella introduzione alla sua monografia dedicata ai cromonimi italiani, catalani, ungheresi e spagnoli, l’autrice traccia un’ampia panoramica storica, esponendo la tesi evoluzionistica sull’affinamento della capacità umana di percepire i colori, l’interrelazione tra sviluppo della terminologia e sviluppo fisiologico delle capacità percettive, quella tra vari stadi di sviluppo culturale e i vari stadi evolutivi della terminologia cromatica, il rapporto tra la latitudine geografica e la sensibilità maggiore o minore ai parametri della luminosità o della tonalità, quello tra sesso, età ed altri  fattori socio-culturali , fino al problema delle anomalie della visione.

 L. HJEMSLEV (1987:57 e ss), nel riportare il suo ormai storico esempio delle differenze tra il sezionamento dello spettro in inglese e in gallese (green, blue, gray, brown vs gwyrdd, glas, llwyd) commenta:

    ”Si può dire che un paradigma in una lingua, e un paradigma corrispondente in un’altra coprano una medesima zona di materia che, astratta da tali lingue, è un continuo amorfo inanalizzato entro cui l’azione formatrice delle lingue pone delle suddivisioni.

    Dietro ai paradigmi offerti nelle varie lingue  dalle designazioni dei colori possiamo, sottraendo le differenze, scoprire tale continuo amorfo, lo spettro solare, a cui ogni lingua impone arbitrariamente le sue suddivisioni. Se le formazioni in questa zona della materia sono per lo più approssimativamente le stesse nelle lingue europee più diffuse, non occorre andare molto lontano per trovare formazioni che ad esse non corrispondono”.

A. WIERZBICKA (1996:286), partendo da dati relativi a lingue “esotiche”, oltre naturalmente a quelli attinti  alle lingue indoeuropee più diffuse, arriva a contestare l’universalità del concetto stesso di colore, e di conseguenza, di cromonimo: “’Colour’ is not a universal human concept. (…) Nor are ‘colour terms’ a universal phenomenon. (…). All languages have a word for SEE, but not all languages have a word for ‘colour’”

“Il fatto che una teoria abbia avuto una vita breve, non significa affatto che si sia trattato di una vita infruttuosa” - scrisse la stessa WIERZBICKA nella sua introduzione all’edizione polacca di Culture, Language and personality di E. SAPIR[5]. L’affermazione, riferita originariamente  alla semantica generativa, si applica alla perfezione al modello  universalista della presenza di cromonimi nelle lingue umane, proposta nel 1969 da B.BERLIN e P.KAY.

  Si ricorderà che la fruttuosa quanto criticata proposta dei linguisti-antropologi americani, più volte modificata dai suoi stessi autori, consiste in una serie implicazionale[6] di undici categorie cromatiche: black/white > red > yellow/green>- blue - brown - grey/orange / purple [7] pink, supposta come universale nelle lingue del mondo .  

Al modello implicazionale corrisponde anche lo schema cronologico dell’ordine di apparizione di un determinato cromonimo distinto in una data lingua.

Tra i termini di colore, alcuni posseggono lo status speciale di “termini basici”, individuato in base ad alcuni criteri misti, di carattere morfologico, distribuzionale e psicologico: il significato non deducibile da quello dei loro elementi costitutivi (cf. per cui non saranno basici ad es. i termini malva o smeraldo, come neppure grigioverde), la mancanza di rapporti di iponimia con altri termini cromatici (cf. zafferano, cremisi), la combinabilità sintattica non soggetta a restrizioni (cf.bigio, castano) e la rilevanza psicologica condivisa da tutti i parlanti. 

Anziché indagare i limiti discreti  nella segmentazione dello spettro cromatico (“category boudaries”), la teoria parte dal supposto dell’esistenza del valore focale (“colour focus”) per ogni colore basico e della sua stabilità interlinguistica. Tale “fuzzy set theory” capace, secondo i suoi autori, di tradurre i fatti linguistici in un “efficace formalismo matematico” (cf. WIERZBICKA, cit., p.294), costituì una svolta epocale nello sviluppo della cromatologia e fino ad oggi viene citata, nella versione iniziale o modificata [8], in tutte le ricerche svolte nel campo.

Eppure sin dall’inizio essa non mancò di suscitare numerose critiche e fu ben due volte revisionata dallo stesso KAY. Molte obiezioni sono  riportate dalla GROSSMANN (cit.,p.16 et ss). Alcune riguardano certe “pecche” metodologiche, come lo stesso ricorso a campioni cromatici industriali per cui lo sviluppo del campo semantico dei cromonimi in varie lingue extra-europee sarebbe condizionato dalla semplice contaminazione con modelli occidentali. Altre, come quelle di M. DURBIN (1972) o N.P. HICKERSON (1971) vertono sulla stessa affidabilità dei dati: il numero degli informatori ed il loro grado di bilinguismo, l’uso non sempre corretto delle fonti preesistenti, la scelta delle aree geografiche. Altre ancora contestano il concetto stesso di colore basico, come fatto universale, avulso dai condizionamenti culturali e dalla frequenza dell’uso.

Più radicali ancora le critiche mosse dalla WIERZBICKA che, come si è detto, per alcune lingue, contesta l’esistenza stessa del paradigma dei cromonimi: ”In English, and in many other languages of the word, “colour” can be regarded as a reasonably self-contained semantic domain. But in the universe of human discourse it is not. (...) In all cultures, people are interested in “seeing” and describe what they see, but they don’t necessarily isolate “colour” as a separate aspect of their visual experience” (1996 cit.:285). L’autrice analizza i termini  gwyydd, latuy in hanunòo, e aoi giapponese , facendo notare come le componenti semantiche rispettivamente ‘umido’, ‘succoso’, ‘transitorio’ facciano parte integrante della loro composizione semantica, non dissociabile dalla componente cromatica. Analogamente  in un cromonimo può essere insita la componente della decadenza, del deterioramento, della perdita di vitalità  o quella di freddo o caldo.” Anche la GROSSMANN (cit.,p.5) osserva: “La valutazione delle divergenze tra lingue diverse deve tener conto anche di altri fattori: ad esempio, in alcune lingue i termini di colore oltre che riferirsi alle variabili di tonalità, luminosità e saturazione, possono contenere anche informazioni di altro tipo (succulenza /vs/secchezza, tratti del tessuto della superficie, tratti di forma e consistenza ecc.)”.

Come spesso succede per le ricerche d’impostazione  tipologico- sincronica, le osservazioni delle  due studiose trovano conferma diacronica in quanto sostiene MARTINET (1987: 273) a proposito dell’indoeuropeo: “La stessa nozione di colore sembra di origine recente. Le parole che oggi hanno questo valore risalgono molto spesso a delle forme che designano l’apparenza, la superficie, la copertura, il piumaggio, il pelo. In latino, per esempio, color va confrontato con cul- di occulere, e con cel- di celare ‘nascondere’”.

Questo tipo di considerazioni fu alla base delle modifiche apportate dallo stesso P. KAY, in collaborazione con C.K. McDANIEL, nel 1978 al suo modello. Nella nuova versione, oltre alle categorie primarie: NERO, BIANCO, ROSSO, GIALLO, VERDE, AZZURRO vengono contemplate delle categorie composite, tipo luce - caldo (BIANCO o ROSSO o GIALLO), scuro-freddo (NERO o VERDE o AZZURRO), caldo (ROSSO o GIALLO) ecc, cui s’aggiungono quelle derivate es. “MARRONE (NERO + GIALLO), VIOLA (ROSSO e AZZURRO)[9] ecc. Non riporto in questa sede l’elenco completo delle 15 categorie di colore fondamentali, in quanto non pertinente all’argomento di mio interesse.

 Apparentemente, infatti,  nel trattare lingue europee altamente sviluppate, l’introduzione delle categorie composite (tratto cromatico + un tratto non cromatico) non sembrerebbe necessaria. In realtà tuttavia è risultato che, anche nelle lingue prese in esame (fondamentalmente polacco, russo e serbo-croato in confronto con l’italiano, con qualche excursus in altri campi)  esistono, per quanto sporadici,  casi di cromonimi che includono nella loro composizione semantica alcuni tratti supplementari, per lo più di carattere valutativo (cf. il capitolo dedicato ai Cromonimi impuri).

Visto che le mie ricerche sono incentrate sulle lingue europee, non dovendo tacciare P.KAY eurocentrismo, non ho potuto tuttavia non notare il suo anglocentrismo, che del resto stranamente è sfuggito a una gran parte dei linguisti  non anglofoni che, dedicandosi a lingue diverse dall’inglese, fanno riferimento ai suoi studi. Resta infatti poco chiaro se gli undici termini semplici individuati siano etichette convenzionali date in inglese (ma che potrebbero essere rese ad  es. con termini numerici) ad undici punti individuati con altri criteri nel continuum fisico, oppure se siano dei punti focali corrispondenti ai valori più tipici dei cromonimi angloamericani.

La stessa obiezione viene formulata da P. WALD (1978:129) nel momento in cui critica le liste dei termini basici, in quanto riflesso di “un certain usage anglo-américain et sa prétendue correspondance à quelque structure immanente” .

Per le lingue di mia competenza, bastano due considerazioni ad invalidare, almeno in parte, l’universalità della teoria, così come viene proposta.

Tutti gli autori consultati che si sono occupati del polacco e dell’italiano (questi ultimi , a dire il vero, di gran lunga meno numerosi) danno per scontata  l’equivalenza tra purple, annoverato da BERLIN e KAY tra i colori basilari, e rispettivamente fioletowy e viola. Di fronte all’esistenza, in entrambe le lingue dei termini porpora, purpureo e, dal lato polacco, purpurowy, la scelta di non usarli in corrispondenza del termine inglese, è dettata dal loro evidente carattere di iponimi rispetto a rosso /czerwony: il dizionario di SZYMCZAK definisce purpurowy come “kolor ciemnoczerwony z odcieniem fioletu” ‘color rosso cupo, tendente al viola’; nel GARZANTI troviamo: porpora – “color rosso vermiglio” (quest’ultimo, a sua volta interpretato come ‘carico’), e analogamente per il russo il dizionario di OŽEGOV definisce пурпур come “темно- или ярко-красный цвет”.

Passiamo ora alla definizione del termine inglese. L’Oxford advanced Learners Dictionary di A.S. HORNBY recita:”red and blue mixed together”, definizione quindi che fa pensare piuttosto al VIOLA. A questo punto tuttavia due riflessioni s’impongono: la prima riguarda la definizione di un termine cromatico basico in termini di un colore misto: la parola green infatti non viene definita come yellow and blue mixed together, bensì come “the color between blue and yellow in the spectrum, the color of growing grass, and the leaves of most plants and trees”, e pertanto da una parte con l’indicazione del posto nello spettro luminoso e dall’altra con il riferimento ai prototipi (valori focali). Il primo dubbio, inerente all’inglese,  riguarda dunque lo statuto basico di un colore recepito, secondo la definizione lessicografica come misto. Il secondo è destato dall’esemplificazione, fornita dallo stesso dizionario, di espressioni sia fisse sia semi-sclerotizzate: a purple sunset, become purple with rage, nonché dai valori simbolici riportati (porpora imperiale, cardinalizia), che corrispondono tutte al porpora, purpureo italiano. Il GARZANTI italiano-inglese offre la traduzione viola e violetto (sinonimi totali in italiano, per quanto – come si dimostra più avanti – non del tutto intercambiabili in tutti i contesti e quindi non completi, nel senso di LYONS, (1968), aggiungendo tuttavia  per purple il corrispondente ‘paonazzo’ e l’esempio dell’espressione “to be raised to the purple” – ‘essere innalzato alla porpora’ . Dato che l’inglese esula palesemente dal campo delle mie analisi, non entro nel merito del problema della scelta, da parte dei due antropologi-linguisti americani del termine purple, anziché violet, sebbene da una piccola inchiesta che ho proposto ad alcuni informatori di madre lingua il “valore focale” dei due termini non sia risultato affatto dissimile da quello dei loro corrispondenti polacchi o italiani. C’è da supporre che tale scelta sia stata dettata dal fatto che violet conserva ancora fortemente la sua motivazione: l’associazione con il nome del fiore, citato dall’Oxford Dictionary come significato primario del lemma. Verrebbe dunque meno il carattere “monolessematico” del cromonimo, elencato da BERLIN e KAY  tra i criteri dell’attribuzione a un determinato termine dello statuto di cromonimo primario. Una spiegazione diversa viene offerta da S. WYLER, (1992: 47): ”English ‘violet’ (…)is a brighter hue (…) ‘purple’ (…) is darker and therefore nearer to saturated ‘blue’ or ‘black’.

Si aggiunga ancora alle considerazioni precedenti una osservazione sulle denominazioni del VIOLA in russo dove il termine фиолетовый ha il chiaro statuto di cromonimo specifico (termine su cui si tornerà più avanti), a combinabilità ristretta fondamentalmente a sostanze coloranti, mentre сиреневый mantiene un forte legame con l’oggetto di riferimento.

Ed è proprio a questo punto che emerge il problema dell’interpretazione stessa del criterio di “semplicità formale”: viene da chiedersi fino a che punto esso sia applicabile allo stesso aggettivo inglese pink (il fatto che nel dizionario il significato cromatico preceda quello sostantivale ‘garofano’ non può essere considerato decisivo), mentre colpisce piuttosto la definizione in termini iponimici “pale red color of various kinds”). R. GRZEGORCZYKOWA (1997: 48) afferma a questo proposito: “Il criterio di semplicità formale (mancanza di motivazione lessicale), ovvero il carattere “monolessematico” non si presta ad essere applicato in modo rigoroso: per l’aggettivo żółty (giallo), diversamente da cytrynowy,[10] la semplicità formale non desta alcun dubbio, a differenza di pomarańczowy ‘arancione’ che pure, in certe concezioni (es. TOKARSKI, 1995) viene annoverato tra i termini primari. Inoltre molti termini incontestabilmente basilari (es. niebieski, czerwony ‘azzurro’,’rosso’ sono storicamente derivati.”[11] In italiano molti cromonimi derivati (rosa, viola, di preferenza marrone) si distinguono dagli altri per la loro invariabilità morfologica[12], eppure, malgrado questa marca, vengono usati tranquillamente da vari autori  in corrispondenza dei termini basilari inglesi , proposti a BERLIN e KAY.

Il secondo dubbio, di natura analoga,  sorge a proposito dei corrispondenti del termine inglese brown: di fronte all’unico cromonimo inglese, in italiano troviamo ben tre termini: marrone, bruno castano,  mentre in polacco coesistono brązowy e brunatny. Sul versante italiano, eliminando come candidato a corrispondente di brown il castano, vista la sua bassissima frequenza[13] e la combinabilità sintagmatica ristretta ai soli capelli e occhi umani, restano tuttavia due termini, per cui si osserva un conflitto nell’ambito dei criteri di “basicità”. Marrone corrisponde indubbiamente al criterio della combinabilità massima con le diverse classi semantiche di sostantivi, avendo tuttavia una frequenza totale di gran lunga più bassa (5) rispetto al bruno (22), il quale invece entra più difficilmente in combinazioni sintagmatiche con nomi di artefatti, nonostante l’esempio vestire di bruno in segno di lutto, addotto dal dizionario GARZANTI.

Conformemente a quanto sostiene WIERZBICKA per brown inglese, il modello prototipico di bruno sembra essere la terra. Si noti marginalmente che alcuni fisici, come E.HEIMENDAHL erano del parere che oltre ai colori acromatici (BIANCO, NERO, GRIGIO) e a quelli cromatici, le cosiddette terre appunto, colori misti, così presenti nella pittura europea (come pure, in diverse epoche, nella gamma cromatica del modo di vestire europeo[14]), costituissero un terzo tipo cromatico a parte, in qualche modo intermedio.[15] La referenza alla terra è invece preclusa per marrone che mantiene trasparente il suo legame lessicale con il nome del frutto. I corrispondenti polacchi, brązowy e brunatny, anche a livello intuitivo, differiscono per la frequenza, di gran lunga maggiore del primo rispetto al secondo. Le osservazioni di TOKARSKI (1995, cit.:163-166) sulla inapplicabilità del prototipo terra al termine brązowy, il cui valore corrisponderebbe soltanto alla seconda parte della definizione della WIERZBICKA (1996, cit.: 138), basata sul suo carattere di colore misto, sono certamente condivisibili. C’è da notare peraltro che il termine brązowy si applica difficilmente alle caratteristiche cromatiche “umane”. [16]A differenza dell’autore, per brunantny (prescindo dalle etimologie e dalla variazione diacronica del significato del termine) supporrei l’esistenza del prototipo terra, confermata anche da una buona combinabilità sintagmatica con la parola ziemia (cf. anche il tecnicismo gleba brunatna). Anche in questo caso pertanto i due termini presentano un caso di conflitto nell’ambito dei criteri di basicità, essendo la presenza di un prototipo caratteristica dei cromonimi di base.La corrispondenza tra brown, usato da BERLIN e KAY e le sue traduzioni nelle due lingue desta non pochi dubbi.

Sul versante opposto, rispetto alla teoria universalista di BERLIN e KAY,  si situano gli studi d’impronta cognitivista del gruppo diretto da E. ROSCH (HEIDER)[17] secondo cui il dominio del colore sarebbe strutturato in categorie semantiche non arbitrarie che si manifestano attorno a prototipi naturali percettivamente rilevanti e pertanto soggetti a condizionamenti sia ambientali sia culturali.

Nelle analisi che seguiranno si è cercato di non entrare nel merito di tali polemiche, così come ho evitato anche di addentrarmi nella sterminata problematica della percezione e dei suoi sviluppi storico-antropologici che del resto, in riferimento alle lingue di mia competenza, non mi sembrano particolarmente pertinenti.  Mi sono fermata infatti alla semplice ed acuta osservazione di - S. WYLER (1992: 8): ”…when people discuss color and language they often concentrate on the phenomenon of color rather that of language. That is to say they argue about perception, the segmentation of the color continuum, emotional response, and much less about their linguistic aspects of colour”. Infatti quello che m’interessava maggiormente non era tanto la concettualizzazione del colore quanto il  funzionamento linguistico dei termini cromatici in vari sistemi.

Rinunciando ad una descrizione olistica del sistema delle lingue prese in esame, mi sono concentrata sulle peculiarità di funzionamento di alcuni termini scelti che, a quanto mi risulta, sono finora  sfuggite ad altri autori. Ho cercato di seguire un metodo fondamentalmente strutturalista: la capacità di un determinato termine di entrare in diverse combinazioni sintagmatiche e quella di commutarsi con altri cromonimi.

Un accento particolare è stato posto sul criterio sintagmatico: la capacità dell’aggettivo di combinarsi con determinati gruppi semantici di sostantivi consente di definirne lo statuto centrale o periferico (basilare o specifico), nonché di scoprire le polisemie latenti. La sua combinabilità con una serie di modificatori di carattere valutativo o relativi all’intensità della caratteristica espressa dal lessema, sia lessicali (avverbi valutativi) sia morfologici (i “suffissi valutativi” secondo S. SCALISE, (1990: 197), o “forme alterate” secondo le grammatiche italiane tradizionali), permette di cogliere alcuni tratti semantici aggiuntivi che accompagnano il valore cromatico. L’impossibilità, o comunque la capacità limitata, di entrare in combinazioni sintagmatiche con gli avverbi d’intensità e le limitazioni dei rapporti paradigmatici sono marca di accezioni speciali in cui un termine cromatico è definito non più per il suo posto nel continuum dello spettro, bensì come membro di opposizioni discrete di varia complessità.

Naturalmente l’adozione di criteri esclusivamente distribuzionali implica la necessità di includere, alla stregua di P. ACHARD (1978) nelle liste dei cromonimi aggettivi come ad es. scozzese o kraciasty: tale soluzione è stata scartata in forza della intuizione linguistica corrente.

Il funzionamento sistemico di un termine, e persino i suoi tratti semantici “aggiuntivi” cui si è accennato, non corrisponde appieno al suo funzionamento testuale, dove oltre al valore referenziale di un termine, entrano in gioco aspetti connotativi, particolarmente complessi nel campo cromatico che tanta parte ha nella vita emotiva e culturale. In termini cognitivisti, si potrebbe parlare di valore prototipico e di associazioni. La concettualizzazione linguistica dei colori in polacco, dedotta dal loro uso nei testi (principalmente poetici) è al centro del bel libro di TOKARSKI (cit., 1995), divenuto il punto di riferimento fisso per tutti gli studiosi polacchi che s’interessano al problema dei cromonimi. E’ stata probabilmente la scelta del corpus a determinare la dualità del valore associativo (e non di rado anche del prototipo), positivo o negativo, constatata per quasi tutti i termini esaminati. In ogni termine cromatico, in funzione del denotato immaginato, si possono distinguere i significati della morte o del degrado o, al contrario, del risveglio alla vita. Particolarmente interessante l’esempio di brunatny (pp. 197-199) colore decisamente negativo, associato ad oggetti brutti, alla tristezza, alla malattia, alla morte che però, in certi contesti poetici, es.: brunatnieją głązki (‘i ramoscelli *bruneggiano, *rimbruniscono, diventano bruni’[18]) può essere interpretato come ‘che riacquistano vita, colore’.

Ora, i valori connotativi del lessico cromatico sono stati affrontati in modo piuttosto marginale nei paragrafi dedicati ai Cromonimi “impuri” e ai Colori belli e brutti nonché, indirettamente, negli Accenni morfologici (è inimmaginabile infatti l’impiego di una forma italiana in –astro, in un testo che tratti di moda o di arredamento).  Affrontare l’argomento in modo più sistematico equivarrebbe, da una parte, ad entrare nel campo stilistico e dall’altra avventurarmi nella sterminata materia delle simbologie culturali, religiose, di costume e quant’altro si possa immaginare. Ad illustrare  la complessità dell’argomento basti un curioso brano del Trattato de i colori nelle arme, nelle livree et nelle divise di Scillo, araldo del re Alfonso d’Aragona (1458), pubblicato in italiano nel 1565. L’autore propone un modello cromatico d’abbigliamento, avulso dai condizionamenti delle mode ed ispirato al perfetto rispetto del codice dei simboli cromatici[19]:

    “La berretta dovrà essere scarlatta, per dimostrare prudenza, perché il rosso è il colore più moderato che ci sia (tutte le sottolineature sono mie);  (...)il robone dovrà essere incarnato per mostrare il gusto della vita piacevole (...); il grembiale sarà rosso per significare ch’ella sente l’ardore dell’amore di Dio (...) i guanti dovranno essere rossi perché significhino carità che esce dalle mani di una donna virtuosa (...)le tempie ornate di incarnato, per mostrare la prudenza che l’accompagna.

    (...)il giubbone dovrà essere nero per mostrare come la magnanimità debba racchiudere il cuore e il corpo dell’uomo; (...) le scarpe dovranno essere nere (...) per la semplicità dei passi (...)la cintura nera per mostrare la magnanimità (...) attorno alla testa dovrà avere alcuna cosa nera, per dare ad intendere che deve pensare alla morte (...)”

Da questo galateo cromatico cortigiano - di gran lunga più variegato -  mi sono limitata a trarre pochi esempi, sufficienti ad illustrare la molteplicità e l’eterogeneità di valori simbolici associati ad uno stesso colore, a volte in modo per noi del tutto sorprendente (rosso uguale a prudenza e moderazione; nero come segno di magnanimità), in altri casi socialmente condivisi, spesso comunque in totale contrasto tra loro.

La stesura di questo opuscolo è stata preceduta da una serie di articoli ed interventi congressuali, che sono serviti da spunto ad alcuni capitoli. Il capitolo Gatto bianco, gatto nero è nato in base all’articolo Quelques réflexions sur le champ sémantique des couleurs dans les langues plus ou moins exotiques. in: La pensée et la langue. Kraków, 1999, Wydawnictwo Naukowe AP, pp. 110-118 "; all’origine di In blu dipinto di blu si trova  l’articolo  De la couleur du ciel. in: Actes du XXIIe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes, Bruxelles 1998, Tűbingen 2000, Max Niemeyer Verlag, vol.VII, pp. 359-367, mentre Beleet parus odinokij costituisce la versione ampliata dell’articolo dallo stesso titolo, apparso su “Kwartalnik Neofilologiczny”, XLVII, 1/2000, pp. 99-108. Inizialmente le mie riflessioni  hanno riguardato solo le due lingue con cui ho un contatto quotidiano: il polacco e l’italiano con poche sporadiche incursioni in altri campi. Successivamente ho pensato di estendere il raggio delle indagini anche al russo e al serbo-croato. Giacché i fenomeni semantici di mio interesse abbracciano indifferentemente le aree serba e croata, tranne le poche divergenze che vengono segnalate,  continuo ad usare il tradizionale termine serbo- croato, limitandomi ad annotare, ove necessario, le versioni ekava e jekava dei termini citati.

 

Gatto bianco , gatto nero

 

R. TOKARSKI (1995, cit.: 36 e ss.) distingue due accezioni dei termini BIANCO e NERO, gli usi quantitativi opposti a quelli qualitativi. Tale distinzione gli consente di conciliare le tesi di Ju. APRESJAN (1980) d’ispirazione strutturalista con l’approccio sostanzialmente cognitivista di A. WIERZBICKA (cit.).

Nella loro accezione quantitativa le denominazioni del BIANCO e del NERO formano una coppia antonimica: in altri termini, corrispondono all’opposizione tra il chiaro e lo scuro. Il concetto s’avvicina al pensiero di Ju. APRESJAN (cit.: 30), al punto in cui nel significato letterale di BIANCO e NERO viene messa in risalto la componente antonimica[20]. APRESJAN nota tuttavia che nell’uso naturale, ovvero descrittivo dei due termini (‘il colore della neve’ – ‘il colore del carbone’) il carattere  antonimico della coppia viene meno. Di conseguenza, per evidenziarlo si sarebbe dovuto ricorrere a definizioni enciclopediche, del tipo: ‘che riflette tutte le radiazioni visibili’ vs ‘che assorbe tutte le radiazioni visibili’, in palese contrasto con la fisica “ingenua”.

La WIERZBICKA (cit.: 99), dal canto suo, ricollega il carattere quasi-antonimico della coppia BIANCO-NERO all’opposizione affine tra il CHIARO e lo SCURO. Il suo ragionamento, in polemica con B. BERLIN e P. KAY (1969), si basa sulla premessa della stabilità focale dei cromonimi, legata a quella delle loro referenze prototipiche, radicate negli universali dell’esperienza umana.

Due aspetti richiedono tuttavia una precisazione: il rapporto tra i prototipi e le combinazioni sintagmatiche più frequenti, nonché il loro carattere universale. Il prototipo, nell’approccio cognitivista,  non è un esempio-modello , ma piuttosto un punto fisso di riferimento che non corrisponde necessariamente alle combinazioni sintagmatiche del termine: se, per esempio, in polacco la terra può essere considerata come prototipo di brąz[21], l’aggettivo brązowy (‘bruno’, ‘marrone’) compare in riferimento a ziemia ‘terra’ in occasioni del tutto sporadiche, con una frequenza non maggiore a quella di czerwony ‘rosso’ e certamente inferiore a czarny ‘nero’.

Del resto i riferimenti ai prototipi variano da lingua a lingua, anche nell’ambito delle realtà geo-culturali relativamente vicine e non sono direttamente legati alle parentele genetiche, problema che sarà ripreso in seguito.

Secondo la WIERZBICKA, la coppia BIANCO e NERO[22] si ricollega alla capacità umana di percepire visivamente il mondo: il prototipo non va ricercato, come avviene per gli altri cronomimi, in un oggetto concreto di percezione, ma s’identifica con la stessa capacità di visione della realtà oggettuale, con la possibilità (o meno) di vederla. Pur partendo da premesse metodologiche del tutto diverse[23], anche M. IVIĆ (1995: 14 e ss.) considera il BIANCO e il NERO come due estremi della scala continua di luminosità. Ai ben noti esempi di europeismi quali bela kava (variante croata) o kafa (in una parte ristretta del territorio serbo) o belo vino, l’autrice aggiunge un interessante esempio russo antico беле очи  ‘gli occhi bianchi’, corrispondenti ad ‘occhi del colore più chiaro tra le tonalità esistenti degli occhi umani’. R. TOKARSKI (1995,cit.: 41) scrive a questo proposito: “Il legame del BIANCO e del NERO con la luce, la luminosità, piuttosto che con una qualità cromatica, un colore, si spiega perfettamente con le referenze prototipiche GIORNO e NOTTE”. TOKARSKI classifica come quantitative (antonimiche) coppie quali biała rasa – czarna rasa, biały chleb – czarny chleb, biała kawa – czarna kawa, per le quali si cercherà di proporre una classificazione alquanto diversa. Agli usi quantitativi dei due termini si contrappongono, secondo l’autore (ibidem), il BIANCO e il NERO qualitativi che, accanto alla componente quantitativa di luminosità, includono nel loro significato la caratteristica del valore cromatico: è questo il caso dei prototipi solitamente citati dai dizionari: la neve, il latte, il sale ecc.

Il posto a parte riservato ai due cromonimi nel repertorio dei cromonimi di base non suscita alcun dubbio. Le considerazioni della WIERZBICKA hanno trovato una conferma empirica nella piccola inchiesta[24] condotta tra i miei studenti pescaresi cui ho chiesto di enumerare, nell’ordine più spontaneo possibile, sei nomi di colore con le associazioni da essi evocate. Se per gli altri cromonimi le associazioni erano orientate piuttosto verso referenti prototipici concreti tipo rosso – sangue, fuoco, mattone; verde – prato, natura, fiume; azzurro/blu[25] - mare, acqua, pesci (probabilmente per l’associazione con il pesce azzurro; sorprende tuttavia la mancanza della referenza al cielo), nel caso del bianco e del nero le associazioni letterali, o “qualitative” nel senso di TOKARSKI sono state pressoché assenti. Per il nero le associazioni dei miei informatori sono state: buio, notte, profondità (senza contare quelle ricollegabili piuttosto al funzionamento sociale del colore, tipo tristezza, morte, mistero e, una volta, sorprendentemente, distinzione[26]), connotazioni che in parte convergono con il prototipo della WIERZBICKA.

Eppure i prototipi polacchi biały – dzień, czarny – noc non sembrano valere per l’italiano. Non si tratta soltanto della mancanza di corrispondenti delle espressioni linguistiche biały dzień/czarna noc (mentre in francese funziona ad es. arriver à nuit noire, senza però alcun corrispondente dal lato del BIANCO; il russo, al contrario, possiede l’espressione средь бела дня, senza però il corrispondente “notturno”; la stessa situazione si riscontra in serbo-croato: usred bijela/bela dana, za bijela dana): come si è detto, tra il prototipo e l’esempio linguistico tipico, non deve esserci necessariamente la corrispondenza univoca. A proposito del bianco quantitativo, E. TEODOROWICZ-HELLMAN (1997: 39), in un raffronto tra i sistemi cromatici svedese e polacco, sostiene che il rinvio al prototipo della luce, al posto di quello del giorno, possa ricollegarsi alle caratteristiche climatiche di  un paese dove la giornata non è necessariamente luminosa e, a volte non differisce affatto dalla notte. Personalmente, penso che l’assenza del prototipo di giorno per il bianco italiano (l’associazione più frequente tra i miei informatori è stata la pulizia o la purezza morale), nonché l’assenza di fraseologismi corrispondenti a biały świt (lett.’alba bianca’, lo spuntare dell’alba) siano forse dovuti all’esplosione dei colori tipica di una giornata mediterranea, ben diversa dalla luce biancastra del clima nord-europeo. Analogamente l’associazione del BLEU con il mare e i pesci si può ricollegare alla posizione geografica di Pescara; sono però convinta che questo tipo di riferimenti alla realtà climatica o, più generalmente, extra-linguistica, senza essere necessariamente erroneo, sia  tuttavia di scarso aiuto per la soluzione di un problema linguistico.

Secondo TOKARSKI, il rapporto tra il significato quantitativo e quello qualitativo non è identico per i due membri dell’opposizione (1995,cit.: 45): “Nel caso del BIANCO, l’accezione quantitativa prevale su quella qualitativa (…). Per il NERO i due significati – qualitativo e quantitativo – sono subordinati alla notte”. La WIERZBICKA attribuisce questa asimmetria al rapporto percettivo più evidente tra il NERO e l’oscurità notturna.

La stessa mancanza di simmetria colpisce nella definizione delle due voci, fornita dal dizionario GARZANTI. E’ vero che in entrambi i casi il punto di partenza è dato dalle definizioni in termini di fisica, poco pertinenti per la percezione spontanea: per il nero “colore proprio di una superficie che assorba completamente tutte le radiazioni visibili emesse dal sole, senza rifletterne alcuna” , e per il bianco “colore proprio di una superficie che rifletta tutte le radiazioni visibili emesse dal sole, senza assorbirne alcuna”, ma se per il nero il passaggio alla definizione “spontanea”, vicina allo scuro è immediata: “in natura è il colore più scuro che ci sia, quello dell’inchiostro, del carbone, della pece: occhi, capelli, nuvole nere”, cui fa seguito una serie di esempi manifestamente “quantitativi”: colletto, polsini neri ‘sporchi’, pane, caffè nero ,per la voce bianco il significato “che ha colore chiaro, in contrapposizione a un’altra varietà di colore scuro”, illustrato dagli esempi pane, vino, oro, razza, carni, uva è trattato separatamente. Non è stato possibile il raffronto diretto con il dizionario di SZYMCZAK. Le divergenze nel modo di definire le due voci sono dovute probabilmente alle metodologie diverse adottate dai vari autori dell’opera: le stesse combinazioni per biały sono trattate come semplici fraseologismi, mentre per la voce czarny compaiono come unità lessicali separate[27].

Ora, indipendentemente da tale asimmetria, gli usi che per il momento continuo a definire come quantitativi, si avvicinano alle opposizioni binarie riscontrabili nelle lingue a terminologia cromatica poco sviluppata. Si tratta del MACRO-WHITE e MACRO-BLACK di BERLIN e KAY che, in tali lingue, abbracciano l’intero spettro cromatico. Questo tipo di divisione binaria è suscettibile di diverse interpretazioni: la si può identificare con l’opposizione ‘chiaro’ – ‘scuro’, o, secondo il modello di E. ROSCH (HEIDER)(1971) con quella tra il ‘chiaro-caldo’ e lo ‘scuro-freddo’. Com’è già stato accennato, l’introduzione di un terzo colore di base, equivalente al MACRO-RED comporta una trasformazione generale del sistema: mentre l’estensione del MACRO-BLACK rimane invariata, il MACRO-WHITE si sdoppia, dando origine al bianco autonomo, opposto ad una gamma di gialli e di rossi.

Un sistema di cromonimi di base limitato ad una opposizione binaria o ternaria non equivale ad una povertà lessicale assoluta: il somalo, per esempio, dispone di un ricco repertorio terminologico per definire il mantello degli animali. Si tratta tuttavia di cromonimi secondari che non corrispondono ad uno dei criteri fondamentali per l'identificazione dei termini di base: la combinabilità sintattica estesa[28]. Inoltre, il somalo dispone di una serie di prestiti antichi e ben assimilati, quali buluug ‘blu’, o più recenti come p.es. viola, che ricopre il campo del viola e del marrone, principalmente in riferimento agli artefatti. Senza entrare nel problema del carattere morfologico degli aggettivi somali[29], né nell’organizzazione del campo dal punto di vista dell’iponimia e dell’iperonimia, trovandomi nell’ottica europea ed essendo rimasta colpita da questa estensione “anomala” del cromonimo viola, ho chiesto ai miei studenti somali, tutti bilingui, di definire il colore dei miei capelli (castani).I miei giovani interlocutori però non avevano capito che la domanda verteva sul termine della loro lingua, per cui la risposta unanime, in inglese e in italiano è stata “bianco”. Di fronte al mio disappunto, hanno provveduto immediatamente a correggere il tiro in “dorato”. Mi sono chiesta in seguito come mai a nessuno fosse venuto in mente il ROSSO, giacché il somalo dispone dei termini guduun, tradotto dal dizionario somalo come “rosso” e da quello inglese come “brown” (il che mi ha fatto supporre la presenza di un MACRO-RED) nonché cawl, cawlaan, reso in inglese come “yellow” e in italiano come “rossiccio”. Solo in seguito ho saputo che il primo termine si riferisce alla criniera equina, mentre il secondo indica anche una specie di gazzella. Non potendo usare in riferimento ai capelli umani un aggettivo specifico del tipo kary, gniady, bury in polacco o bigio, sauro in italiano, viste le loro forti restrizioni selettive, i miei informatori mi hanno detto semplicemente: ”i tuoi capelli sono più chiari della media, appartengono alla categoria delle cose chiare” e, in seconda battuta, hanno fatto ricorso a un termine derivato secondario.

Un altro esempio del modo in cui la divisione cromatica binaria possa determinare la percezione del mondo mi è stato offerto da un sarto che, beatamente, adoperava il filo azzurro pallido per cucire un tessuto color panna. Non si trattava certo di un caso di daltonismo: il bravo artigiano, pur sostenendo che si trattasse dello stesso cad ‘bianco’ del tessuto, ha perfettamente capito come mai insistessi a definire il filo come buluug. Semplicemente la differenza tra le due tonalità dello stesso MACRO-WHITE era per lui altrettanto irrilevante come lo potrebbe essere, per un suo collega europeo, la differenza tra due sfumature del nero (viene da pensare all’asimmetria semantica tra i due termini segnalata dalla WIERZBICKA e da TOKARSKI).

Indipendentemente da questa parentesi esotica, mi sono chiesta fino a che punto la dicotomia “quantitativo” vs “qualitativo” sia veramente sufficiente per classificare tutte le accezioni dei termini bianco e nero riportate dai dizionari (il ragionamento è basato principalmente sul polacco e sull’italiano, con qualche incursione nel terreno russo e serbo-croato, ma può essere agevolmente esteso ad altre lingue della medesima area culturale), compresi gli usi figurati con argomenti astratti e almeno una parte di locuzioni fisse. In altri termini, mi sono interrogata sull’opportunità, al fine di cogliere meglio il rapporto tra i due membri dell’opposizione, di aumentare il numero delle caselle della griglia descrittiva.

Certo, le espressioni idiomatiche legate ai costumi o ai  condizionamenti storici specifici di una data comunità linguistica ed estranee ad un'altra (o ad altre) non si prestano ai confronti. E’ questo il caso del polacco biały mazur (ballato all’alba, a conclusione delle feste danzanti), di czarna polewka (‘minestra nera’ equivalente al rifiuto di una proposta matrimoniale); biała płeć (‘sesso bianco’ derivato, come białogłowa, dal colore del copricapo femminile)[30]. Se le due espressioni sono ormai obsolete o comunque passibili di essere usate soltanto in contesti storici, le espressioni biały walc e białe tango (così come il russo белый танец ‘il ballo in cui sono le donne ad invitare gli uomini) continuano ancora a funzionare, finché la rivoluzione dei costumi non  finirà col relegarli definitivamente nel mondo dei teneri ricordi. Se al russo черный понедельник(‘lunedì nero’)  corrisponde il  serbo-croato črni petak (‘venerdì nero’,anche in bulgaro si ha черен петок ), è perché esiste una differenza nel considerare infausti determinati giorni della settimana . Il russo сказка про белого бычка ?favola di un torello bianco’ è legato alla favolistica popolare, mentre il colloquiale белый билет  ‘certificato di non idoneità al servizio militare’ ha radici nella realtà quotidiana. Sul versante italiano troveremo l’aristocrazia nera ‘nobiltà romana rimasta legata al potere secolare del papa’, le brigate e le camicie nere ‘fasciste’, i sindacati bianchi ‘democristiani’ e, storicamente, bianco nel significato di guelfo. Tuttavia, indipendentemente dalla loro origine storica, una parte di queste locuzioni si prestano ad essere classificate secondo lo schema che desidererei proporre. Si tratta di espressioni come esempio le brigate rosse o nere, sindacati bianchi o rossi, in polacco biały e czerwony barszcz, in russo белая e черная кость’ origini aristocratiche o plebee’ con sfumatura leggermente ironica, белое  e черное духовенство ‘clero secolare e quello regolare’, in serbo medievale troviamo črnac, črnica, (o più esattamente ÷ðüíüöü, ×ðüÍèöÀ) riferiti ai monaci cui si oppone sporadicamente belac/bijelac ‘un laico’ (in VUK il termine si riferisce anche ai monaci cattolici, causa colore delle loro vesti)[31].D’altra parte, in tutte le lingue prese in esame troveremo una lunga serie di locuzioni corrispondenti, una specie di europeismi fraseologici, quali notti bianche/białe noce/белые ночи /bele noči, mercato nero/czarny, rynek/,черный рынок cr.črna burza, ser.črna berza (funziona anche il germanismo šverc), pensieri neri/czarne (mroczne) myśli, черные мысли mysli črne (mračne) misli, pecora nera/czarna owca/s.cr. črna ovca, biała broń/arma bianca (però in russo e in serbo croato, un po’ meno idiomaticamente холодное оружие, hladno oružje), continente nero/czarny kontynent, s-cr.črni kontinent . Talvolta le corrispondenze sono solo parziali e non prive di qualche insidia: è il caso del polacco biały kruk, apparentemente vicino al russo белая ворона, serbo-croato (e bulgaro) bela vrana e al francese le merle blanc, che in italiano si tramuta in mosca bianca. Tuttavia nelle due lingue romanze le espressioni, apparentemente divergenti, indicano entrambe genericamente una rarità; lo stesso significato generico si ritrova in serbo-croato; l’espressione russa ha per lo più referenti umani, mentre il “corvo bianco” polacco si riferisce ad una rarità bibliofila e solo di recente ha iniziato ad ampliare la sua estensione, senza ricevere ancora il benestare dei normativisti[32]. Ancor più fuorviante può risultare l’accostamento della morte bianca in italiano ‘morte sul luogo di lavoro’  con bela smrt in serbo-croato (e in bulgaro) ‘morte per assideramento’. Curiosamente, nei dizionari italiani consultati, tale accezione dell’espressione morte bianca, che dalle mie indagini risulta la più comune, non compare: sia il GARZANTI che il SANSONI la segnalano con significato identico a quello delle due lingue slave meridionali di ‘morte per assideramento’, a cui il GARZANTI aggiunge il significato di ‘morte per abuso di cocaina’. Il SANSONI registra invece l’espressione  omicidio bianco. In nessun dizionario figura la curiosa accezione ‘morte di un bambino non battezzato’, che potrebbe rientrare nella serie in cui il bianco è associato al concetto di mancanza, ma che comunque risulta sconosciuta alla maggior parte dei miei informatori.

A volte, più che di discrepanze, si tratta di corrispondenze incomplete: il polacco condivide con l’italiano la settimana bianca (espressione totalmente sconosciuta in serbo-croato), nel senso del periodo dei saldi della biancheria, ma non nel senso di ‘una breve vacanza invernale sulla neve’(assente anche in francese); lo stesso significato ricompare tuttavia in białe szaleństwo ‘la follia bianca’ – gli sci, mentre manca in polacco l’espressione Olimpiadi bianche a cui corrisponde semplicemente Igrzyska zimowe ‘giochi invernali’. Nella tradizione popolare serba invece bela nedela (e i nomi dei giorni che la compongono, accompagnati dall’aggettivo bel, indica l’ultima settimana precedente la quaresima, conformemente all’antico simbolismo luttuoso del BIANCO. Lo stesso attributo bel accompagna i nomi dei giorni della settimana successiva alla Pentecoste. Per la serie di “europeismi” tanto spesso citata dagli autori degli studi dedicati ai cromonimi: café (très)  noir, black/white coffee pol. czarna/biała kawa, s-cr.crna/ bela(bijela)  kafa (kava), rus. черный кофе manca all’appello l’italiano, in cui abbiamo semplicemente il caffè (eventualmente ristretto in corrispondenza del café (très) noir in francese, che tuttavia può essere anche serré) cui si oppongono caffellatte, cappuccino o caffè macchiato (sarà perché il caffè in Italia è certamente un’altra cosa, vi è tuttavia da notare l’assenza del ‘caffè bianco’ anche in francese e in russo, mentre in polacco, se czarna kawa continua ad essere in uso, l’espressione corrispondente biała kawa suona ormai leggermente datata). Il carattere idiomatico, più o meno marcato, di tali espressioni, almeno per una parte di esse, non esclude a priori un tentativo di classificazione.

Si parla di tentativo perché all’interno di ciascun gruppo individuato sono naturalmente possibili altre distinzioni di dettaglio, ma seguire tale linea comporta il rischio di ricadere di nuovo nell’estrema atomizzazione offerta dai dizionari.

Il primo gruppo abbraccia gli usi puramente qualitativi, vicini al valore prototipico: i sostantivi determinati hanno di regola il tratto semantico +CONCRETO. Le differenze tra le lingue prese in esame sono minime: gli esempi prototipici del nero sono identici: il carbone e la pece[33]. Per il bianco il dizionario di  SZYMCZAK fa riferimento al colore della neve e del latte, OŽEGOV alla neve e al gesso, mentre in italiano la lista abbraccia in ordine la spuma del mare, la neve fresca, le piume dei cigni, il gesso, l’avorio (la TEODOROWICZ-HELLMAN /cit/ osserva che il color avorio è percepito in polacco piuttosto come una sfumatura pallida del giallo), l’alabastro. Il dizionario dell’Accademia Serba[34] cita gli esempi della neve e del latte. Il fatto che la neve, esempio prototipico prioritario  del BIANCO nelle tre lingue slave, occupi in italiano  un posto secondario ( del resto la neve non figurava tra le associazioni evocate dal bianco presso i miei informatori) come pure l’impossibilità di tradurre letteralmente in italiano l’espressione zęby białe jak ser ‘*denti bianchi come il formaggio’, citata dal dizionario di SZYMCZAK, sono dovuti a differenze piuttosto marginali riguardanti la realtà extra-linguistica[35].

Le differenze di questo tipo sono più marcate nel secondo gruppo, in cui farei rientrare tutta una serie di espressioni russe caratterizzate dalla presenza di un complemento causale черный от загара ‘lett. nero per abbronzatura’, come pure in polacco e in italiano: Come sei nero! Jaki jesteś czarny! (detto ad una persona abbronzata), руки черные от грязи ‘mani nere dalla (per la)  sporcizia’, лицо черное от горя ‘ volto nero dal dolore’ nonché gli esempi, riportati dal dizionario polacco: czarne drzewa odcinały się na tle nieba ‘gli alberi neri si stagliavano sul fondo del cielo’ oppure dziecko czarne jak cyganiątko ‘un bambino nero come un zingarello’, citati insieme a czarne włosy, czarny kot ‘capelli neri, un gatto nero’ che, a parere mio, s’iscrivono sempre nel primo gruppo del nero “qualitativo” per eccellenza”. Alcuni esempi del secondo gruppo non sono molto dissimili dal significato “quantitativo” di TOKARSKI, per quanto il criterio d’identificazione sia un po’ diverso: si tratta di una sorta di approssimazione qualitativa: la caratteristica cromatica del determinato + CONCRETO si avvicina al prototipo. Tale tipo di impieghi sembra più frequente in italiano dove, per esempio, si ha un unico modo di designare i capelli bianchi, mentre nelle lingue slave troviamo cromonimi specifici: siwy in polacco, riferibile (fatta esclusione degli usi più o meno metaforici, tipo trawa siwa od szronu, siwy dym) alla capigliatura umana, al mantello equino e al piumaggio di alcuni uccelli,  e rispettivamente седой in russo e sed/sijed in serbo-croato, riservato al colore dei soli capelli umani (però in serbo-croato sed/sijed kao ovca ‘come una pecora’ /MASLOVA, cit.2000/). L’espressione starzec biały jak gołąb è classificata dal dizionario di SZYMCZAK come figurata. Bianco di bucato corrisponde in polacco a świeżo wyprany ‘fresco di bucato’. Del resto, nelle risposte dei miei informatori, l’associazione del bianco con la purezza e la pulizia è stata forse più insistente di quanto lo sarebbe forse stata per i polacchi. Si sarebbe tentati di avanzare la stessa ipotesi che avevo formulato a suo tempo a proposito degli aggettivi di valutazione[36]: le lingue slave, in quanto più sintetiche, hanno una maggiore tendenza a ricorrere a termini specifici, laddove l’italiano, conformemente alla sua relativa analiticità, preferisce attingere al centro del campo semantico. Tale ipotesi tuttavia è parzialmente inficiata dai dati russi: se all’espressione italiana diventare bianco di paura corrisponde in polacco poblednąć ze strachu ‘impallidire’ (naturalmente la traduzione letterale non è esclusa, ma solo dotata di una marca espressiva più forte), sia in russo (accanto a побледнеть от страха) sia in serbo-croato troveremo побелеть от страха , pobijeleti od straha, oltre ai già citati esempi del dizionario di KOVALEV: руки черные от грязи (possibile in polacco, ma fortemente espressivo), лицо черное от горя (in polacco, come in italiano, twarz pociemniała z bólu ‘volto scuro, fosco, dal dolore’).

Il gruppo più affascinante è rappresentato dagli impieghi che chiamerei provvisoriamente “binari” o “discreti”, in quanto qualche volta essi danno luogo a reti di opposizioni più diramate che vanno oltre la semplice binarietà[37] (è il caso per esempio delle razze umane che nell’uso corrente formano una opposizione ternaria, giacché lo statuto dei pellirossa è più marginale). V.PETRUNIČEVA (2000: 49) parla di colore “costante” di determinati oggetti. In tal modo entriamo nei campo di fraseologismi o comunque di espressioni che tendono a sclerotizzarsi. I determinati in questo gruppo non sono necessariamente circoscritti ai soli nomi concreti. Nella maggior parte dei casi il BIANCO e il NERO perdono il loro carattere antonimico, nel senso dei poli opposti di una scala continua, per diventare termini contraddittori. Si tratta sempre di una sorta di approssimazione (almeno per i determinati +CONCRETI) ma, a differenza del gruppo precedente, essa riguarda le accezioni qualitative degli aggettivi in questione. E. ARCAINI (1996:605 e ss.) parla a questo proposito della “contrainte requise par l’objet dans son rapport métonymique avec la réalité imposée culturellement (…) permettant de construire un paradigme où le choix de l’usager est circonscrit”. Gli esempi possono essere black/white coffee,črna/ bela(bijela)  kafa (kava) (per scegliere due lingue in cui l’esistenza della coppia non desta alcun dubbio), pane bianco/nero, biały/czarny chleb, белый/черный хлеб, beli (bijeli)/črni hleb (serbo) kruh (croato), magia bianca/nera, czarna/biała magia, черная/белая магия, bela (bijela)/crna magija, in russo il già citato белая/черная кость. Si sono cercati esempi di convergenze, è evidente tuttavia che, trattandosi di usi fortemente condizionati dai fattori culturali propri di ciascuna delle comunità linguistiche, proprio a questo punto troveremo le differenze maggiori tra le lingue messe a confronto.

In primo luogo ci troviamo di fronte ad alcune asimmetrie: in polacco l’antonimo, o meglio il termine contraddittorio, rispetto al BIANCO è spesso il ROSSO; è questo il caso di biała e czerwona kapusta (in italiano si ha una terna eterogenea cavolo nero, rosso e cappuccio o verza, con un termine botanico opposto ai due cromonimi, come nel caso del polacco per węgiel brunatny  ‘lignite’ e węgiel kamienny (czarny)  ‘carbon fossile’ e di biały e czerwony barszcz, con o senza barbabietole (da notare che la versione fredda della minestra chłodnik, con aggiunta di latte cagliato, non viene mai definita come rosa). Lo stesso dicasi a proposito di białe e czerwone wino (per indicare il rosato, poco diffuso in Polonia, si usa piuttosto il termine francese); in italiano il  vino bianco si oppone al vino rosso che, a differenza del francese, può essere anche nero (mentre il rosso francese,qualora di cattiva qualità, diventa bleu, senza parlare, sempre in francese, del vin gris che in italiano trova un corrispondente soltanto nel nome proprio Pinot grigio e del vin vert ‘non maturo’) in corrispondenza con l’uva bianca e nera (anche in francese le raisin blanc et noir) cui in polacco corrisponde una coppia diversa: czerwone e zielone ’rosso’ e ‘verde’. La situazione serbo-croata sembra la più regolare: al vino belo/bijelo si oppone il vino crno (il rosato viene definito ružica) allo stesso modo di belo/bijelo e crno grožde. La binarietà ROSSO/VERDE (approssimazione del tipo precedente) si può applicare in italiano e in francese, come pure in serbo-croato,  ad altri frutti ed ortaggi (mele, pomodori), caso analogo alla serie ternaria polacca relativa al ribes: czarne, czerwone, białe, ma non all’uva, forse a causa del posto privilegiato riservato alla viticoltura nella civiltà (e nell’economia) mediterranea. Tuttavia è di nuovo il russo, con il suo белый виноград ad inficiare le facili generalizzazioni, questa volta di tipo culturale: зелёный виноград (analogamente al vin vert francese) corrisponde all’uva acerba (viene il sospetto se non si tratti per caso di un’eco della diffusione in Russia delle favole di La Fontane ad opera di Krylov.) . Nessuna delle lingue messe a confronto applica le stesse opposizioni alla birra che, sia in polacco che in russo e serbo-croato, può essere solo jasne/светлое/svetlo(svijetlo) o ciemne/темно/ tamno ‘chiara’ o ‘scura’ come in italiano, ma -  a differenza dell’italiano - mai bionda (in francese la bière blonde forma la coppia simmetrica con la bierre brune). Le lingue messe a confronto condividono l’opposizione binaria BIANCO/ROSSO applicata alle carni, mentre un interessante esempio di NERO inteso come ‘lo scuro nel suo genere’, senza il corrispondente con il significato ‘chiaro’, è offerto in serbo-croato dal turchismo con il prefissoide kara (nero): karabatak ‘la parte superiore di carne più scura del cosciotto di volatile’. E la lista non è chiusa. Per il polacco e l’italiano si potrebbero aggiungere ad esempio le definizioni del  Martini, acque bianche/nere, czarne/czerwone jagody, asparagi bianchi o verdi, volpi rosse, nere, argentate, bianche e, in polacco, srebrne, rude, czarne, niebieskie o białe.   Il fatto che non si tratti di definizioni puramente qualitative è dimostrato dalla stranezza (o comunque inusualità) dei sintagmi tipo ?szary o brązowy lis, ?volpe grigia o marrone/bruna, per quanto tali aggettivi si associno benissimo con altre denominazioni di animali e tali formulazioni siano in contrasto con la realtà visiva.  

“In some occurences, one colour component of the pair is only imagined or “known” but not explicitly verbalised, for example in ‘a white elefant’ – (a grey elephant) or ‘a white slave ‘ – (a black slave)” – scrive WYLER (1992,cit.: 40).

I casi di “caselle vuote” nei sistemi di opposizioni cromatiche binarie o più articolate, ma comunque discrete, sono tutt’altro che rare e riguardano sia la coppia “acromatica” BIANCO/NERO (cf. in italiano la tratta delle bianche), che termini di base e quelli più periferici: basti pensare al termine płowa zwierzyna lett. ‘selvaggina fulva’ con cui nel linguaggio dei cacciatori polacchi vengono definiti gli artiodattili, che si oppone tutti gli altri animali da caccia o al russo коричневые яблоки, cui è difficile contrapporre un’altra determinata qualità di mele.

Le asimmetrie di questo tipo e le divergenze interlinguistiche saranno maggiori quando, abbandonando il campo delle derrate, si passa agli usi metonimici di BIANCO e NERO. Prima però di affrontare questo argomento vorrei citare alcuni interessanti esempi inglesi addotti da S. WYLER (cit.).

Pur senza aver colto la specificità degli usi “discreti” dei cromonimi, WYLER osserva giustamente (p.38-39):

    ”…since colour does not appear in the abstract. (…) colour is part of objects. In most cases, in so far as visual perception is concerned, it helps to constitute the surface of objects. The Greeks always used one colour for the same part in sculpture and decoration. This helped not only to identify parts but also to distinguish them from others. With objects of the same class the colour of their surfaces is a salient criterion of distinction. Thus colour becomes a distinguishing marker: ‘red berries’ are distinguished from ‘black berries’, ‘red currant’ from ‘white currant’ and again from ‘black currant’, ‘grey squirrels’ from ‘red-brown squirrels’, ‘white people’ from ‘black people’.”

WYLER mette giustamente sullo stesso piano le coppie red currants – black currants con quelle di tipo strawberries – gooseberries: si tratta di un caso diverso dal polacco białe/czarne/czerwone porzeczki (approssimazione qualitativa), simile invece a białe/czarne morwy ‘more di rovo’/’more di gelso’: opposizione binaria tra due distinte qualità di frutti, sufficientemente simili per la loro forma da poter ricevere una denominazione affine. L’autore prosegue: “Some of them have become stereotypes, as for instance: white wine - red wine; white Martini – red Martini; white pearls – black pearls”. La nozione di “stereotipo” non viene definita: la differenza tra le coppie citate asparagi bianchi e verdi vs vino bianco e rosso potrebbe corrispondere al limite a quella tra le classi II e III individuate sopra, ma a sfavore di questa interpretazione depone l’impossibilità di introdurre in nessuna di esse un modificatore[38]. Questa impossibilità è tipica appunto delle opposizioni “discrete”: se i polsini possono essere quasi neri di sporcizia, è impossibile parlare di asparagi molto verdi, né di vino quasi rosso (in tal caso esso diventerà rosato o cerasuolo). Di indubbio interesse per gli anglisti è invece il seguito dell’esemplificazione di WYLER secondo il quale: “The capacity to generate oppositional pairs is not restricted to so-called primary colours, ‘brown’, but also ‘turquoise’, ’purple’, ‘mauve’, ‘emerald’, ‘indigo’ and others have this capacity as well”. Gli esempi citati sono turquoise shells – amber shells, yellow mushrooms – red mushrooms e, l’esempio più sorprendente, brown animals – grey animals in cui l’opposizione sarebbe basata sulle connotazioni affettive, positive nel caso dei primi (orsacchiotti), negative per i secondi (topi). La verifica di queste affermazioni esula dal campo di questa ricerca, vista la scarsità nelle lingue esaminate di corrispondenti di coppie binarie formate da cromonimi periferici; quella che s’impone però e è la necessità di distinguere tra le opposizioni binarie (o più articolate) radicate nella lingua e la possibilità dell’uso oppositivo ad hoc di una coppia qualsiasi di termini cromatici , come avviene per esempio in occasione dei campionati di calcio (una partita tra i viola e i rosso-neri).

Riprendiamo invece l’esame degli usi metaforici delle coppie “discrete” di cromonimi nelle lingue slave e in italiano. In primo luogo, sarà utile distinguere tra le metonimie, con determinati prevalentemente + UMANI (o che indicano istituzioni sociali) ed altre metafore cromatiche o, spesso, serie di metafore entrate stabilmente nella lingua.

Per quanto riguarda le metonimie cromatiche, esse sembrano comparire con frequenza maggiore in italiano, con riferimenti politico-sociali, ma anche, come si è appena accennato,  sportivi (gli azzurri, i bianco-rossi ), quest’ultimo uso è completamente estraneo al polacco e al russo, ma non al  serbo-croato che condivide con l’Italia i colori della nazionale nonché l’uso dell’espressione naši plavi, tuttavia la loro presenza o assenza nelle lingue messe a confronto sembra dovuta a fattori contingenti. Così ad esempio il calco colletti bianchi/colletti blu ha attecchito in italiano e in russo dove troviamo белые e синые воротнички, ma non in polacco. L’opposizione binaria ROSSO/BIANCO nel senso ‘rivoluzionario’ vs ‘reazionario’ trova riflesso in una serie di espressioni russe (per cui suppongo peraltro un abile sfruttamento ai fini di propaganda politica dell’antico significato dell’aggettivo красный = красивый, прекрасный, mantenutosi ancora in alcune locuzioni fisse, argomento su cui mi riservo di tornare in un secondo tempo): красная/ белая гвардия, красная армия/ белые армии e anche белый террор (senza corrispondente ‘rosso’ linguisticamente consolidato, per ovvi motivi politici), cui corrisponde forse in italiano il terrore nero. La gamma cromatico-politica italiana è infatti più articolata e non completamente isomorfa con quella russa: se il rosso indica, come in russo, ‘comunista’, il concetto di ‘reazionario’, nel senso fascista o fascistoide, si identifica appunto con il nero, mentre il bianco (sindacati bianchi) è riservato all’antica DC (si tratta di un sistema di opposizioni suscettibile di variazioni in funzione dell’evoluzione del panorama politico: basti pensare alla comparsa relativamente recente dei verdi), oltre allo storico significato ‘guelfo’; vi si potrebbe aggiungere il marginale rosa ‘rosso sbiadito in quanto vagamente sinistroide’. In polacco czerwony, o più di frequente al plurale czerwoni, resta isolato ed usato principalmente come sostantivo con una forte connotazione peggiorativa (fatta eccezione di Czerwone Zagłębie , denominazione riservata ad una parte del bacino carbonifero slesiano, con il significato ‘operaio’, proletario’ e non ‘comunista’).

Tali casi di cromonimi con il significato “discreto” cui corrispondono caselle vuote (si pensi ad esempio all’italiano pesce azzurro o al russo черное дерево ‘ebano’ o ancora al continente nero/czarny kontynent /crni kontinent) sono particolarmente frequenti nell’ambito degli usi metaforici in cui sono ammessi anche determinati astratti. Un esempio è fornito dalla nutrita serie italiana in cui bianco assume il significato di aspettative disattese, di “una situazione in cui non si realizza ciò che è usuale o che si vorrebbe” (GARZANTI): tali usi, riscontrabili anche in francese, sono totalmente estranei alle due lingue slave. L’unica eccezione è rappresentata da biały wiersz/ белый стих ‘verso libero, senza rime’, stranamente senza corrispondenti romanzi. Per affare andato in bianco il dizionario di KOVALEV fornisce la traduzione дело сорвалось , per notte in bianco – бессонная ночь (i corrispondenti sono identici nella altre due lingue slave), a morte (omicidio) bianca/o, firmare in bianco, sciopero bianco corrispondono delle lunghe perifrasi. La decisione di includere nella serie quest’ultima espressione è dettata dal fatto di poterla interpretare come ‘sciopero non corrispondente ai normali requisiti di tale azione’ (il polacco, curiosamente, ricorre in questo caso all’espressione włoski strajk ‘sciopero all’italiana’). Sono propensa ad accostarvi anche la serie di espressioni imparentate con mangiare in bianco, in cui al colore del cibo si associa fortemente l’idea della mancanza di usuale condimento, l’onnipresente pomodoro, anch’essa senza corrispondenti slavi. Oltre al già citato biały wiersz, l’unica espressione polacca in cui biały compare con il significato di mancata realizzazione è rappresentata dal calco białe małżenstwo ‘matrimonio bianco’ (cui in russo corrisponde semplicemente несостоявшийся брак) che deve la sua fortuna alla nota commedia di Różewicz. Ed è anche certamente un calco biały głos /la voce bianca, interpretabile come ‘priva di connotati d’appartenenza ad un sesso’ (tradotto in KOVALEV come дискант, in OŽEGOV дискант = высокий детский голос,  mentre in serbo-croato si avrà semplicemente decji glas ). Le tre lingue infine ricorrono ad imprestiti per rendere l’idea di cambiale, assegno in bianco: in blanco in polacco, бланковый чек in russo e blanko ček in serbo-croato (in questo caso l’altro membro dell’opposizione può essere identificato con l’espressione nero su bianco, presente in tutte le lingue esaminate). Senza pretendere di compilare una casistica completa, si osservi che, se da una parte la serie in questione si associa vagamente all’idea del bianco, opposto al nero, nell’accezione ‘puro, pulito, immacolato’, dall’altra, in maniera più pertinente, essa conferma le osservazioni di TOKARSKI (cit.: 53 e ss.) relative all’ambiguità del nero e del bianco, il quale evoca sì la purezza e l’innocenza, ma anche la morte, ovvero appunto, la mancanza, l’assenza. 

Naturalmente è un truismo affermare il legame più forte con la negatività nel caso del nero. Generalmente si ha l’impressione che tale connotazione sia più marcata (sebbene in modo diverso) in italiano e in russo che non in polacco. In italiano esso compare nel senso di ‘impuro’ nelle espressioni acque nere (opposto a bianche) o pozzo nero che non trovano corrispondenti “cromatici” in nessuna delle tre lingue slave. In russo, per черный, è abbastanza marcata la connotazione sociale bassa che compare simmetricamente nel già citato черная/белая кость, in черный ход ‘entrata di servizio e anche in черная работа ‘fatica pesante e umile’ (e черные рабочие ‘operai non qualificati, generici’)  che, rispetto al lavoro nero italiano, rappresenta un caso di “falsa amicizia semantica”, mentre in polacco l’espressione analoga non fa parte del repertorio di fraseologismi e, per quanto possibile e comprensibile nel senso vicino al russo, sarebbe comunque espressivamente più marcata. Nel lavoro (in) nero italiano ritroviamo invece il senso di ‘illegalità economica‘ che è presente in tutte le lingue messe a confronto nelle espressioni corrispondenti al mercato nero (è un evidente caso di “europeismo”), ma solo in italiano troviamo una serie analogica sviluppata: fondi neri, borsa nera ecc. (in serbo-croato troviamo anche crni fondovi e rad na crno, e in polacco czarna giełda, evidenti esempi di calchi). Sarà interessante notare invece la recente comparsa in polacco di szara strefa ‘zona’ o ‘area grigia’ con il significato il settore economico semi-sommerso.

Il significato di ‘funesto’  legato al nero compare in  tutte le lingue prese in esame che condividono ad esempio il concetto di ’umorismo nero’, ma la sua presenza nel repertorio fraseologico varia di lingua in lingua. Né il polacco né il russo possiedono l’espressione corrispondente a cronaca nera, registrata invece in serbo-croato dal dizionario di KLAJN. Una giornata nera in italiano è più corrente e meno enfatica rispetto al suo corrispondente polacco czarny dzień (in polacco tuttavia funziona l’espressione odkładać pieniądze na czarną godzinę, corrispondente del russo отложить деньги на черный день) . Per il russo e il serbo-croato la MASLOVA (2000, cit) riporta le espressioni  черни дни/crni dani; la loro collocazione nella scala dei registri – a parte le locuzioni fisse - richiederebbe tuttavia il ricorso ad un numero cospicuo di informatori di madre lingua.

Come già accennato in molte di queste espressioni, i cromonimi usati nel senso metonimico o metaforico in genere non hanno corrispondenti antonimici o contraddittori regolari, ma qualora ne volessimo cercare qualcuno esso corrisponderebbe certamente al rosa e non al bianco. Nel suo intervento tante volte ricordato, la MASLOVA cita un’interessante coppia serbo croata gledati  ruzicaste naočare/ gledati kroz crne naočare ‘guardare attraverso gli occhiali rosa’ o ’neri’, oltre ai fraseologismi più correnti videti/vidjeti sve ruzčasto (v ruzčastom) vs videti/vidjeti sve crno, che in polacco si presentano in modo asimmetrico widzieć wszystko na czarno ‘vedere tutto nero’ (da cui czarnowidztwo ‘estremo pessimismo’ vs patrzeć przez różowe okulary ‘guardare attraverso gli occhiali rosa’.

La quarta e ultima classe (a meno che non si vogliano effettuare divisioni più particolareggiate all’interno del gruppo precedente) è rappresentata dagli usi in cui gli aggettivi bianco e nero servono ad esprimere un elevato grado d’intensità di un tratto semantico già presente nello stesso determinato (sempre astratto). In altri termini essi corrispondono entrambi al semplice avverbio ‘molto’[39]. E’ questo l’evidente caso di черная неблагодарность, черное отчаяние in russo, cui in polacco e in italiano corrispondono rispettivamente czarna niewdzięczność, czarna rozpacz e ingratitudine, disperazione nera, ma anche del polacco czarna reakcja, che non trova corrispondenti nelle altre lingue esaminate, e dove la sfumatura peggiorativa è contenuta già nello stesso sostantivo determinato reakcja (il cui corrispondente neutro potrebbe essere rappresentato, ad esempio, da partia prawicowa o konserwatywna). Lo stesso ragionamento va applicato al russo черный список ‘congiura nera’. Per bianco intensificatore, sempre in polacco, troviamo biała złość, biała gorączka con il significato di accesso folle di rabbia, in russo довести/дойти до белого каления, e forse anche белая горячка che KOVALEV  tuttavia traduce come delirium tremens, senza accennare alla possibilità dell’uso metaforico. Rientrano nel gruppo i già citati esempi di biały dzień e czarna noc (con i rispettivi corrispondenti slavi e francesi), e anche il russo e il serbo-croato белой свет/beli svet (otišla u beli svet) ‘il mondo intero’. Si è detto che i sostantivi cui si riferiscono i cromonimi BIANCO e NERO nel gruppo considerato portano sempre la caratteristica –CONCRETO, tuttavia sono tentata di aggiungervi due esempi serbo-croati con  determinati +UMANI: si tratta di  crni ciganin ‘zingaro nero’ (esistente anche in bulgaro) che si applica ad un uomo che versa in condizioni di estrema povertà e anche crni Arapin, esempio attinto alla poesia popolare, riportato dalla IVIĆ (cit: 17) in cui l’aggettivo crni funge da постоянный эпитет nella terminologia della critica testuale russa[40]: la “nerezza” (nel senso qualitativo – il mio gruppo II) fa parte delle caratteristiche fisiche attribuite in modo costante alle due etnie: il cromonimo è usato in funzione di intensificatore ridondante. E ancora al gruppo degli intensificatori s’avvicina l’espressione serba Ne vidi beloga boga (analogamente in bulgaro Вика до белого бога): malgrado il loro significato ‘Dio dei cieli’, e in tal caso BIANCO potrebbe essere considerato come corrispondente del polisemico celeste, e nonostante i collegamenti con le divinità bianche e nere della mitologia slava[41], l’attuale valore dell’attributo sembra meramente rafforzativo.

La funzione di intensificatore non è del resto la prerogativa esclusiva di BIANCO e NERO, ma compare anche con altri cromonimi basici: si pensi alle espressioni italiana e francese la fifa blu, la peur (trouille) bleu o ai fraseologismi polacco e russo con le denominazioni del VERDE nie mieć o czymś zielonego pojęcia’ non avere la più pallida idea di qualche cosa’ e il russo colloquiale зеленая тоска (скука) ’nostalgia (noia) mortale’.

Queste brevi considerazioni portano a due tipi di conclusioni: la prima riguarda l’insufficienza della classificazione dicotomica quantitativo vs qualitativo che non consente di rendere conto degli svariati usi dei due cromonimi nelle lingue prese in esame; la seconda è quella della necessità di un’ulteriore riflessione sul complesso problema dell’interpretazione semantica delle locuzioni fisse o semi-fisse contenenti termini cromatici e del loro status in rapporto con gli usi liberi.[42]

 

Nel blu dipinto di blu

Dieu n’a pas fait d’aliments bleus. Il a voulu réserver l’azur pour le firmament et les yeux de certaines femmes. Alphonse Allais

 

Le varie denominazioni di BLUE[43], forse più di quelle di altri colori, in diverse lingue slave e non solo, forniscono una vastissima serie di spunti, per quanto si tratti di un cromonimo (o, in alcune lingue, di una serie di cromonimi tra cui non è agevole stabilire un ordine gerarchico) che nell’ordine di presenza dei termini cromatici nelle lingue del mondo proposta da BERLIN e KAY (1969,cit.), occupa un posto relativamente basso, situandosi non solo dopo i due “non-colori”, il bianco e il nero, ma anche dopo il rosso e, soprattutto, dopo un colore misto qual è il verde, per quanto gli stessi autori, negli studi successivi modifichino la sequenza ammettendo che il punto focale del BLUE e del VERDE possano coincidere dando luogo alla categoria “GRUE”, resa in italiano con il neologismo analogo“blerde”. Tale situazione si verifica in una certa misura in ucraino dove, a differenza del russo, l’aggettivo синiй può essere riferito anche alla vegetazione (escluse le conifere ).[44]

Senza riprendere in dettaglio la discussione presentata nella parte introduttiva, ricordiamo che l'attribuzione ad un termine dello statuto di cromonimo di base si fonda sulla sua combinabilità sintattica estesa, vale a dire priva di restrizioni selettive, sull’assenza d’iperonimi e sulla semplicità morfologica.

A questi criteri inscrittibili in un quadro metodologico rigorosamente strutturalista va ad aggiungersene un altro, accettabile solo in un’ottica d’impronta cognitivista : si tratta della salience, secondo i termini di BERLIN et KAY; in altre parole la nitidezza, l’evidenza e la stabilità psicologica. Nelle risposte degli informatori i nomi dei colori recepiti come fondamentali appaiono con certa costanza secondo l’ordine prioritario.

Da quest’ultimo punto di vista il BLUE sale nettamente nella classifica, come ho potuto costatare per l’italiano nella piccola inchiesta condotta tra gli studenti universitari di Pescara a cui si è fatto cenno. Il risultato ha confermato appieno i dati ottenuti da E. TEODOROWICZ HELLMAN (1996) [45] per il polacco e, in misura ancor maggiore, per lo svedese: l’azzurro e il blu (mi riservo di tornare in seguito sul problema della concorrenza tra i due termini italiani) si situano entrambi in un posto elevato della graduatoria.

Eppure, soprattutto nell’ottica di un’analisi contrastiva, l’attribuzione al BLUE dello statuto di cromonimo di base desta non pochi dubbi. Esso non trova un corrispondente esatto in greco antico, che esita tra glaucos ‘glauco’ e kyanos ‘livido’, e neppure in latino (almeno come cromonimo di base); in effetti, se caeruleus indica il BLUE in latino classico, questa funzione viene meno in basso latino: per colmare la lacuna, il francese ricorre al germanismo blao, passato successivamente in italiano.[46]

Di fronte ad un unico termine bleu, blue, blaue rispettivamente in francese, inglese e tedesco, altre lingue presentano una varietà terminologica maggiore. Tenterò di fare una rapida ricognizione delle situazioni russa, italiana, polacca e serbo-croata.

Alcuni studiosi del lessico russo tendono ad ampliare la lista degli undici colori canonici, tipica secondo BERLIN e KAY, delle lingue europee evolute, distinguendo due tonalità di BLUE: голубой (BLUE chiaro) e синий (BLUE scuro) che corrispondono entrambe ai criteri di definizione dei cromonimi di base. A. FRUMKINA (1984: 31) descrive lo stupore dei parlanti nativi colti di lingua russa nell’apprendere come ai due termini corrisponda in inglese una sola parola, il che dovrebbe dimostrare per entrambe lo statuto basico. L’opposizione non è basata sul posto dei due colori nel continuum dello spettro cromatico (tonalità), bensì sul loro grado di luminosità (intensità).

D’altra parte голубой in russo compare tardivamente come cromonimo. All'inizio si tratta di un termine a combinabilità ristretta, cromonimo specifico riferito esclusivamente al mantello equino[47], che solo in seguito comincia a generalizzarsi. Al giorno d’oggi la parola indica “светло-синий”, colore del cielo chiaro diurno”. Tale definizione, attinta allo Словарь русского языка  (1985), inficia la possibilità di attribuirgli lo status di cromonimo di base, confermando al contrario il suo carattere subordinato a синий. Sebbene голубой abbracci una serie di sfumature che possono essere indicate altresì con il termine синий, esso è impiegato prevalentemente per indicare le tinte chiare, brillanti (lett. светлые, яркие). Inoltre, secondo A.Ju. MASLOVA (2000), голубой, a differenza di синий, non è stilisticamente neutro né può essere riferito al livore dovuto alla malattia o alla paura (astrazione fatta dagli usi stilisticamente marcati). Pertanto, richiamandosi anche alla definizione lessicografica, l’autrice conclude che голубой, seppure incluso nel repertorio dei cromonimi di base russi, non è completamente astratto (purtroppo la MASLOVA non definisce quest’ultimo termine).

A differenza del serbo-croato (e del bulgaro) dove, come il polacco gołąbkowy, l’aggettivo golubji, golubast (nel registro poetico) mantiene il significato originario – ‘grigio‘,’ color colomba,’ tale accezione può essere ritrovata solo in russo antico, dove tuttavia, come si è detto, esso compare come un cromonimo specifico. Il dizionario di V.DAL’ T.3 segnala alcuni usi dialettali in cui si conserva il senso grigio-cenere, grigio e persino giallo[48].  Il passaggio al significato ‘celeste’ è databile attorno al XVIII sec. A sua volta синий/sinj, di origine protoslava, inizialmente non è un cromonimo ma indica, da una parte l’oscurità minacciosa, d’altra parte una luce inquietante.

Nel russo moderno i due termini si oppongono per il loro grado diverso di luminosità, riflettendo l’opposizione chiaro/scuro. Le denominazioni delle varie tonalità o sfumature del BLUE dimostrano una variabilità particolare rispetto al criterio della luminosità (intensità). In altri termini, nelle lingue prese in esame, si tratta dell’unico segmento dello spettro dove tale criterio determina la coesistenza di vari termini che concorrono al rango di cromonimo di base. Inoltre, in polacco per esempio, nella nutrita serie subordinata a niebieski: granatowy, lazurowy,szafirowy, fiołkowy (termine particolarmente interessante su cui si tornerà in seguito), indygo, turkusowy, kobaltowy, siny, molte distinzioni, a parte i riferimenti ad oggetti o sostanze-modello, sono basate appunto sul criterio di intensità.

In russo antico синий è spesso usato come sinonimo di ‘nero’: синий как сажа –lett.:’ blu come la fuliggine’, cf. anche l’espressione иссиня черный con il BLU rafforzativo in riferimento al NERO. S. DERRIG (1978: 93) osserva che i due cromonimi dell’inglese moderno blue et black derivano dalla stessa radice indoeuropea *bhel. Il BLUE evoca dunque la saturazione forte, lo scuro, come lo confermano del resto i suoi usi con la funzione di quello che nel capitolo precedente è stato definito come “intensificatore”, presenti in italiano come in francese: alla stregua delle denominazioni di bianco e nero, usati per conferire intensità a un tratto semantico già contenuto nello stesso determinato (cf. ingratitude noire, czarna rozpacz, e per il bianco, in polacco biały dzień, biała złość,) nelle due lingue romanze troviamo ad esempio la peur bleue, la fifa (ma non la paura) blu[49]. 

Le strane iponimie e sinonimie italiane e polacche 

In italiano tuttavia ci troviamo di fronte a ben tre termini celeste, azzurro, blu. H. PESSINA LONGO (1991: 57) scrive: “Голубой e синий sono pressoché omologhi di azzurro e blu e quasi sempre coincidenti. Il blu è più nettamente delimitato rispetto a синий”. Le due affermazioni sono palesemente contraddittorie. Inoltre, la formulazione “ nettamente delimitato ” risulta poco chiara.

Proviamo ad esaminare il rapporto dei tre termini italiani secondo il criterio della saturazione.

Un interessante spunto per la riflessione è offerto dalla versione italiana del trattato Farbenlehre di GOETHE, al punto (§778) dove il poeta afferma: “Se il giallo conduce sempre con sé una luce, si può dire che l’azzurro conduce sempre con sé qualcosa di scuro”.

Se le altre affermazioni di GOETHE confermano grosso modo le intuizioni correnti che fanno associare il BLUE con il freddo, il vuoto e la lontananza (basti consultare un qualsiasi manuale di tecniche pittoriche), l’associazione del termine italiano azzurro, equivalente del blaue tedesco con le tenebre, anche passando per il tramite semantico di ombra, è piuttosto sconcertante. Qualora invece il traduttore di GOETHE avesse optato per il blu, al posto dell’azzurro, le osservazioni del poeta tedesco sarebbero apparse quasi tautologiche. Il blu infatti è recepito dalla maggior parte degli italiani come un colore scuro: l’inizio della canzone, notissima a suo tempo, che accompagna il delizioso film di Jules Dassin “Jamais le dimanche”: “Noyés du clair sous le ciel bleu...” per un italiano deve suonare come un qualche cosa di leggermente deviante dal punto di vista linguistico. Un dilemma analogo si è posto Italo CALVINO di fronte alla traduzione del titolo di Raymond QUENEAU[50]  Fleurs bleues , per giungere alla conclusione: “la scelta di ‘blu’ anziché ‘azzurro’ m’era parsa più scattante e queneauiana“.

Mi riservo di riprendere brevemente in seguito il tema dei valori connotativi legati ad alcuni cromonimi: per gli esempi appena citati non bisogna dimenticare che ci troviamo di fronte a due testi artistici. Sul piano puramente denotativo, c’è da chiedersi sul perché le scelte e le esitazioni, quella apertamente enunciata da CALVINO e quella che ci poniamo di fronte alla versione italiana di GOETHE, oscillano tra l’azzurro e il blu? Perché non viene da pensare al celeste? Bisogna decidere se abbiamo a che fare con un iperonimo e con i suoi iponimi oppure con dei sinonimi. Nel primo caso si tratta di individuare il termine più generale. Nel secondo – di vedere se abbiamo effettivamente a che fare con dei sinonimi assoluti, nel senso attribuito a questo termine da J. LYONS (cit.): due parole completamente equivalenti e intercambiabili in tutti i contesti. E ancora, se la sinonimia assoluta tra cromonimi di base è ammissibile in una lingua evoluta qual è l’italiano. 

Le definizioni fornite dal dizionario GARZANTI sono  tautologiche (blu - di colore blu; cielo, mare blu) e non discrete: azzurro -che ha il colore del cielo sereno (intermedio tra il celeste e il turchino); celeste - proprio del cielo, dello spazio che circonda la terra: corpi celesti; exten. del colore del cielo sereno: occhi celesti (ci si può chiedere del resto se, sul piano  sincronico, si tratti ancora di una estensione secondaria).

Il dizionario SANSONI introduce come fattore di differenziazione il grado di  luminosità, ricadendo tuttavia nello stesso circolo vizioso:

azzurro - detto del colore del cielo sereno, più cupo del celeste e più chiaro del blu;

blu  -di colore azzurro, turchino: cielo blu, occhi blu, commun. le gradazioni scure e più intense dell’azzurro blu marino, pavone - occhi  blu

celeste - del cielo, che appartiene al cielo; di colore simile a quello del cielo sereno : occhi celesti

Analoghe a quanto riportato da SANSONI sono le definizioni del dizionario di PALAZZI che attribuisce anch’esso all’azzurro una posizione intermedia tra il blu e il celeste, menzionando l’accezione cromatica di quest’ultimo solo in secondo luogo.

Celeste non è dunque un buon candidato al rango d’iperonimo: tra i tre termini è quello con la frequenza generale più bassa - 11 (si aggiunga a questo che in un dizionario di frequenza è impossibile operare una distinzione tra le due accezioni del termine: il significato cromatico e quello di aggettivo relazionale correlato con il cielo), di fronte al 68 dell’azzurro e al 27 del blu. Il progressivo riflusso di celeste, specialmente nel parlato, viene confermato anche dagli informatori di lingua madre.

L’indice di frequenza tuttavia non corrisponde alla salience, nettezza e disponibilità linguistica, come lo confermano i risultati della mia piccola inchiesta: se effettivamente il celeste non è affatto apparso nelle risposte, il blu tuttavia vi occupa un posto più elevato rispetto all’azzurro. 

L’acume delle definizioni del dizionario SANSONI consiste nell’indicazione comunemente, riferita all’uso del blu con il significato di un grado di luminosità maggiore rispetto all’azzurro e al celeste. Se effettivamente, in un negozio d’abbigliamento, per non rischiare malintesi, dovrò senz’altro precisare se l’oggetto dei miei desideri è celeste, azzurro o blu, o ricorrere addirittura al prestito più recente bluette[51] (senza parlare della terminologia pittorica: blu cobalto, blu d’oltremare ma anche azzurro oltremare). D’altra parte gli occhi della stessa persona possono essere definiti come bellissimi occhi blu, azzurri o celesti, senza che l’individuo in questione sia costretto a mettersi le lenti a contatto: serva da conferma un brano, tratto assolutamente a caso, da un romanzo popolare: “i potenti occhi blu di Alfa si fermano; quegli occhi azzurri che non vedi mai chiudersi o guardare altrove”[52] .E analogamente, si può parlare di cielo azzurro o blu, descrivendo una giornata di sole (? il cielo celeste è meno accettabile per motivi eufonici), ma soltanto di cielo blu in riferimento al cielo notturno. La stessa parziale sinonimia compare del resto nell’aforisma di A.Allais, per quanto lo statuto dell’azur in francese sia certamente più marginale

Per stabilire il rapporto di iponimia e d’iperonimia tra i due termini che in polacco mantengono un rapporto di concorrenza analogo, e di cui si parlerà più avanti, TOKARSKI (1995cit.:, p.134-135) propone il test dell’accettabilità di frasi tipo:

Il suo vestito è qual 1 ma non qual 2 

vs.

Il suo vestito è qual 2, ma non qual 1

Diamone un esempio nella versione italiana:

Il suo vestito è rosso, ma non purpureo

* Il suo vestito è purpureo, ma non rosso .

Ora, per quanto riguarda la serie italiana blu - azzurro - celeste, ci troviamo di fronte ad alcune singolari asimmetrie: nonostante la coesistenza di azzurro e di blu d’oltremare, gli enunciati:

* Il suo vestito è azzurro ma non è celeste

e

* Il suo vestito è celeste ma non è azzurro,.

sono poco intuitivi, o persino inaccettabili, mentre l’opposizione di azzurro/celeste vs. blu:

Il suo vestito è blu, ma non è azzurro o celeste

e viceversa è riconosciuta da tutti gli informatori. 

Se l’opposizione dei tre cromonimi sembra sussistere soltanto nel campo degli artefatti, o più precisamente dell’abbigliamento o dei prodotti tessili[53], logicamente non la si può ridurre né al sezionamento discreto del frammento dello spettro in base al criterio di saturazione, né al rapporto di sinonimia o d’iponimia sensu stricto. Del resto, nonostante una certa intercambiabilità dei tre termini, lo stesso test applicato agli oggetti “naturali” (occhi, cielo, mare) ha dato risultati analoghi: la scelta di blu equivale alla sottolineatura di un grado elevato di intensità.

Come già accennato, un problema più o meno simile si pone per il polacco dove coesistono i termini błękitny et niebieski [54], sebbene lo status di cromonimo di base di quest’ultimo susciti meno dubbi. TOKARSKI (1995, cit.: 132-3) scrive, riferendosi all’alternanza dei due aggettivi nel Canto dei Pescatori di J. LIEBERT: “Sia błękitny sia niebieski sono qui attributi dell’acqua e del cielo (…) e nei testi poetici (e, aggiungiamo noi, non soltanto poetici) i due cromonimi si possono alternare”. “Nel caso di niebieski (come per l’italiano celeste), un ruolo determinante è svolto dal legame formale e semantico con il cielo (niebo): i processi derivazionali hanno fatto nascere una formazione polisemica, che oltre al valore di cromonimo, comporta un riferimento diretto al cielo”, sia nel senso di ‘volta celeste’ sia in quello in cui è sinonimo di paradiso. “La storia di błękitny è un po’ più complessa. Si tratta di un imprestito quattrocentesco dal latino blanchetus, che a sua volta continua blanc-heit medio alto tedesco, riferito inizialmente sia a un colore pallido, sbiadito, azzurro chiaro, sia all’azzurro in quanto tale, per diventare in seguito sinonimo di niebieski in tutte le accezioni.”[55]

Nella versione polacca di GOETHE i due termini si alternano. Nonostante ciò, come si è detto, per quanto riguarda la scelta del termine di base, il polacco sembra offrire una situazione più netta rispetto all’italiano. Niebieski precede di gran lunga błękitny in tutte le liste di frequenza. Neanche il test applicato in precedenza ai due cromonimi italiani conferma la sinonimia assoluta dei due termini.  L’enunciato:

?Jej sukienka jest niebieska ale nie jest błękitna

sebbene piuttosto artificiale, suona comunque più accettabile rispetto a:

*Jej sukienka jest błękitna, ale nie niebieska

Nonostante la motivazione semantica legata al cielo (inteso come cielo diurno), il polacco niebieski abbraccia anche le tonalità più scure, a di differenza  błękitny, che esclude le sfumature chiare.

Il problema si complica sul piano diacronico. Nell’epoca medio polacca (XVI secolo), riscontriamo altri concorrenti: modry, relegato oggi al registro poetico o ai dialetti (l’osservazione è di TOKARSKI, ma non è confermata dal dizionario di SZYMCZAK), e bławy /bławatny da cui  bławatek ‘fiordaliso’ in polacco moderno. Prescindiamo dal primo termine, come pure, per il momento, da un altro iponimo di BLEU: granatowy – letteralmente ‘color granata’ o forse “color melograno” che a differenza del suo “falso amico” russo гранатовый ha subito uno slittamento semantico (paragonabile a quello di  purple  inglese cui si era fatto cenno), visto che il suo significato attuale è quello di ‘blu scuro’ o meglio di un blu con aggiunta di nero, nettamente subordinato a  niebieski, per soffermarci su bławy , associato da TOKARSKI (cit., p.172) alla denominazione tedesca di un tipo di tessuto. Il dizionario etimologico di  A. BRÜCKNER (1957) lo ricollega a blau, a sua volta imparentato con  flavus, aggiungendo, piuttosto ingenuamente giacché il vecchio BRÜCKNER non può essere preso a modello di rigore scientifico, che “i nomi di colori, come quelli degli alberi, tendono a confondersi”. 

I misteri balcanici 

L’esempio più chiaro di tale „confusione”, che preferisco chiamare slittamento[56] semantico, si riscontra in serbo-croato, dove troviamo un solo termine corrispondente a BLEU: plav, che può essere modificato da avverbi corrispondenti a ‘chiaro’ e ‘scuro’: sv(ij)etloplav e tamnoplav. E’ vero che accanto a plav, il serbo-croato dispone di due termini secondari: sinj e modar,e che il fraseologismo europeo ‘sangue blu’ può avere indifferentemente la forma čovek plave o modre[57] krvi, cui va aggiunto inoltre il raro cromonimo specifico teget, usato nell’area serba, esclusivamente in riferimento ai prodotti tessili[58]. Soffermiamoci sul primo termine. Indipendentemente dalla loro origine, l’estensione semantica dei lessemi esaminati nelle lingue russa, polacca e serba non coincidono. Il russo синий, come il polacco siny,  tende a situarsi dal lato di “oscurità” rispetto a quello che, nell’ottica cognitivista e anche in accordo con la definizione lessicografica “mający  barwę pogodnego nieba, kwiatów lnu”’ di colore del cielo sereno, dei fiori di lino’, sembra essere il valore focale di BLEU. L’evoluzione del significato del termine appare particolarmente sorprendente alla luce dell’etimologia fornita da BRÜCKNER: “…ta nazwa koloru , zarówno jak si-wy, sia-ry (…) od pnia si- (…) cerk.  ÑÈ–Í1ÒÈ i ÑÈ–ÿÒÈ błyszczeć ‘brillare, splendere’(…) rus. сиятельцтво ‘ekscelencja, eccellenza’, сияющий ‘błyszczący, brillante’, o-soje< ot-soje cieniste (precz od blasku słońca) ‘ombroso, fuori dalla luce del sole’”. La stessa linea di sviluppo semantico trova conferma nello Историко-етимологицеский словарь современного русского языка di P.Ja..ČERNYX (1994). Il valore originario della radice è continuato dal serbo-croato sijati. Il nucleo semantico originario è costituito dalla luminosità e la sua evoluzione successiva anticipa un  passaggio analogo nel plav serbo-croato.  

D’altra parte, tuttavia, le somiglianze semantiche, e soprattutto quelle d’uso, accomunano i continuatori del lessema in polacco e in serbo-croato. La MASLOVA (cit., 1999) osserva come lo sviluppo storico del significato cromatico di sinj nelle lingua russa e serba abbia seguito direzioni diverse, portando a risultati distinti. Secondo l’autrice, alla base degli sviluppi moderni, si ritrova l’opposizione universale “chiaro/scuro”. Nelle lingue in cui sinь stava ad indicare esclusivamente il male incombente, il lessema non si mantiene sincronicamente. In serbo si riscontrano degli usi residuali nelle espressioni sclerotizzate sinje more, siniji teret (fardello pesante), quest’ultimo segnalato dalla MASLOVA, ma sconosciuto ai miei informatori in cui si potrebbe pensare all’uso di sinij come intensificatore,come in sinja kukavica (donna sfortunata). Sinj, come equivalente del синий russo, (a parte usi dialettali col significato cromatico) ha una combinabilità limitata a more o nebo, in un registro giudicato dagli informatori come poetico o letterario. A questo punto c’è da notare una combinabilità analoga nell’aggettivo corrispondente in polacco che, come in serbo-croato,  preclude come determinati gli artefatti: sine niebo, morze, chmury, sina dal - quest’ultimo impiego viene classificato dal dizionario di SZYMCZAK come fraseologismo poetico o scherzoso - eventualmente siny dym. Negli altri usi è un esatto corrispondente del serbo-croato modar, dando luogo persino a derivati sostantivali simmetrici siniec, siniak (un livido), sinica (colorazione bluastra della pelle dovuta a disturbi circolatori): innanzitutto diventa cromonimo specifico, riferito esclusivamente a determinati + HUM: sine wargi, siny nos, siny z zimna, z gniewu ; il continuatore polacco di ìîäðá conserva invece il significato di cromonimo. In serbo-croato tuttavia, secondo la IVIĆ,  modar comincia ad essere usato come “livido” modar od zime, modrina, modrica (un livido), dimostrando parallelismo con lo sviluppo semantico del lessema  siny in polacco.

Per esprimere il concetto neutro di BLUE, senza connotazioni negative, viene usato il lessema neutro plav, che tuttavia conserva al tempo stesso il significato di fulvo, biondo. Tale situazione trova corrispondenze in altre lingue: in turco , per esempio,  la stessa parola indica il colore del cielo nonché, verosimilmente come aggettivo specifico, esseri umani di tipo nordico (in riferimento sia al colore dei capelli che a quello celeste o verdastro degli occhi). Verrebbe a chiedersi se non si tratti di un riflesso lessicale del contatto interlinguistico  (certi fenomeni caratteristici della lega balcanica vengono attribuiti a volte all’influenza turca), ipotesi convalidata dallo sviluppo in qualche modo speculare del macedone sin, che riferito agli esseri umani corrisponde a ‘biondo’; la verifica di tale ipotesi è tuttavia compito dei balcanisti. Secondo la MASLOVA (1999), l’evoluzione semantica del lessema plav ha seguito la solita strada dal significato relativo alla luminosità verso il cromonimo vero e proprio -  fatto confermato dagli usi dialettali -  per cui la sua antica connotazione è diventata denotazione cromatica. Proviamo a percorrere le tappe di questo passaggio.

 

La storia e la preistoria di plav e di altri suoi corrispondenti slavi

I corrispondenti del lessema, imparentato con  pallidus, esistono anche in polacco e in russo, la loro analisi tuttavia ci porta fuori dal  campo semantico delle denominazioni del BLEU e persino dalla lista stessa dei cromonimi di base. In effetti, in slavo ecclesiastico, l’aggettivo ÏëÀâú indica una tinta giallastra (o fulva). Si tratta di un cromonimo specifico, caratterizzato da forti restrizioni selettive, come il cromonimo russo moderno половой, riservato al manto animale (specialmente canino o equino). In polacco la combinabilità di płowy è limitata ai capelli umani (come equivalente di biondo dorato) e al pelo animale (equivalente di fulvo, flavo); l’espressione  płowe pola, come la biondezza del Tevere, sembra metaforica. Questo tipo di cromonimi si presta in modo particolare agli usi metonimici [59], del tipo:

è castano < i suoi capelli sono castani

è bruno < ha capelli bruni

un cavallo baio < un cavallo dal mantello baio

E analogamente in polacco:

jest blondynką < ma włosy blond

e in serbo croato:

ridja osoba, plava osoba come ridja kosa, plava kosa

ma non :

*jest czarny < ma czarne włosy (‘è nero < i suoi capelli sono neri ’)

*è rosso < ha capelli rossi (eventualmente :  è rosso di capelli)

?Ona je crna (piuttosto crnomanjasta – di colorito scuro - o semplicemente brineta)  < kosa joj je crna

dato che gli aggettivi czarny , crn e rosso non hanno  restrizioni selettive. La regola si ripropone in tutte le lingue prese in esame ed è piuttosto rigida: il termine romanesco roscio, la cui combinabilità è limitata ai capelli umani, ammette l’uso metonimico: Gianni è roscio = è roscio/rosso di capelli.[60]

Per quanto riguarda il serbo-croato plav, la sua sorprendente evoluzione semantica gli ha conferito ben tre accezioni diverse[61].

La prima corrisponde a quanto riscontrato nelle altre due lingue slave: si tratta di un cromonimo specifico riferito ai capelli umani. A differenza di quanto accade per il lessema corrispondente in polacco, il serbo-croato plav, anche nell’accezione specifica (come pure nel significato generico BLUE), entra in combinazioni sintagmatiche con gli avverbi tamno e svijetlo (cf. in italiano biondo chiaro, biondo scuro, ma non *fulvo chiaro, scuro). Sebbene le definizioni lessicografiche dei due cromonimi, quello polacco “żółtawy z odcieniem szarym” ‘giallastro tendente al grigio’ (SZYMCZAK) e quello italiano “biondo rossiccio” (GARZANTI) siano alquanto divergenti, entrambi sembrano restii a essere valutati dal punto di vista della saturazione;essi sembrano occupare una posizione fissa non solo nella scala della tonalità ma anche su quella dell’intensità, problema che sarà ripreso in seguito. M. IVIĆ (1995, cit.: 24) propone come referenza prototipica di questo significato di plav il colore del frumento o della paglia, anche se, a rigor di termini, secondo A. WIERZBICKA (cit.), il concetto di prototipo è applicabile soltanto ai cromonimi di base, o persino, più esattamente, ai primi termini della lista implicazionale[62]. In questa prima accezione plav, come i suoi corrispondenti polacco e russo, può essere usato metonimicamente:

Ona je plava < kosa (joj) je plava (analogamente a  ridj, smedj ‘rosso di capelli, castano ’ ecc).

Anche nella sua seconda accezione plav resta un cromonimo specifico: in riferimento agli esseri umani, l’aggettivo indica il colorito chiaro, tipico delle popolazioni nordiche. Di fronte alla frase:

(Ta) Svedjanka je plava

è impossibile decidere se si tratti della carnagione della svedese in causa, o del colore dei suoi capelli, o ancora di quello degli occhi. Tale uso di plav s’avvicina dunque al  blond inglese che, secondo l’Oxford Dictionary of Current English, (1987) indica “ (man) having fair complexion and hair” ,mentre il Webster’s New World Dictionary of the American Language (1968)  include nella definizione anche il colore azzurro o verde (viene quasi da dire “grue” – “blerde”) chiaro degli occhi.

Questa accezione non doveva essere estranea nemmeno al russo antico: non si potrebbe infatti spiegare diversamente il nome con cui venivano designati i cumani  половцы, popolo nomade d’origine altaica, per il quale tuttavia c’è da escludere il colorito nordico. Eppure anche BRÜCKNER associa il nome di połowcy con il loro pallore. Ma che cosa bisogna intendere per “pallore”?

Ricordiamo la spiritosa osservazione di R. PALMER (1977: 75) secondo cui il bianco diventa bruno se riferito al caffè, giallo in riferimento al vino e rosa in relazione agli esseri umani , paradosso facilmente risolubile adottando, come si è fatto nel capitolo precedente, i concetti del bianco e del nero “quantitativi”. Tra i vari invasori dello stato kieviano, i tartari, i  mongoli ecc., i  cumani si distinguevano per il colorito più chiaro: per appunto plav o полов nella versione russa, equivalente dunque  al ‘più chiaro nel suo genere’[63], che appartiene all’area del MACRO-WHITE, esattamente come il vino bianco.

Il significato BLUE viene solo al secondo posto. I serbo-croatisti indagano sulle modalità del passaggio dalla luminosità del cielo (connotazione) al suo stesso colore (denotazione), arrivando a supporre persino l’influenza del blaue tedesco, dovuta a somiglianze fonetiche. L’altro problema dibattuto è quello di come mai il nuovo valore di plav non abbia comportato l’abbandono di quello originario. A quest’ultima domanda si cercherà una risposta nel paragrafo dedicato ai cromonimi specifici.

Limitiamoci ad osservare che, al di là delle già segnalate analogie con il macedone (nonostante si tratti di lessemi diversi, e di un processo apparentemente inverso) e il turco, le quali farebbero pensare piuttosto a un balcanismo, il fenomeno di oscillazione tra il significato di +/-luminosità e quello del cromonimo vero e proprio trova analogie sorprendenti in altre lingue. Riprendiamo il caso del polacco e dell’italiano. L’aggettivo polacco płowy ha dato origine al verbo płowieć ‘sbiadire’ con il participio passato spesso usato con il valore aggettivale spłowiały ‘sbiadito’. In entrambe le forme ritroviamo la stessa radice biad-, biav-, derivata dal germanico blao, già riscontrata alle origini di bleu, blu.

Ma la storia di  plav, e naturalmente dei suoi corrispondenti in altre lingue slave, si perde nella preistoria indoeuropea. Vi ritroviamo la stessa radice *bhelHche, secondo A. MARTINET (cit.) si ritrova in fauos e florus latini, e dunque ‘fulvo. MARTINET non esclude che la stessa radice, con un vocalismo diverso, sia rintracciabile nelle denominazioni balte e slave del bianco: rispettivamente baltes e belu. In base a queste considerazioni egli giunge all’osservazione citata nella parte introduttiva: “quel che colpiva gli antichi era soprattutto la luminosità, e non il colore vero e proprio. (…) La stessa nozione di colore sembra di origine recente” (pp. 272-3). Secondo la IVIĆ (1996) è questo il motivo dell’esistenza in latino delle coppie candidus/albus e niger/ater, rispettivamente ‘bianco’ e ‘nero’ brillanti o senza il tratto semantico di ‘lucentezza’, opposizione non mantenutasi nelle lingue romanze moderne.

L’affermazione del linguista francese, come pure le osservazioni di TOKARSKI a proposito degli usi “quantitativi” dei cromonimi bianco e nero, possono essere riformulate: anche nelle lingue dotate di una terminologia cromatica sviluppata si ritrovano tracce residuali del sistema binario del MACRO-WHITE e del MACRO-BLACK di BERLIN e KAY, che coprivano lo spettro cromatico nella sua integrità. Tale sistema arcaico, che sembra celarsi sotto il ricco repertorio dei cromonimi di base di cui dispongono le moderne lingue europee, potrebbe dare una spiegazione delle particolarità dell’evoluzione semantica e connotativa delle denominazioni del BLEU che l’ha portato in diverse lingue verso significati opposti dal punto di vista dell’intensità o della luminosità.  

Colori intrinsecamente chiari e scuri[64]

Riprendiamo ancora le considerazioni di GOETHE. Al di là delle sensazioni evocate dai cromonimi o, in altri termini, degli aspetti connotativi – ragionamento che mi prometto di riprendere -  sul piano prettamente denotativo (ed escludendo naturalmente i due termini acromatici BIANCO e NERO), si può parlare di colori intrinsecamente chiari e scuri? Il russo синий si oppone a голубой per il grado maggiore di luminosità, intesa come  scala di intensità,[65] lo stesso discorso vale per la coppia purple – red inglese, o voros – piros ungherese.[66] Il polacco siny viene recepito come un colore scuro, sebbene non nella stessa misura di granatowy o fioletowy il quale , proprio per la sua natura di colore scuro per eccellenza, nel medioevo, epoca che aborriva tinte acromatiche, ha soppianto il nero come colore di lutto nell’uso liturgico[67].

Tali considerazioni portano inevitabilmente verso derive cognitiviste, mentre nelle analisi finora svolte si è cercato, per motivi di coerenza metodologica, di rimanere nell’ambito del pensiero strutturalista ricorrendo, ovunque ciò fosse possibile,  al criterio della combinabilità sintagmatica. A livello di lingua, al grado di intensità corrispondono i due avverbi chiaro e scuro. Ora, va notato che contestualmente essi non si combinano con la stessa facilità né con tutti gli elementi della graduatoria di BERLIN e KAY né, tanto meno, con tutti i cromonimi secondari.

Innanzi tutto, non possono fungere da modificatori dei termini BIANCO e NERO (anche se, dal punto di vista concettuale, *il bianco scuro o *il nero chiaro non costituiscono un controsenso). Per il rosso e il giallo si osservano delle curiose asimmetrie: se il rosso scuro o cupo suona del tutto naturale, l’altro membro dell’opposizione è rappresentato piuttosto dal rosso brillante, acceso o forse, al contrario, dal rosso  pallido o sbiadito, mentre il rosso chiaro, per quanto certamente accettabile, sembra comunque meno frequente. Viceversa, di fronte al giallo chiaro (o pallido), troveremo piuttosto il giallo saturo [68]. Naturalmente, non si tratta dell’impossibilità assoluta, ma solo di una tendenza, osservabile tuttavia in diverse lingue. I due avverbi (o più genericamente, i due modificatori, vista la situazione morfologica polacca) si combinano invece facilmente con tutti i cromonimi polacchi che si situano più in basso nella gerarchia, con qualche dubbio per pomarańczowy e różowy, per cui in opposizione a jasny, blady ‘chiaro, pallido” si preferirà forse jaskrawy ‘brillante, squillantre’ o, al contrario, zgaszony, przybrudzony ‘spento, sporco’, più o meno corrispondente al rosa antico. In altri termini, i cromonimi riferiti a tinte recepite come scure tendono a combinarsi con l’avverbio SCURO, CUPO e, viceversa quelli che indicano colori recepiti come chiari, s’accompagnano all’avverbio CHIARO. Giacché anche questo fenomeno si ripropone in lingue diverse e geneticamente non imparentate, è poco probabile che si tratti di un fatto di mera superficie, la realizzazione della medesima tendenza non è tuttavia identica: l’ esempio è fornito dal russo dove l’esistenza della coppia синий/голубой, in cui l’opposizione è basata proprio sul criterio della luminosità, non preclude la possibilità della combinazione светло-синий (ma anche темно-голубой in riferimento ad es. agli occhi umani), mentre in italiano ?celeste scuro o ?celeste cupo (come pure ?giallo scuro, cupo) sembra un controsenso. Ora, la collocazione intuitiva di siny polacco dalla parte dell’oscurità è confermata dalla sua impossibilità di combinarsi con l’avverbio jasno (о, а maggior ragione, jaskrawo ‘brillante’).

Stranamente la restrizione segnalata per siny non vale né per fioletowy né per granatowy, per quanto anche con l’avverbio jasno i due cromonimi continuino a collocarsi dal lato dell’oscurità. Le cose si complicano per i termini periferici. I ragionamenti che seguiranno saranno questa volta circoscritti al solo polacco, primo perché solo per il polacco si dispone di una lista, compilata da TOKARSKI che, anche se non esaustiva, è in ogni modo molto ricca, non solo di cromonimi ma anche di termini che, in determinati contesti, possono assumere il significato cromatico (tipo glicynia o gołębi, biskupi); secondo perché si tratta di considerazioni che possono basarsi esclusivamente sulla competenza di un parlante nativo. Innanzi tutto esiste una serie periferica di cromonimi tipo: seledynowy, perłowy, rezedowy, groszkowy, gołębi/gołąbkowy o liliowy che includono nella loro composizione semantica il tratto chiaro/pallido, ovvero poco saturo e poco intenso, e pertanto escludono dalle loro combinazioni sintagmatiche il modificatore ciemno, cooccorrendo invece spesso (e a volte in modo ridondante) con jasno.

Com’è naturale, non ammettono modificatori jasno/ciemno i sinonimi periferici più o meno completi[69] del bianco e nero, quali snieżny, mleczny, alabastrowy, e anche srebrny, kremowy, śmietankowy o siwy, da una parte, e atramentowy, antracytowy, kary, mahoniowy dall’altra. Più interessante invece osservare la scarsa combinabilità dei due avverbi con i cromonimi che mantengono il legame semantico con l’oggetto-modello, tipo brzoskwiniowy, buraczkowy, cielisty, koralowy, malachitowy, oliwkowy; in altri termini: l’avvicinamento all’oggetto/materiale modello avviene non soltanto in termini di posizione nello spettro, ma anche in quello di intensità e saturazione, rendendo pertanto più difficile l’apparizione dei modificatori relativi a tali criteri. Si tratta tuttavia più di una tendenza che di una regola assoluta: molti cromonimi motivati ammettono la presenza degli avverbi ciemno o jasno: se srebrny li rifiuta, probabilmente a causa del suo rapporto di parziale sinonimia con biały, le espressioni ciemnozłoty o jasnozłoty sono del tutto normali. C’è da osservare piuttosto una sorta di combinabilità ridondante: le denominazioni dei colori recepiti come chiari compaiono con l’avverbio jasno, quelle relative ai colori scuri – con ciemno, spesso sotto forma di aggettivo e pertanto con funzione appositiva e non di modificatore vero e proprio: jasnocytrynowy o jasny, cytrynowy, ciemnofiołkowy o ciemny, fiołkowy. Avremo pertanto jasnomalinowy (o jasny, malinowy) ‘rosso lampone’ o poziomkowy ‘rosso fragola’, ma ciemnoburaczkowy (o ciemny, buraczkowy) ‘rosso barbabietola’ giacché i tre iponimi si situano rispettivamente in rapporto con il cromonimo basico czerwony ‘rosso’ dal lato della chiarezza (chiarore) e dell’oscurità.

Se quelle finora osservate erano solo tendenze (ciemnopoziomkowy, come fragola scuro sono espressioni del tutto accettabili, per quanto meno frequenti), per molti cromonimi specifici le combinazioni sintagmatiche con gli avverbi di intensità sono assolutamente precluse. Il problema dei cromonimi specifici sarà ripreso in seguito; a questo punto limitiamoci ad osservare certe restrizioni salienti, come ad esempio l’impossibilità di modificare i cromonimi riferiti al mantello equino, tipo gniady, bułany, cisawy, jabłkowity, nonché del già menzionato płowy. Nelle liste delle tinture per i capelli, che rispecchiano la gamma cromatica della capigliatura umana, gli unici accompagnati da modificatori ciemny e jasny sono i termini blond e kasztanowy, ma non più ad es. ciemny mahoń (le stesse limitazioni si ritrovano in serbo-croato, come pure in italiano, il che potrebbe far pensare semplicemente all’internazionalizzazione delle marche dei prodotti cosmetici, è vero comunque che la terminologia stereotipata delle denominazioni commerciali costituisce in questo caso il fedele riflesso delle restrizioni presenti anche nell’uso spontaneo nella lingua).[70] Riprendendo il problema dei colori “equini”, c’è da notare che la loro mancanza di combinabilità con i modificatori di luminosità non è legata ad alcun fattore concettuale, in quanto i termini quali bułany o jabłkowity, possono riferirsi a tutta una gamma di sfumature più o meno chiare o scure. Si dica piuttosto che una gamma cromatica specifica viene recepita non tanto come un continuum di sfumature e gradazioni, bensì come un insieme di unità discrete, analogo al caso del vino bianco – rosato – rosso – nero (ma, almeno in italiano,  non grigio o giallo), o del caffè bianco o nero, ma non marrone ecc. 

Cromonimi specifici

A Celestina, la micina viola 

Il ragionamento precedente porta inevitabilmente ad affrontare il problema dei cromonimi la cui combinabilità è limitata a certi gruppi semantici di determinati. P. ACHARD (1978: 156-157) osserva : “l’absence d’occurrence de “l’herbe orange” n’est pas de même nature que celle de “le mur blond”. (…) Définir la spécificité d’un terme n’est pas proprement parler un problème de lexique. Le terme “brun” est à cet égard exemplaire, car son emploi préférentiel dans le domaine spécifié des couleurs de cheveux le qualifie comme terme général. C’est-à-dire qu’il n’est pas éliminé de l’usage général mais que son emploi tend à devenir rare et littéraire (ou “recherché”).De plus le rapport de la couleur à son support est du domaine non de la règle (stricte) mais de la norme: l’utilisation d’un terme dans une position anormale se transformera en figure de style si les circonstances énonciatives le permettent: mettre dans la bouche d’un personnage de roman une phrase du genre “C’était une femme magnifique, avec sa robe bai et sa crinière alezan” aura pour effet de typer ce personnage comme un “machiste” cynique et ne pourra en aucun cas être considéré comme une “faute de français” même si rien n’empêche d’y voire une “faute de goût”.

Naturalmente il problema viene preso in esame nella maggior parte dei lavori consultati, ma in un modo che raramente sembra soddisfacente. Infatti, ai diversi autori sembra sfuggire il fatto che i cromonimi specifici, ovvero tra i cromonimi a combinabilità limitata, soggetti a restrizioni selettive più o meno forti, si possano dividere in due gruppi assai distinti che si possono definire come gruppo dei cromonimi intrinsecamente specifici e quello dei cromonimi contestualmente specifici. Molti autori (basti ricordare TOKARSKI, 1995, cit.: 201) considerano l’esistenza di una terminologia specifica riferita al colorito umano e alle tinte del manto degli animali domestici più familiari come una manifestazione dell’antropocentrismo nella strutturazione dell’immagine linguistica del mondo. La IVIĆ (1995, cit.) usa scherzosamente a questo proposito il termine ljudske boje.

L’affermazione è certamente valida per il gruppo di cromonimi “ intrinsecamente specifici” in cui  effettivamente si potrebbero osservare gli effetti dell’ antropocentrismo linguistico. Si tratta delle serie di aggettivi a significato cromatico che possono avere per determinato esclusivamente i tratti esteriori a) di esseri umani o b) di animali con un ruolo di un certo rilievo nella vita dell’uomo. La distinzione tra i due sottogruppi non è sempre netta e varia da lingua a lingua: se il polacco blond è un cromonimo limitato ai determinati +HUM, in italiano i cavalli possono tranquillamente sventolare criniere bionde; la combinabilità di ridj serbo croato con determinati animali, sebbene segnalata dai dizionari, non è accettata senza riserve da tutti gli informatori. Del primo sottogruppo fa parte ad es. in serbo-croato l’aggettivo sed/sijed, e in polacco oliwkowy, rumiany, ryży, śniady, smagły, ziemisty ma anche, fatto che sembra sfuggire agli autori delle opere consultate, mahoniowy (TOKARSKI, 1995, cit.: 200, sbaglia nell’affermare che “prevale la combinabilità con nomi di mobilio o di altri artefatti lignei”: in tali usi non si tratta più di un cromonimo, bensì di un semplice aggettivo relazionale di materia ‘fatto di mogano’), platynowy, tycjanowski a combinabilità estremamente limitata. Effettivamente, per tycjanowski e platynowy (eccezione fatta di platynowy lis) non si riescono a trovare combinazioni spontanee diverse da tycjanowska, platynowa  blondynka, tycjanowskie, platynowe włosy (o eventualmente i loro sinonimi); mahoniowy, con il significato cromatico si può riferire soltanto alla capigliatura (N.B. tutti gli aggettivi menzionati rifuggono gradazioni di intensità/luminosità). Come si è detto, alcuni di questi cromomini specifici si possono riferire sia ai capelli umani al mantello degli animali, come ridj in serbo-croato o  siwy, rudy, e il tante volte citato płowy in polacco. Ogni violazione di tali restrizioni semantiche – laddove come per smagły, tycjanowski, ziemisty, tanto per limitarmi a qualche esempio scelto a caso, esso non sia semplicemente inimmaginabile – dà luogo ad espressioni metaforiche più o meno inusuali che solo in alcuni casi tendono alla sclerotizzazione: questo è il caso di płowe kłosy zbóż, płowy piasek, ryże pola, e forse anche  rude liście, ruda glina e persino il già menzionato sine morze.  In italiano si può includere nella serie gli aggettivi biondo, bruno, la cui combinabilità con determinati “non-umani”, per altro assai limitata (il biondo Tevere, la terra bruna), sembra comportare una sfumatura di metafora. E. ARCAINI (1993: 36) cita il sintagma occhi bruni che sembra poco intuitivo: la combinabilità dell’aggettivo (come lo dimostrano del resto i suoi frequenti usi metonimici) si limita piuttosto  ai capelli umani. Del sottogruppo (b) fa parte la serie dei termini polacchi riferiti esclusivamente al mantello equino, di cui nel paragrafo precedente (a cui in italiano corrispondono ad es. baio, sauro, pomellato), i numerosissimi termini riferiti soltanto al mantello bovino, o più genericamente a quello animale, in somalo [ 71], ma anche, tendenzialmente bury/bigio, usato di preferenza, sebbene non esclusivamente, per definire il pelo di cani o gatti e comunque precluso in riferimento ai capelli umani, per quanto nella  realtà extralinquistica i referenti cui tale termine si potrebbe applicare siano tutt’altro che rari.

La specificità terminologica dei “cromonimi umani” varia, come si è detto,  da lingua a lingua, le tre lingue slave prese in esame tuttavia dimostrano certe convergenze che le oppongono all’italiano[72]. Ai cromonimi specifici slavi, rispettivamente  siwy polacco, седойj russo (con restrizioni selettive più forti rispetto al polacco, in quanto riferito esclusivamente ai capelli umani, e non al pelo equino: siwy koń/сивая лошадь né al colore degli occhi, come può succedere in un registro leggermente stilizzato in polacco: siwe oczy/серые глаза) e sed/sijed serbo-croato (con restrizioni analoghe al russo: per il colore degli occhi troveremo siv, sivkasto-plav) corrisponde in italiano il generico bianco. Analogamente, a rudy, che in polacco può riferirsi sia alla capigliatura umana sia al pelo di certi animali (esclusi i cavalli) con il suo sinonimo parziale ryży,  spreggiativo e riferito esclusivamente ai capelli umani (entrambi con la possibilità di usi metonimici), рыжый russo e ridj serbo-croato, riferito anche al manto animale[73] (entrambi i termini russo e serbo-croato sono stilisticamente neutri; in serbo-croato in riferimeno ai capelli umani può essere usato altresì l’aggettivo rus, che, per il suo carattere generico, non si presta ad usi metonimici) corrisponde in italiano il generico rosso[74] (prescindendo naturalmente da forme dialettali). La corrispondenza è tanto più singolare in quanto nella percezione degli informatori di lingua slava il colore dei capelli in questione si avvicina maggiormente all’arancione (lo spregiativo francese poil de carotte ne è una indiretta conferma). C’è da notare tuttavia che l’aggettivo pomarańczowy (e i suoi corrispondenti russo оранжевый e serbo-croato narandčast), come pure l’italiano arancione, non può assolutamente essere riferito ad esseri umani o animali: la sua combinabilità è limitata quasi esclusivamente agli artefatti.

Sta di fatto che i termini cromatici riferiti alle razze umane sono quasi altrettanto arbitrari dei termini usati dai fisici per definire certe reazioni. Basti pensare che i giapponesi, razza gialla per eccellenza dal nostro punto di vista europeo, definiscono  il colore della propria pelle, specialmente in riferimento alle donne, con il termine shiroi, equivalente di ‘bianco’, essendo il biancore sinonimo della  bellezza (lo stesso concetto lo ritroveremo del resto a distanza più ravvicinata, se non dal punto di vista temporale, almeno geograficamente: è sufficiente ricordare Le roman de Tristan et Iseut).

Questo piccolo excursus ci ha portati ad affrontare un problema più complesso: quello dei cromonimi “contestualmente specifici”, la cui specificità sembra sfuggire alla maggior parte degli autori che si sono occupati del campo semantico-lessicale di nostro interesse. All’interno del gruppo si potrebbe effettuare una duplice distinzione in base al carattere morfologico del cromonimo: semplice, non motivato sincronicamente, oppure legato lessicalmente a un oggetto o, più spesso, ad una materia-modello e, d’altra parte, in base ai tratti semantici del determinato (le restrizioni selettive del cromonimo). In questo caso non si tratta della semplice opposizione binaria, del tipo caratteristica umana vs il resto della realtà (blond), né, nel quadro di una visione antropocentrica estesa manto dell’animale di una certa rilevanza nella vita dell’uomo vs il resto della realtà (kary koń vs czarna ziemia, czarne niebo, per quanto czarny koń  è assolutamente accettabile, segno forse di una minore importanza del cavallo per l’uomo contemporaneo): le divisioni seguono vie di gran lunga più tortuose e vanno da combinazioni uni-univoche (o quasi), che nella tradizione linguistica russa vengono definite con il termine постоянный эпитет attributo costante’, fino alla marcata preferenza per il campo degli artefatti. In quasi tutti i casi si ha a che fare con una specificità in qualche modo latente. Non essendo i due criteri di classificazione discreti sono frequenti i casi della loro sovrapposizione.

Riservandomi di riprendere tra poco il filo di questo ragionamento, vorrei soffermarmi brevemente sul problema della motivazione semantica dei cromonimi specifici e no.

Già in precedenza sono stati citati alcuni esempi di cromonimi specifici motivati sincronicamente da un nome di oggetto o, più frequentemente, di materia presi a modello, come platynowy, mahoniowy, ziemisty, per restare nell’ambito degli esempi polacchi citati. Chiaramente la motivazione sincronica in sé non determina necessariamente il carattere specifico, vedasi per esempio perłowy, bursztynowy, stalowy,  złoty o srebrny , per cui non si riescono ad individuare restrizioni selettive. A celare la specificità di molti cromonimi di questa serie è il loro carattere polisemico: oltre a riferirsi al colore tipico del modello di riferimento, essi fungono di frequente da aggettivi relazionali di materia (non è il caso di ziemisty riferito solo al colorito umano ed opposto all’aggettivo relazionale ziemny), con restrizioni selettive del tutto diverse (per lo più limitate ad artefatti): in questo senso mahoniowe meble possono essere laccati di un qualsivoglia colore e platynowy klejnot coperto di smalto. Tale è il caso p.es di piwne oczy vs piwna zupa, piwny szampon ‘minestra di birra’, ’shampoo a base di birra’, ma mai *piwny sweter ‘maglia color birra’, *piwne szkło ‘vetro color birra’, anche se per entrambi i referenti, specialmente per il secondo,  è agevole immaginare un colore marrone dorato che ricordi la birra. Analogamente, in italiano troviamo capelli castani, senza la possibilità di sostituirvi un altro sinonimo di fronte agli occhi castani e marrone e al vestito marrone. Nonostante l’assoluta identità del modello di riferimento, il cromonimo castano è specificatamente “umano” rispetto al generico marrone che tuttavia non può essere riferito alla capigliatura umana. Le stesse restrizioni valgono del resto per la coppia kasztanowy/brązowy in polacco e kesten(j)ast in serbo-croato: kesten(j)ast čovek srednjega rasta kesten(j)aste brade i obrva. Zamistite sebe patuljka sa kesten(j)astim očicama [75]. Il raffronto con il recente imprestito invariabile braon dimostra sorprendenti analogie distribuzionali  con la coppia castano/marrone in italiano: il termine serbo-croato, oltre che agli artefatti, può essere riferito agli occhi, ma non ai capelli umani. In russo карие глаза, каштановые волосы e коричневый (etimologicamentecolor cannella’; sarà interessante notare come il dizionario di OŽEGOV definisca коричневыйj come colore misto per eccellenza: темный, буро-желтый) свитер, карандаш non sono affatto intercambiabili.

Un caso particolarmente interessante è rappresentato dal polacco liliowy: ci troviamo di fronte, come nota TOKARSKI (1995, cit.: 217-8) , non più di fronte ad un lessema polisemico, bensì ai due omonimi: ancora nell’’800 liliowy era sinonimo di ‘bianco’ col riferimento cromatico al giglio (lilia), coesistendo con la forma alloglotta lila ‘viola pallido, poco saturo’. Gradualmente la forma straniera ha imposto il suo significato cromatico al parziale omonimo preesistente. E’ stata sottolineata più volte la grande originalità dell’approccio di TOKARSKI che, per sondare le possibilità denotative e connotative dei cromonimi polacchi, si basa su un corpus formato esclusivamente di testi poetici (il che in fondo contrasta con il titolo del libro: “La semantica del colori nel polacco contemporaneo”): la poesia può servire ad illustrare le violazioni possibili nell’ambito di un sistema linguistico, ma non l’uso linguistico così com’è. Pertanto,  indipendentemente dall’interesse di tale impostazione, essa risulta in alcuni casi fuorviante: la possibilità di estendere la combinabilità degli elementi lessicali nel linguaggio poetico impedisce all’autore di notare il semplice fatto che la combinabilità di liliowy nell’antico senso di ‘biancore del giglio’ è limitata ai sintagmi con białość (biel) + un nominale al genitivo limitato alle parti del corpo umano: liliowa biel, białość cery, dłoni, twarzy ecc.

Oltre che dei colori umani, si potrebbe al limite parlare dei colori “inumani”, neljudske boje, per parafrasare la IVIĆ: in polacco gli iponimi di niebieski, quali lazurowy, granatowy, szafirowy non si possono mai riferire al colore degli occhi umani (escludendo naturalmente gli usi molto marcati stilisticamente). Il primo degli aggettivi ha la combinabilità limitata a niebo ‘cielo’ e morze ’mare’, oltre al palese calco Grota Lazurowa.

A quasi tutti gli autori, persino quelli che si dedicano a trattare specificatamente l’uso dei colori in vari settori industriali o merceologici[76] sfugge l’esistenza di cromonimi riservati esclusivamente, o quasi, agli artefatti. L’unico a notarla è P. ACHARD (cit.:157) che giustamente osserva: “On peut aussi s’interroger sur le statut des termes “indigo”, “pourpre” et “écossais”[77] qui désignent en première valeur des couleurs de tissus. Dans des emplois comme “un ciel pourpre” ou “une mer indigo” (métaphores si usuelles qu’on peut les qualifier de cliché) l’effet de style tient à l’application de termes désignant des procédés artisanaux à des termes “naturels” (ciel et mer). Le terme “sienne” a quant à lui son domaine d’origine dans la peinture. Son emploi généralisé aura pour effet stylistique de situer le locuteur comme parlant à partir d’un ‘regard de peintre’.”

 Per lo più si tratta di termini periferici a frequenza non elevata, come il polacco beżowy (e, analogamente, beige in italiano): *beżowy piasek sembra altrettanto innaturale come il *muro biondo di ACHARD, il già menzionato teget serbo, riservato ai tessili, e tutta una serie polacca di aggettivi derivati, come biskupi, buraczkowy, butelkowy, cielisty, mysi,  piaskowy, tabaczkowy ecc., senza pretendere in alcun modo di esaurire la lista, che difficilmente potrebbero essere riferiti ad es. ai colori della vegetazione o del terreno, per quanto, concettualmente, tali riferimenti non avrebbero niente di anomalo.

Una menzione particolare spetta al mantello animale, specialmente a quello degli animali da pelliccia. Non c’è uno studio di certa entità dedicato ai cromonimi che non faccia cenno ai termini “intrisecamente specifici” relativi al pelo equino: anche in questa sede tali esempi sono già stati citati diverse volte. Passa invece quasi inosservato l’uso specifico contestuale di cromonimi generici in riferimento alle varie specie di animali da pelliccia, ma non soltanto (si pensi a brzoskwiniowy pudel ‘barbone color albicocca’ o letteralmente ‘pesca’). Tali terminologie si dispongono solitamente in reti di opposizioni discrete, cui si è fatto cenno nel capitolo Gatto bianco, gatto nero. Si consideri l’esempio dell’animale da pelliccia per eccellenza: la volpe. In polacco lis può essere rudy (come gli esseri umani), biały , czarny, srebrny, platynowy, niebieski. E’ da notare che gli ultimi tre termini volpe argentata, azzurra e, alla lettera, color platino perdono in queste combinazioni il loro significato cromatico abituale e indicano  le varie sfumature, o più esattamente vari gradi di luminosità, del grigio. Interessante è il raffronto con il russo dove лиса può essere рыжая (‘rossa’ con le restrizioni selettive analoghe al polacco), черно-бурая (corrispondente della varietà “platino”), ma né белая голубая : per le sfumature chiare delle volpi polari il determinato cambia diventando песец.

L’esempio più noto dell’uso specifico di un cromonimo generico in riferimento al mondo animale rimane comunque il serbo-croato zelen konj (esistente anche in bulgaro) che ha dato il titolo al bel libro della IVIĆ. Sta di fatto tuttavia che il nostro sorprendente cavallo non è affatto isolato : il cromonimo zelen dà origine ad una serie di derivati talmente nutrita da far venire in mente l’inesauribile verde tuwimiano: oltre ai derivati piuttosto intuitivi, non soltanto nell’ottica del serbo-croato, tra cui, per restare nel regno animale zelembać ‘ramarro , Lacerta viridis’, nello Hrvatsko-srpsko-talijanski rječnik di M. DEANOVIĆ e J. JERNEJ (1970) figura zekonja – folcl. appellativo di bue dal colore di lepre (per quanto la parola potrebbe anche derivare semplicemente da zec ‘la lepre’ );vi troviamo anche zelenko, zeko  ‘cavallo pomellato’, zeljov  ‘cane grigiastro’, zeljug ‘maiale grigiastro’. Nel Dizionario dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti (1969), zelen nell’accezione di cromonimo specifico, riferito al pelo animale viene definito come ‘giallo-grigiastro’, il che, in fondo, potrebbe essere parafrasato come ‘colore mimetico’[78].

 Di questa interpretazione ho avuto una conferma indiretta dalla bocca di bambini polacchi dell’età tra i 10 e i 13 anni. I miei piccoli ospiti, evidentemente portati a giochi linguistici, tra i numerosi gatti della casa si ostinavano a chiamare un sorianetto dal colore piuttosto indefinito zielony kot ‘gatto verde’ appunto. Per quanto un simile uso di zielony sia completamente estraneo al polacco[79], tale spostamento nell’applicazione di un cromonimo generico, è risultato per me del tutto intuitivo. Molto più sorprendente è stato l’appellativo fiołkowa kicia  ‘micina viola’ dato dai miei fantasiosi informatori in erba ad una blu di Russia piuttosto scura.  

O l’Omega, rayon violet de Ses Yeux !

    Arthur Rimbaud, Voyelles  

In che cosa risiede la differenza tra i due usi, entrambi palesemente devianti, che fa accettare il primo come uno scherzo linguistico piuttosto comprensibile, ma non il secondo? Ora, nel caso del ‘gatto verde’ ci troviamo di fronte all’applicazione specifica di un crominimo generico, parallelo - a livello della parole - a quanto succede nella langue per la volpe azzurra; nel secondo caso si ha a che fare un uso deviante di un cromonimo specifico. Si tratta di un altro fatto sfuggito all’attenzione degli autori degli studi sui cromonimi : il singolare status della coppia fioletowy/ fiołkowy, violetto/viola che, probabilmente per effetto di un calco paneuropeo, trova sorprendenti analogie in tutte le lingue , slave e non, messe a confronto. Soffermiamoci per il momento sulla situazione italiana e polacca, alquanto simili ma non identiche. L’italiano dispone del cromonimo generico violetto (un tessuto violetto, le luci violette), definito sia dal GARZANTI sia dal SANSONI in funzione delle lunghezze d’onda corrispondenti nonché del suo sinonimo non totale: viola. Viola, in effetti, a differenza di violetto, come cromonimo specifico può essere riferito al colore degli occhi umani. In tali usi specifici smette di essere anche il suo sinonimo completo in quanto, a differenza del suo significato generico, non indica il blu con aggiunta di rosso, bensì una tonalità scura del blu. Credo del resto che in chiave di questa particolare polisemia si possa leggere il violet degli occhi divini in Rimbaud[80]. In polacco, come nelle altre lingue slave in cui esistono i corrispondenti di fiołkowy/fioletowy, i due termini sono entrati per il tramite del tedesco. La loro differenziazione semantica è ben più netta: il primo è un cromonimo generico « barwa powstała ze zmieszania czerwieni i błękitu » ‘miscuglio di rosso e blu’ secondo SZYMCZAK, il secondo – un termine specifico, riferibile esclusivamente agli occhi umani (esclusa naturalmente l’accezione relazionale, tipo korzeń fiołkowy, perfumy fiołkowe) che indica il colore della viola mammola, il blu scuro e non più il violetto : l’esempio riportato da SZYMCZAK ?fiołkowy materiał urta palesemente con le intuizioni di tutti gli informatori di madre lingua consultati. Ritornando alla licenza poetica infantile nella definizione del pelo della gatta blu, essa è stata frutto di una operazione linguistica abbastanza complessa per cui si potrebbero ipotizzare i seguenti passaggi: fiołkowy (ma solo in riferimento agli occhi umani, nel polacco standard) indica una tonalità scura del blu; la gatta appartiene alla specie blu (analogamente alle “volpi azzurre”); è piuttosto scura nel suo genere (ma si è detto che i cromonimi che formano reti di opposizioni discrete non sono suscettibili di gradazione); pertanto la gatta può essere definita viola. L’opposizione фиалковiй/фиолетовiй esiste anche in ucraino con la medesima distribuzione dovuta, con ogni probabilità, all’influenza polacca, ma non in russo. Il dizionario di OŽEGOV registra фиалковый esclusivamente con il significato relazionale (фиалковый корень), mentre фиолетовый viene definito come “синий с красноватым оттенком” (фиолетовые чернила); secondo ČERNYX entrambi gli aggettivi sono entrati in russo con il significato relazionale. Come cromonimo фиолетовый è definito come “синий ц малиновым оттенком, темно-лиловый, имеющий цвет фиалки”, definizioni convergenti con il significato del polacco fioletowy. Attualmente tuttavia il cromonimo фиолетовый  è riservato per lo più a -sostanze (o strumenti) coloranti (фиолетовый карандаш), mentre per gli altri determinati, sia gli artefatti sia gli occhi umani, viene usato indifferentemente l’aggettivo сиреневый ‘color lilla’ (per quanto non tutti i parlanti accettino l’espressione сиреневые глаза), da considerarsi pertanto l’esatto corrispondente di viola italiano.

Il prestito non ha attecchito in serbo-croato, sebbene il dizionario di M. DEANOVIĆ e J. JERNEJ registri la forma vijoletan: il cromonimo usato normalmente è ljubičast, derivato dal nome croato della viola ljubica, con la combinabilità (e la polisemia cromonimo generico vs cromonimo specifico, riservato agli occhi umani) simile a quella di сиреневый russo. Nel senso generico ljubičast è concorrenziato dall’imprestito invariabile lila, che funziona anche in polacco limitatamente però alle sfumature chiare del viola.

Per concludere : le restrizioni selettive che regolano l’uso dei cromonimi sono di gran lunga maggiori rispetto a quanto finora osservato. La tendenza di creare serie separate di cromonimi relativi a) ad artefatti ; b) ai fenomeni naturali ; c) alle caratteristiche cromatiche umane d) al mantello dei mammiferi, specialmente quelli domestici è comune a tutte le lingue esaminate e il superficiale raffronto con i dati somali farebbe supporre la sua universalità. E’ compito tuttavia dell’antropologia linguistica di trovare metodi adeguati per confermare o invalidare tale ipotesi.

 

Colori imparentati

Nel suo raffronto tra lo sviluppo semantico delle denominazioni di BLU in russo e in serbo, per tener conto di alcuni significati di sinj e dall’evoluzione storica голубой, la MASLOVA si è trovata costretta ad estendere il campo delle indagini a colori affini, segnatamente a certe sfumature del grigio: сизыйj cui corrisponde in serbo golubast nonché сероватый, пепельно-серый reso in serbo dal polisemico sinj. Naturalmente la sua decisione è stata dettata dalle esigenze del raffronto interlinguistico, essa comporta tuttavia la necessità di affrontare un altro problema: quello dei termini cromatici “imparentati”. Non si tratta dei rapporti di iponimia e iperonimia, comuni nell’ambito del campo lessicale considerato, ma dell’impressione di affinità visiva tra due colori, spesso corrispondente alla loro vicinanza nello spettro. Per sfuggire da una parte all’intuizionismo, e dall’altra all’introduzione di un criterio fisico in una indagine che si vuole puramente linguistica, tale affinità o parentela potrebbe essere ricondotta alla  possibilità di formare dei composti che indicano sfumature intermedie, e non l’accostamento dei due colori : cf. zielononiebieski (deseń) ‘motivo, disegno verde-azzurro’ vs żółtoniebieski (deseń) ‘motivo, disegno giallo-azzurro’. Questo tipo di costrutti in francese è oggetto di analisi di A. MEUNIER (1978). Muovendosi secondo un metodo distribuzionale, l’autrice compila una lista dei nomi di colore che, unendosi ad un altro cromonimo, occupano obbligatoriamente il primo posto, fungendo in tal modo da “indicatore”, mentre al secondo termine spetta il ruolo di “specificatore”, tipo bleu ciel, gris perle, noir ébène, rose bonbon (p. 174). Da notare che la maggior parte degli specificatori è costituita da cromonimi secondari, in altri termini motivati da oggetti o materie di riferimento, e decisamente periferici, mentre gli indicatori appartengono tutti alla lista basica.. Nel caso di combinazioni di due termini basici, il loro ordine diventa reversibile, tipo rouge rose/rose rouge, mentre le combinazioni di due cromonimi secondari periferici non sono ammissibili:*couleur apricot pêche, *suie anthracite ecc. Le sue osservazioni sembrano valide anche per le lingue oggetto delle mie analisi, a parte le differenze dovute a fattori morfologici, ossia ad possibilità maggiori sia delle lingue slave sia dell’italiano di formare aggettivi alterati, problema su cui mi riservo di tornare in seguito. A questo punto basti menzionare “des impossibilités physiques qui entrainent des incompatibilités sémantiques”, rilevate dalla MEUNIER (p. 175), quale *couleur rouge vert *colore rossoverde, mentre il verdeazzurro (o verdazzurro) è regolarmente registrato dal GARZANTI.

Chiusa questa parentesi, soffermiamoci brevemente sulle denominazioni delle varie sfumature, o forse più esattamente delle varianti, del GRIGIO, chiaramente imparentate con quelle del BLU. Un terreno di raffronto particolarmente interessante è offerto dal polacco e dal russo. Di fronte al grigio italiano in entrambe le lingue slave settentrionali troviamo un ventaglio ben più ricco di termini, fatto che farebbe la felicità dei sostenitori di una correlazione tra le condizioni climatiche e la strutturazione del campo cromatico lessicale. In polacco troviamo szary, siny e siwy, mentre in russo la lista s’allunga a ben cinque termini: серый, синий, сизый, сивый, седой. Vista la differenza numerica (mentre il polacco, come si è accennato, dispone di una serie particolarmente sviluppata di iponimi di niebieski), la corrispondenza tra le terminologie delle due lingue è evidentemente esclusa. La prima differenza riguarda il significato della coppia siny/синий, in cui, come si è detto, il termine russo ha lo statuto di cromonimo di base, mentre quello polacco, oltre ad essere percepito come sfumatura mista, “azzurroviolaceo, a volte tendente al grigio” secondo il dizionario di SZYMCZAK, a parte le non numerose espressioni fisse di registro poetico o più frequentemente ironico, comporta per lo più un elemento di valutazione negativa (minaccia o stato morboso). Stando alle definizioni del dizionario di OŽEGOV, tuttavia, tali significati non sono estranei a синий russo associato alla pelle umana синие от холода руки  = посиневшие руки, sebbene al polacco siny nos corrisponda in russo сизый нос. Quest’ultimo aggettivo sembra avvicinarsi maggiormente a siny polacco: OŽEGOV lo definisce come темно-серый с синеватым оттенком, adducendo l’esempio сизый туман, simmetrico al polacco sine chmury, niebo, tuttavia la traduzione di KOVALEV è ‘grigio azzurro’, piuttosto lontana dalla normale percezione del termine polacco. L’iperonimo di questo settore del campo è certamente szary/серый, che nei dizionari delle due lingue compare invariabilmente nelle definizioni dei termini restanti. In entrambe le lingue il termine entra a far parte di numerosi fraseologismi, solo parzialmente coincidenti. Sia in polacco sia in russo troviamo l’internazionalismo szare komórki, серое вещество ‘materia grigia’; tra gli esempi di OŽEGOV figura серое сукно, ma al polacco szare płótno corrisponde nнебеленое полотно ‘tela grezza’. Nessuno dei dizionari russi consultati registra un corrispondente del neologismo economico polacco szara strefa, cui si è accennato precedentemente. In entrambe le lingue, come del resto in italiano, le denominazioni del GRIGIO connotano la malinconia, la mancanza di colore, sia nel senso atmosferico: szara pogoda, серая погода =пасмурная, però solo in polacco szara godzina ‘il crepuscolo’ cui in russo corrisponde solo il sintetico сумерки , sia nell’accezione metaforica di monotonia e mediocrità: szare życie, серая жизнь’’ una vita grigia’, szare dni,серые дни  ‘giornate grigie’, in russo серая книга ‘libro scialbo, insignificante’, ma solo in polacco il termine funge da intensificatore nell’espressione być (wlec się) na szarym końcu, equivalente a плестить в хвосте ‘essere ultimi’. Riferita all’uomo la coppia szary/cерый presenta un tipico caso di falsa amicizia: szary człowiek polacco è un uomo qualunque (niente che vedere con l’eminenza grigia cui corrisponde un calco polacco), mentre in russo l’espressione equivalente, indicata da OŽEGOV come colloquiale, indica la mancanza di cultura.

Divergenze ancora maggiori si riscontrano nella coppia siwy/сивый. I due termini coincidono soltanto se riferiti al manto equino (cf. anche i sostantivi siwek, сивка), con il comune significato ‘grigio cenere’ che compare del tutto idiomaticamente nelle due espressioni scherzose russe: врет как сивый мерин , глуп как сивый мерин. Il riferimento ai capelli umani, basilare per il termine polacco, assume in russo una sfumatura colloquiale, mentre il corrispondente neutro è седой, con una serie di fraseologismi, estranei al polacco, in cui l’aggettivo denota la vecchiaia: дожить до седых волос o l’antichità: седая старина . Tale componente semantica è meno marcata nel polacco siwy che sembra “meno specifico” e pertanto, come si è detto, in un registro leggermente stilizzato, ammette l’espressione siwe oczy, senza nessun riferimento all’età avanzata, cui in russo corrispondono semplicemente серые глаза.

Riassumendo, la sorprendente mancanza d’isomorfismo tra le due lingue sembra riguardare non tanto la segmentazione del frammento del campo cromatico, secondo criteri di luminosità o saturazione, bensì la diversa combinabilità sintagmatica dei termini che lo compongono.

 

Cromonimi “impuri” o non solo cromonimi

Nel corso dei ragionamenti finora svolti sono stati riscontrati alcune volte aggettivi che, oltre al significato cromatico, comportavano altri elementi semantici, per lo più di tipo valutativo, ma non soltanto: è stato questo il caso del polacco siny, di sinj e modar in serbo-croato e anche di седой russo nella cui composizione semantica sembra rientrare la componente ‘legato alla vecchiaia’ che per il polacco siwy si colloca piuttosto a livello di connotazioni. A questo tipo di termini, non molto numerosi, propongo di riservare l’etichetta di “cromonimi impuri”. Proviamo a chiarire meglio questo concetto.

Non è cromonimo impuro il russo красный. E’ vero che al suo attuale significato cromatico, nato probabilmente attorno al XV secolo, - per cui il russo si oppone a tutte le altre lingue slave (ivi compreso l’ucraino) che nel senso cromatico sfruttano i derivati dalla stessa denominazione di verme cui in slavo ecclesiastico  corrisponde ÷ðüÌüÍú, (lontanissimo parente dell’italiano chermisi, cremisi[81]dell’italiano), - si accompagna ancora, in una serie di espressioni fisse, quello originario di valutazione estetica positiva ‘bello’ o, forse ‘adorno’ (che, in misura maggiore o minore si mantiene nelle altre lingue slave). Il vecchio significato estetico si conserva in красная девица  ‘bella fanciulla’[82], come pure in красный денек, красное солнышко; lo ritroviamo in красный угол  ‘angolo solenne, adorno, sacrale riservato nelle isbe russe alle icone’ [83], красная дичь o рыба ‘cacciagione o pesce pregiati’, красное крыльцо  ‘piano nobile’, красная срока  ‘allinea’ (si pensi ai codici miniati) e anche nel nome di Красная Площадь’ Piazza da parata’, entrata in tutte le lingue sotto la forma di traduzione erronea “Piazza Rossa”. Tale polisemia venne del resto abilmente sfruttata dalla propaganda sovietica: basti pensare a Красная Армия  che è, sì, l’armata rossa comunista, ma anche la ‘bella armata’. Si tratta però appunto di polisemia dell’aggettivo e non della componente estetica positiva inerente del suo significato: nel senso cromatico, красный, come i suoi corrispondenti in altre lingue può entrare senza ostacoli in combinazioni sintagmatiche con некрасивый o болезненный. Красный, riferito al colore, resta sempre un cromonimo puro o esclusivo: se per czerwony (zaczerwieniony) o biały  (z zimna) nos (come nelle altre lingue prese in esame) origine “malsana” dello stato del determinante viene inferita, ossia deriva dalla nostra conoscenza della realtà extralinguistica, per siny (modar, sinj) la situazione è ben diversa. La componente di valutazione negativa sembra appartenere al valore non più connotativo ma piuttosto denotativo dell’aggettivo stesso:  come il famoso latuy in Hanunòo che oltre al valore cromatico comporta  il significato di freschezza, succulenza, umidità o il giapponese aoi che, in base all’interpretazione che ne dà la WIERZBICKA  (cit., p. 307-308, 312-313), dovrebbe equivalere a ‘momentaneamente BLERDE brillante’, al significato dato dal dizionario “niebieskofioletowy, z odcieniem szarym” ‘azzurro violaceo, tendente al grigio’, a parte i fraseologismi (i già citati siny dym, sine morze, sina dal), negli usi liberi, s’accompagna sempre l’elemento semantico negativo – malattia, freddo, contusione (cf. anche l’impossibilità di combinazione con modificatori positivi:*ładnie siny, *zdrowo siny[84]).

Le stesse osservazioni si possono riferire al  serbo-croato modar (cf. l’impossibilità di *l(j)epo modar). Notiamo marginalmente che si tratta di un aggettivo senza continuatori nelle lingue slave orientali e che invece in serbo mantiene il significato di intensità (colore intrinsecamente scuro):  in certi dialetti modrozeleno equivale a tamnozeleno[85]. Nello standard resta un cromonimo specifico, per lo più riferito ad esseri umani con lo stesso significato negativo di siny polacco. I corrispondenti russi, sia синий che сизый non sono perfettamente equivalenti, in quanto la sfumatura negativa che assumono in riferimento agli stati del corpo umano deriva piuttosto dalla nostra conoscenza della realtà extralinguistica e non fa parte integrante della loro composizione semantica. Maggiori analogie esistono invece con il livido italiano che persino negli usi estensivi, tipo cielo, livido, acque livide mantiene, alla pari del valore cromatico mantiene l’elemento semantico di valutazione negativa. A differenza di siny e modar tuttavia, il cromonimo italiano manca del tratto + SCURO, CUPO.

Ai significati aggiuntivi presenti nei termini di colore nella poesia oraziana è dedicato l’articolo di A.O. SODOMORA (1979) che interpreta viridis, virens non solo in senso cromatico, ma anche come ‘giovane, resistente, potente’(l’aggettivo virens è associato persino alle fiamme dell’Etna), contrapponendolo al bianco (alba senecta), mentre la rubente …dextera di Giove esprime non soltanto colore, ma anche intensità, movimento, durata. Il problema, irresolubile, sarebbe stato quello di stabilire di fino a che punto si tratti di valori stabilmente associati alla terminologia cromatica del latino del I secolo a.C., dove comincia invece il gioco puramente artistico. 

Denotazioni o connotazioni? Colori “belli” e “brutti”

    Entrò in un regno di quiete bionda, celeste, verde smeraldo. Е. STRIANO, 1997,  Il resto di niente  

     

Nell’affermare la presenza di componenti negative costanti, legate ad alcuni cromonimi, si è cercato di operare una distinzione tra il significato di un termine e il suo valore connotativo. Il compito non è certamente facile, stando alla classica definizione wittgensteiniana, secondo cui “Il significato di una parola è il suo uso nella lingua”[86]. Attenendoci tuttavia alla formulazione di LEECH (1974), per cui  la connotazione è “ciò che è comunicato in virtù di ciò a cui il linguaggio si riferisce”, diventa chiaro che i valori positivi legati ad esempio al termine polacco  niebieski e ai suoi iponimi modry e błękitny fanno parte della sua sfera connotativa, in funzione della definizione lessicografica “il sesto colore dell’arcobaleno, colore del cielo sereno, dei fiori di lino” (SZYMCZAK). Analogamente i valori positivi, costantemente legati ai termini più marginali come złoty, perłowy, szafirowy, il già menzionato liliowy, o tanti altri motivati sincronicamente da nomi di piante o sostanze preziose,  sono da connettere alla nobiltà e ricchezza delle materie da cui derivano. Meno immediata è la motivazione del valore positivo di seledynowy il caso unico, come rileva TOKARSKI (1995, cit.: 173), di un cromonimo derivato dal nome di un personaggio letterario Céladon di H. D’URFÉ: si tratta semplicemente dell’associazione del verde pallido, pastello, con la vegetazione nascente (si noti marginalmente il valore stabilmente positivo del termine pastello). D’altra parte, volendo identificare il significato di una parola con il suo uso linguistico ovvero la distribuzione, un test analogo a quello usato per definire i colori intrinsecamente chiari o scuri, ovvero la possibilità di combinarsi con avverbi valutativi tipo ‘bello/brutto’ ‘sano/malsano’, vista l’impossibilità di accostamenti *brzydki perłowy, seledynowy, modry, złoty kolor e la scarsa probabilità di ?brzydki niebieski kolor (la combinazione diventa invece accettabile con la forma alterata niebieskawy, si cui si tornerà in seguito) porta ad includere l’elemento valutativo nel significato dei termini.

Il problema si pone se la violazione del valore connotativo debba produrre costrutti scorretti o soltanto sorprendenti. Tale domanda costringe ad affrontare la definizione stessa dei rapporti tra il significato, la denotazione e la connotazione, questione che, per la sua vastità e il carattere più filosofico che linguistico, esula dal campo delle mie indagini.

In questa sede mi limiterò ad illustrare brevemente il problema con alcuni esempi delle lingue prese in esame.

Non è un caso che nelle liste delle tonalità delle ditte produttrici di tinture per i capelli non compare mai il termine ROSSO, pur trattandosi di una delle colorazioni più diffuse e resistenti al cambiare delle mode. Il raffronto è stato fatto per il polacco e il serbo-croato, due lingue che dispongono di un termine specifico per definire il rosso dei capelli umani, rispettivamente rudy e ridj, e per l’italiano che ricorre al cromonimo generico rosso (i dati russi sono risultati irreperibili). Sui volantini delle case di cosmetici, il ROSSO si traveste da castano (o biondo) ramato, dorato o mogano; diventa tiziano chiaro o scuro, o ancora, più fantasiosamente tramonto romano (si potrebbe immaginare anche un’alba veneziana, per non porre limiti all’inventiva dei pubblicitari). Certo, la coincidenza potrebbe essere dovuta all’internazionalizzazione delle marche, ma non si può non pensare a tutta la serie delle associazioni negative legate al rosso dei capelli (Giuda, traditore, strega, ebreo). Diverso il caso di henné rosso o nero, in cui abbiamo a che fare con l’opposizione binaria di due tipi di sostanza, identica a quelle esaminate nel capitolo dedicato a bianco e nero.

Un altro esempio potrebbe essere rappresentato dal termine bigio in italiano e al suo esatto corrispondente polacco bury, tendenti entrambi all’uso specifico, limitato al manto di certi animali: un cane o un gatto bigio, come bury pies o kot, possono essere certo oggetto di varie espressioni di tenerezza, ma è estremamente improbabile che compaiano nei contesti tipo ?un bel cane bigio, ?ładny bury pies, e tanto meno *il cane di un bel (colore) bigio; *pies ładnego burego koloru. Le stesse restrizioni valgono del resto anche per i meno frequenti usi generici: *un bel cielo bigio, *ładne bure chmury.

Riprendiamo ancora il ragionamento di CALVINO a proposito della traduzione di QUENAU. Dopo aver esposto le ragioni stilistiche, o più precisamente eufoniche, che l’hanno portato ad optare per la versione Fiori blu, lo scrittore-traduttore s’interroga sul significato del titolo rispetto ai contenuti del libro, riferendo la spiegazione fornitagli dall’autore, interpellato in proposito: “Mi spiegò il significato francese dell’espressione, che indica ironicamente le persone romantiche, idealiste, nostalgiche d’una purezza perduta, ma non mi diede altri lumi sul valore di questa immagine nell’insieme della vicenda…”(p. 270), il che fa venire immediatamente in mente l’espressione francese  le conte bleu, recepito oramai dai francofoni come ‘menzogna, balla’. L’espressione le conte bleu, come il giallo, nel senso di ‘poliziesco’ in italiano, deriva semplicemente dal colore della copertina di una serie di libri per l’infanzia. C’è da chiedersi tuttavia se, nei due casi, si tratta di una pura coincidenza oppure di un gioco di connotazioni legate in maniera costante ad un determinato colore, come per la cronaca nera ou rosa  o romanzo rosa (un tipo di metonimia che in italiano sembra più produttivo rispetto alle altre lingue esaminate). L’espressione francese ricorda da vicino il principe azzurro italiano nonché le espressioni russa голубая мечта e polacca myśleć o niebieskich migdałach, letteralmente ‘pensare alle mandorle azzurre (celesti), sognare le mandore azzurre (celesti)’, equivalente a ‘sprofondare in sogni irreali’[87]. « L’azzurro » delle mandorle polacche rappresenta un caso diverso dai sorci verdi italiani : malgrado il generico richiamo agli usi tipo diventare verde di paura, il colore dei sorci potrebbe commutarsi con un qualsiasi altro cromonimo che di solito non viene riferito al pelo di topo, senza cioè nessuna connotazione impropria; il BLUE, nelle tre lingue, oltre all’impossibilità, comporta autonomamente la nozione d’irrealtà.

Nemmeno il secondo caso, quello delle copertine gialle della serie poliziesca della Mondadori, è da cosiderarsi fortuito, come me l’ha cofermato la predominanza del colore giallo nella vetrina di una libreria belga che esponeva la letteratura poliziesca: a prescinere dalle scelte di questa o quell’altra casa editrice di eleggere determinati colori ad emblema di una collana tematica, il giallo conduce con sé l’idea di minaccia o, come avviene per la segnalitica stradale, l’avvertimento di un pericolo imminente (cf. anche bandiera gialla, equivalente a ‘peste a bordo’).

« La degradazione del giallo, iniziata con la fine dell’antica Roma dove era uno dei colori più ambiti, nel Medioevo si caricò di valenze spirituali negative, come colore della falsità e del tradimento » - scrivono la LUZZATO e la POMPAS (cit, p. 33). « Il giallo contrassegnava i monaci e i preti accusati di stregoneria e, nei paesi fiamminghi, la casa degli spergiuri e dei debitori; era anche il colore discriminante di quanti non appartenevano alla comunità cristiana, in particolare dei musulmani e degli ebrei ; nel IV Concilio Lateranense (1215) si stabilì che a partire dai 12 anni tutti gli ebrei residenti nei paesi cristiani portassero sul vestito una rotella gialla, come segno di distinzione dal resto della popolazione e, in alcuni Paesi, per ordine dell’autorità persino la sinagoga venne dipinta di giallo. » Il significato di ‘tradimento’ traspare palese nell’espressione italiana sindacato giallo, che trova esatto corrispondente in russo. OŽEGOV segnala anche желтая прессa cui, oltre al significato ‘stampa scandalistica’, attribuisce anche quello di ’traditrice degli interessi della classe operaia’. L’espressione žuta štampa esiste anche in serbo-croato con il significato di ‘stampa scandalistica’.

Sul « degrado del giallo nella scala di valutazione emotiva » insiste anche la RZEPIŃSKA (cit., pp. 172-173) : « …nessun colore ha subito un degrado nella gerarchia della valutazione emotiva paragonabile a quella del giallo. A partire più o meno dal XII secolo esso comincia ad essere considerato come colore del tradimento e della falsità, forse per influenza delle insegne cromatiche dell’ambiente dei Mori spagnoli. In pittura è Giuda ad essere vestito di giallo (…) Nel linguaggio allegorico laico dei colori il giallo veniva giudicato come colore dell’inimicizia, delle male intenzioni e della spudoratezza, assegnato alle donne di malaffare ed agli ebrei, il che dovrebbe confermare la derivazione spagnola di questa simbologia. Le cortigiane italiane nel rinascimento venivano costrette a portare sulle vesti delle insegne gialle »[88]. 

Aggiungiamo a questa carrellata la черная шапочка с вышитой на ней желтым шелком буквой « M » nel Мастер и Маргерита di BULGAKOV, dove il colore della lettera, simbolo dell’eresia e della follia, non è senz’altro dovuto a caso (vista anche l’eccezionale sensibilità cromatica dello scrittore).

Trasferendoci in un ambito extraeuropeo, il giallo imposto dai Taliban alla minoranza indù nell’Afganistan porta non solo il simbolismo del tradizionale colore della fede induista, ma anche quello del segno internazionale dell’infezione.

« Il  legame del giallo con il male nei suoi molteplici aspetti o con la minaccia è abbastanza palese, perquanto trovi scarso riflesso a livello linguistico, specialmente nell’ambito di costrutti convenzionali, metafore o fraseologismi » scrive TOKARSKI (1995, cit.: 127-8), segnalando lo sporadico fraseologismo contemporaneo mieć żółte papiery lett. ’avere documenti gialli’ , equivalente a ‘soffrire di disturbi psichici’, da una prassi diffusa nel periodo interbellico, malgrado la segretezza delle diagnosi di malattie psichiatriche: il rilascio di certificati su moduli diversi da quelli standard (e la scelta del giallo di nuovo non sembra casuale ) indicava la capacità limitata di intendere e volere.» A confermare il carattere non casuale del colore dei documenti serva l’esistenza in croato dell’espressione žuta kuća lett.’casa gialla’ equivalente a duševna bolnica ‘ospedale psichiatrico’. Il giallo si associa alla xenofobia etnica ; compare a livello del linguaggio comune associato con stati fisici o psichici negativi, tipo żółty ze złośći, z zazdrości, żółta twarz, assolutamente simmetriche all’italiano giallo di rabbia, di paura, d’invidia, nonché in una serie di espressioni con la parola żółć ‘bile’.

Curiosamente le associazioni negative sono meno forti per il žut serbo-croato: la IVIĆ (cit.,  p.32) riporta un brano di poesia popolare: Uvatite lijepu djevojku. Pa joj žute kose raspletite. In Srpski mitološki rečnik a p.59 leggiamo: Žuta boja dobila je magijsku ulogu boje sunca, zlata, zrelog žita i slame, c jedne strane, a, s druge strane, zbog boje bolesnika i mrtvaca ‘Il giallo ha assunto il valore magico in quanto colore del sole, della segala matura e della paglia, da una parte, e dall’altra in quanto colore del malato e del cadavere’. Questa ambivalenza, con delle oscillazioni maggiori o minori verso il polo positivo o negativo non è estranea ad altre lingue. Malgrado la presenza in inglese della espressioni yellow flag e yellow press con lo stesso significato delle espressioni corrispondenti italiane, russe, serbo-croate o polacche viste in precedenza, nonostante l’associazione di yellow con la codardia, segnalata dal dizionario di HORNBY,  J. DONNE definisce i capelli della sua diletta come yellow hair, reso dal traduttore italiano[89] come capelli paglierini segno, probabilmente, di una connotazione negativa più forte del giallo italiano rispetto a yellow nell’inglese secentesco. Non disponendo della versione polacca del sonetto, ho cercato di immaginarne un possibile corrispondente: scartando decisamente żółty, per gli stessi motivi che hanno guidato l’anonimo autore della traduzione italiana, per non ricadere nella banalità di złoty (złocisty) ‘dorato’, avrei forse optato per pszeniczny ‘color grano’ diventato cromonimo specifico riservato ai capelli umani, scelta questa condivisa dai miei informatori di lingua madre serbo-croata (pšeničan), che però ammettono anche la possibilità della traduzione letterale : l’espressione žuta žena ‘ donna bionda’[90] può essere usata senza alcuna connotazione negativa. Naturalmente gli usi di żółty con connotazioni positive non sono preclusi in polacco nel senso assoluto. TOKARSKI (1995, cit.: 110) cita il seguente brano di IWASZKIEWICZ :

O siostro ! oto letni świt

Włóczegów rzeźwi rzadki krok.

Wlewa przez okna z rannym chłodem

Pasma tak żółte jak twój lok.[91]

Gli altri esempi poetici addotti (żółty włos della serva lentigginosa in K. IŁŁAKOWICZÓWNA (p. 115) o il brutto giallore del visino della contadinella in Za chlebem di UJEJSKI)  sono tuttavia di gran lunga più consoni con la percezione collettiva di żółty riferito ad esseri umani (e non soltanto: cf. esempi di żółte słońce, riscontrati in testi poetici che, forse più fortemente del  sole giallo  in italiano, fanno pensare ad un sole malato o malefico).

Si è detto che il ricorso a złoty (złocisty) nella versione polacca di DONNE equivarrebbe ad una certa banalizzazione dell’immagine creata dal poeta-filosofo. Tale impressione concorda con quanto afferma TOKARSKI a proposito della concorrenza di złoty e żółty, che si manifesta anche a livello di frequenza (nei testi artistici quella di złoty è superiore nella misura di 1 : 2,5). Ridimensionando l’applicabilità delle affermazioni della WIERZBICKA che identifica il prototipo dell’inglese yellow con il sole[92], l’autore parla di un “cambiamento di valore” (przewartościowanie) del centro del gruppo lessicale (cit.: 112 et passim), costituito da due cromonimi żółty e złoty, vicini dal punto di vista semantico ma, almeno in una parte d’impieghi testuali, diversi nei loro rapporti con il prototipo. (…) Złoty “ pur non corrispondendo dal punto di vista formale ai criteri di definizione dei cromonimi basici, è tuttavia la più vicino al suo modello prototipico (p.116) “. Le affermazioni di TOKARSKI trovano infine interessanti riscontri nelle osservazioni, relative al francese, di P. ACHARD (cit.). La sua “ passeggiata linguistica “, presentata come “ il frutto di una irritazione”  e che a sua volta può essere fonte di irritazioni, fornisce non di meno molti spunti stimolanti. Polemizzando con i criteri di « basicità » di un termine cromatico di BERLIN e KAY, ACHARD rivendica lo statuto basico del cromonimo oro “ car ce métal joue un rôle central dans notre culture. Mais l’universalisme évolutionniste de BERLIN et KAY ne peut bien sur qu’ignorer ce « détail », qui ne saurait passer pour universel «  (p. 154) e aggiunge in nota :

« Dans la ligne de BERLIN et KAY on peut réfuter « or » comme terme de base malgré son caractère monolexémique[93] et sa saillance psychologique en remarquant que « or » est inclus dans « jaune ». Mais ce point lui-même est discutable: s’il est licite de m’appuyer sur mes souvenirs d’enfance, ce n’est que bien au-delà de mon dixième anniversaire que j’ai commencé à accepter l’idée que les couleurs métalliques étaient réductibles à des couleurs du spectre. Je ne comprenais pas comment des peintres pouvaient peindre un objet en or sans utiliser de la poudre d’or, substance désespérément absente des boites de peinture ! » (p.165).

    I miei ricordi d’infanzia coincidono perfettamente con quelli dell’autore, la riserva tuttavia s’impone che l’identificazione dell’oro metallico con il  giallo non metallico è propria esclusivamente della pittura occidentale, mentre quella bizantina, in virtù del suo simbolismo maggiormente codificato, distingue conseguentemente l’oro « buono », reale o celestiale, dal giallo « cattivo », del resto scarsamente usato.  

Qualche accenno morfologico 

Nel suo studio, ricordato in precedenza, e dedicato alla terminologia cromatica francese, A. MEUNIER sostiene la tesi della totale apertura del campo semantico-lessicale:”on peut, à tout moment, créer un nouveau mot de couleur et n’importe quel objet peut être utilisé à cet effet” (p. 167). L’autrice non solo include nella sua lista nomi di istituzioni e di dite commerciali, come marine (bleu) o Air France (per l’italiano si potrebbe pensare ad esempio al rosso Ferrari , o a cromonimi legati ai nomi di persone come rosso Tiziano, verde Veronese o anche giallo Dior[94] o ai toponimi, come blu di Prussia) , ma giunge ad affermare: “On peut prédire que des phrases du genre: Cette étoffe est de couleur E 104. Cette étoffe est E 104 seront interprétées sans équivoque par tous, grace à la publicité qui leur est faite, les colorants chimiques feront partie de notre vocabulaire courant” (ibidem). L’affermazione è accettabile solo a determinate condizioni: la MEUNIER prende in considerazione quattro tipi di costrutti:

Ce N est de couleur X

Ce N est couleur de X

Ce N est couleur X

Ce N est X

in cui X rappresenta un  cromonimo qualsiasi, sia verde sia limone o prugna. Ora , con i cromonimi secondari, l’interpretazione univoca degli esempi citati o la loro stessa accettabilità, richiede necessariamente la specificazione de couleur, couleur de, couleur oppure la presenza di un cromonimo a posizione più centrale (per lo più basico)[95] in funzione di determinato, tipo vert tilleul.

Nel presentare il ragionamento dell’autrice, che sarà ripreso in seguito, mi sono servita indifferentemente di esempi francesi ed italiani, perché le due lingue presentano sotto questo aspetto notevoli convergenze: le differenze, trascurabili, riguardano soltanto la scelta di alcuni oggetti di riferimento. Più interessante invece sarà il raffronto con il polacco, lingua tipologicamente diversa in quanto, a differenza delle lingue romanze, essa distingue morfologicamente le classi degli aggettivi  e dei sostantivi[96]. E’ vero che nella lista dei cromonimi di TOKARSKI (1995) figurano alcuni sostantivi, come  flaming, goździk, kał, mak, margerytka, nasturcja, patyna, poziomka ed altri, negli esempi del testo tuttavia essi compaiono per lo più nelle strutture tipo koloru X, barwy X, ovvero come termine di riferimento. Del resto l’autore stesso ammette: “Tutti gli esempi riportati, caratterizzati da una minore stabilità lessicale, sono stati tratti da testi poetici e non si può escludere che tale fatto abbia influito in certa misura sulla scelta di aree tematico-lessicali predestinate in modo particolare alla creazione di serie virtuali di termini cromatici non registrati dai dizionari di lingua. E’ da notare tuttavia la predominanza, che riguarda del resto anche  i cromonimi stabilizzati nell’uso, di termini appartenenti alla terminologia botanica, specie ai nomi di fiori. Sembra che proprio in questo campo dell’esperienza umana e della conoscenza del mondo vadano ricercati i modelli concettuali più frequenti che costituiscono la riserva terminologica per i nomi di colore secondari”.[97] Aggiungiamo che proprio al carattere poetico del corpus va attribuita certamente la nutrita presenza di esempi in cui i cromonimi sostantivali compaiono senza la specificazione ‘(di) colore (di) X’, ovvero in costrutti non comparativi, tipo Słońce się dopala w nasturcjach i mgłach (B. LEŚMIAN) o Pod niebem, które (…) z wolna glicynią wieczoru zachodzi (S. BALIŃSKI), inaccettabili nell’uso comune[98].

Il ragionamento della studiosa francese si sviluppa attorno ai due criteri: quello morfologico, relativa alla declinabilità o meno dell’aggettivo di colore e la sua capacità di dare luogo a serie più o meno sviluppate di derivati, e quello distribuzionale, cui si è fatto cenno nel paragrafo dedicato ai cromonimi imparentati. Senza entrare nei dettagli del quadro francese che si situa ai margini della presente ricerca, dal punto di vista distribuzionale, c’è da a notare l’uso spesso obbligatorio della specificazione de couleur con alcuni cromonimi secondari, es.:

Cette étoffe est de couleur tilleul

*Cette étoffe est tilleul

nonché la necessità di precedere i neologismi cromatici, tipo P.T.T. o Air France da un cromonimo vero e proprio (terme abstrait,secondo la terminologia dell’autrice):

Cette étoffe est (de couleur) jaune P.T.T.

*Cette étoffe est P.T.T[99].

Si ricorderà che la MEUNIER distingue tra gli aggettivi di colore che, combinati con altri cromonimi, occupano obbligatoriamente il primo posto con la funzione di “indicatori”, mentre il secondo termine funge da “specificatore”. La lista degli “indicatori”, per quanto forse non esaustiva, secondo l’ammissione della stessa autrice, abbraccia tredici unità e pertanto supera di ben poco quella canonica di termini basici, postulati per le lingue europee evolute. Si tratta di cromonimi primari o che hanno perso il  legame diretto con l’oggetto di riferimento, come marron, orange, rose (da notare tuttavia la forma invariabile dei loro corrispondenti italiani) e pertanto non richiedono mai la specificazione (de) couleur (de). La caratteristica più interessante dei cromonimi “indicatori”, già ricordata precedentemente è quella di potersi modificare a vicenda in combinazioni spesso reversibili:

Cette étoffe est de couleur bleu mauve

Cette étoffe est de couleur mauve bleu.

escluse le evidenti incompatibilità semantiche, tipo *Cette étoffe est de couleur rouge vert. La compatibilità semantica appunto, come si ricorderà, ha costituito il crierio di individuazione dei cromonimi imparentati.

Gli “specificatori”, al contrario, costituiscono un sistema totalmente aperto, combinati con un cromonimo primario occupano sempre il secondo posto, richiedono per lo più la precisazione (de) couleur (de) e non possono mai modificarsi a vicenda.

Ho pensato di applicare le distinzioni della MEUNIER alle liste dei cromonimi polacchi che, dal punto di vista morfologico, presentano un quadro del tutto diverso. Per primo, come si è detto, tranne che nei costrutti di tipo comparativo cui si è accennato all’inizio di questo capitolo, essi hanno sempre la marca di appartenenza alla classe aggettivale, ma quello che è più interessante da osservare è che per il polacco le “incompattibilità semantiche” non sono affatto limiate alle sole “impossibilità fisiche”. La maggior parte delle combinazioni addotte nella esemplificazione francese non sono letteralmente traducibili in polacco: la couleur rouge rose o rose rouge, come pure bleu mauve o mauve bleu, giudicate accettabili dalla MEUNIER[100], riferita a un tessuto, come avviene nel suo articolo (tkanina różowoczerwona, czerwonoróżowa, malwowoniebieska, niebieskomalwowa) farebbe pensare piuttosto a un disegno bicolore e non ad una tinta mista, forse a causa del rapporto di iponimia chiaramente percepita nella coppia różowy/czerwony e l’eccessiva distanza nel percepire i referenti di malwowy e niebieski, la loro “mancanza di parentela”. Un altro tentativo di spiegazione potrebbe prendere come spunto il forte legame tra il cromonimo malwowy e l’oggetto-prototipo, che – come è stato segnalato nel paragrafo dedicato ai colori intrinsecamente chiari e scuri – ostacolerebbe in certa misura la sua combinabilità con modificatori, senza naturalmente bloccarla del tutto, visto che le combinazioni ciemno, jasno, jaskrawo malwowy sono perfettamente accettabili.

Il motivo principale tuttavia delle differenze tra il francese e la lingua slava va ricercato altrove, ovvero nell’esistenza in polacco di una serie aperta di aggettivi alterati che indicano l’approssimazione alla tinta indicata dall’aggettivo di base.

Per il francese, la MEUNIER ha fatto il tentativo di identificare la produttività derivazionale, ovvero la capacità di una serie di cromonimi di dare luogo a verbi tipo blanchir, bleuir ‘diventare qual’, a sostantivi astratti di qualità con diverse sfumature semantiche, tipo blancheur, grisaille, a forme che nella terminologia tradizionale italiana vengono chiamate “alterate”[101] , tipo jaunet, rougeâtre con lo statuto basico di un dato termine. Il test, inteso come criterio di individuazione dei termini basici, a differenza di quello distribuzionale, ha dato l’esito negativo, nel senso di restringere la lista dei cromonimi morfologicamente produttivi a soli sei, in contrasto con le intuizioni correnti.

Ora, il criterio morfologico per il polacco (e in genere per le lingue slave prese in esame) si rivela inoperante per motivi opposti: la grande produttività morfologica di una amplissima serie di cromonimi. Tralasciando il problema dei nomina qualitatis e riservandomi di tornare nell’ultimo capitolo ai verbi derivati dagli aggettivi di colore, mi limito in questa sede ai soli aggettivi alterati.

Per il polacco, il dizionario inverso segnala le forme białawy, bladawy, błękitnawy, burawy, czarniawy, czerwonawy, krwistordzawy, rdzawy, modrawy, niebieskawy, różowawy, rudawy, ryżawy, smagławy, sinawy, szarawy, zielonawy, zielonkawy, złotawordzawy, złotawy, złotordzawy, żółtawy , cui si potrebbero aggiungere brązowawy, ciemnawy, srebrnawy, brunatnawy, smagławy e quasi certamente alcune altre. Sono esclusi soltanto gli aggettivi di colore derivati che mantengono vivo il legame con l’oggetto-modello, tipo buraczkowy, bursztynowy, piaskowy, atramentowy, fiołkowy,e quelli a chiaro statuto di iponimo, che in quanto varianti peculiari rispetto ad un termine di base, rifiutano il suffisso marca di approssimazione, come amarantowy, granatowy, seledynowy, purpurowy .

Apparentemente il suffisso –awy costituisce il corrispondente polacco del francese –âtre e dell’italiano –astro, il parallelismo tuttavia non è totale. In primo luogo la produttività del formante polacco è di gran lunga maggiore, per quanto anche nelle due lingue romanze esso può essere aggiunto anche ad altri aggettivi, a significato non cromatico, tipo pol. tłustawy, brudnawy,fr. bellâtre, douçâtre, it.dolciastro, salmastro, si tratta però di formazioni sclerotizzate. La seconda differenza è di tipo semantico: la MEUNIER definisce gli aggettivi in –âtre come “traditionnellement notés comme péjoratifs” (p. 170). Ora, questa  tradizionale etichetta sembra applicarsi solo in parte alla serie in –awy polacca: è vero che la serie non cromatica abbraccia principalmente gli aggettivi di base che nel loro significato includono una marca negativa, per cui brudnawy ‘sporchiccio’ ma non *czystawy ‘sul pulito’ e, fatto interessante, chudawy  ‘mingerlino’ ma non [*] smukławy ‘tendente allo snello’ (da notare che le stesse restrizioni nella derivazione di forme alterate, indipendentemente dal suffisso, valgono pure in italiano), ma restando nell’ambito degli aggettivi di colore, le combinazioni tipo sweter ładnego niebieskawego, zielonkawego, czerwonawego koloru sembrano del tutto accettabili, a differenza dell'italiano in cui *il bel colore buastro, rossastro, verdastro costituisce un controsenso. A questo va aggiunto che i termini cromatici italiani che indicano colori “intrinsecamente belli” di regola non prendono il suffisso -astro: esso non si combina con l’aggettivo celeste né con l’azzurro che dà invece luogo alla serie azzurrino, azzurrigno, azzurognolo, palese dimostrazione del carattere semantico e non morfologico del blocco. ?Rosastro, peraltro non registrato dai dizionari, avrebbe fatto pensare ad esempio ad un arrossamento di origine morbosa.

Le connotazioni peggiorative non vengono menzionate dalle grammatiche polacche consultate. In Gramatyka współczesnego języka polskiego[102] i derivati in -awy vengono trattati da “comparativi assoluti”. P.BĄK (1987: 235) definisce „gli aggettivi deaggettivali” formati con il suffisso –awy come quelli che indicano l’intensitą ridotta della caratteristica espressa dalla base[103]. L’autore considera sinonimici i formanti –awy e owa-ty (tipo głupkowaty), n-owaty (quest’ultimo regionale dur-n-owaty), senza tener conto della semantica della base derivazionale che nel caso dei due ultimi suffissi deve avere un tratto di valutazione negativa (‘stupidello, scemotto’).

L’ultimo dei formanti esaminati per il polacco è l’unico che in russo serve ad indicare l’attenuazione della caratteristica espressa dall’aggettivo di base. Il modello derivazionale tuttavia in russo sembra meno produttivo, per quanto il suffisso corrispondente -атый si combini anch’esso con aggettivi che non rientrano nel campo semantico dei cromonimi, cf. глуповатый. Vi troviamo sì, черноватый, красноватый, желтиватый, ma come corrispondente di verdastro KOVALEV, oltre a зеленоватый suggerisce грязно-зеленый, mentre al biancastro italiano corrisponde почти белый, segno forse di un uso più sporadico della forma беловатый.

Tra le forme alterate polacche ve n’è una caratterizzata da un’alternanza morfologica zielonawy/zielonkawy. La  definizione, identica in entrambi i casi, “lekko, nieintesywnie zielony, mający odcień zielony” ‘di un verde poco intenso, con una sfumatura verde’, fornita dal dizionario di SZYMCZAK, fa pensare alla sinonimia completa e totale, conformemente del resto all’intuizione corrente. Tali fenomeni di concorrenza sembrano molto più diffusi in serbo-croato: la forma usuale, corrispondente agli aggettivi in –awy polacchi prende il suffisso –kast, abbastanza produttivo (nella versione serba si riscontra in alcuni casi la variante palatalizzata in –čast).Abbiamo quindi bjelkast (cr)/beličast (serbo) ‘biancastro’, ‘bianchiccio’, modrikast, plavkast (cr)/plavičast (serbo)[104] ‘buastro, azzurrino, azzurrognolo’ e anche ‘biondastro’, žućkast ‘giallastro, giallino, gialliccio, giallino, giallognolo’, zelen(i)kast, zelenčast ‘verdastro, verdino, verdolino, verdognolo’, crnkast ‘nerastro, nericcio’, sivkast ‘grigiastro, crvenkast ‘rossastro, rossiccio’, srebrenkast, srebričast (accanto a srebrnast) ‘argentino’, ecc. E’ stato certamente notato che per la maggior parte degli aggettivi della lista si è dovuto ricorrere a più corrispondenti italiani: i termini serbo-croati, a differenza delle formazioni in –astro italiane, ed analogamente alle forme alterate delle altre due lingue slave, esprimono soltanto l’approssimazione rispetto alla qualità espressa dall’aggettivo di base, senza alcuna sfumatura negativa: le combinazioni con l’avverbio lijepo/lepo sono del tutto ammissibili. Talvolta, per gli aggettivi desostantivali, il suffisso in questione, in diverse varianti fonetiche, serve semplicemente a trasferire la base nella classe degli aggettivi, senza alcuna sfumatura di “approssimazione”: questo è il caso di narančast (cr)/narandžast (serbo) ‘arancione’ o di kestenjast ‘marrone’, ružičast  ‘color rosa’, maslinčast ‘color olivA’.

Quest’ultimo esempio illustra appunto l’alternaza morfologica cui si è fatto cenno: M.STEFANOVIĆ (1991: 566) definisce gli aggettivi in –ast ,citando tra gli altri esempi di crominimi come sivast, ridast, mrkast, subjelast (da notare il carattere polisintetico di quest’ultimo), come esprimenti l’attenuazione della caratteristica espressa dalla base, per annotare poi: “Izrazito su deminutivnog značenja pridevi izvedeni od prideva nastavkom –ast u obliku sa suglasnikom k ispred njega, kakvi su bjelkast ili subjelkast, zelenkast, žućkast (svakako od osnove komparativa, dakako – ukoliko je izveden neposredno od prideva), i retko žutkast, rumenkast, sivkast, crvenkast, crnkast, šarkast.”[105]. Da notare che tutti gli esempi delle forme in –kast, a differenza di quelle in –ast (tipo okruglast ‘tondeggiante’, tupast ‘ottusetto’) rientrano nel campo semantico lessicale dei cromonimi: se ne potrebbe dedurre che, malgradoo i casi di concorrenza tipo sivast/sivkast[106], l’attenuazione di una caratteristica cromatica abbia in serbo-croato una marca a sé. L’impressione viene confermata dalla  disamina del dizionario inverso (2000).

Ora, almeno per quanto riguarda la situazione polacca, le forme alterate dimostrano una capacità di gran lunga maggiore di dare luogo a denominazioni di colori misti in cui i due termini possono combinarsi in un ordine libero, fungendo indifferentemente da determinante (primo termine) o determinato (il secondo), ovvero da “specificatore” o “indicatore” secondo la terminologia della MEUNIER: possiamo avere quindi żółtozielonawy, zielonawobrązowy, niebieskawozielony o zielonawoniebieski, niebieskawoszary o szarawoniebieski, o anche żółtawobrązowawy, niebieskawoszarwy, per quanto i composti di due aggettivi alterati non siano registrati dai dizionari e sembrino piuttosto dei neologismi formati ad hoc. Indipendentemente dallo statuto di tali formazioni, effimero o entrato stabilmente nella lingua, l’inaccettabilità linguistica nel caso dei composti con aggettivi cromatici alterati sembra limitata effettivamente alle sole impossibilità fisiche, tipo *żółtawofioletowy. 

 

Beleet parus odinokij 

 

Le osservazioni che seguono sono nate in margine a due ricerche che apparentemente hanno ben pochi punti in comune: la tematica connessa all’aspetto verbale, di cui mi ero più volte occupata, e quella legata alla strutturazione linguistica del campo semantico dei colori, argomento di questo libro. Le due problematiche, ben distinte e a dir poco sterminate, hanno tuttavia un ristretto settore di convergenza: un gruppo circoscritto di verbi - presenti sia nelle tre lingue slave esaminate sia in italiano - derivati da cromonimi, e che, a quanto mi risulta, non sono stati finora oggetto di analisi morfologiche e semantiche specifiche.

L’analisi semantica di un verbo - comprensiva giocoforza di quella del suo valore aspettuale - deve partire da quella del  rapporto del suo significato con quello della predicazione più semplice, equivalente all’attribuzione all’argomento di una caratteristica statica sotto forma di aggettivo: Łąka jest zielona. Il prato è verde. Liście są żółte. Le foglie sono gialle. Il grado successivo di derivazione semantica è rappresentato dall’introduzione di una predicazione cambiativa: trattandosi di verbi monovalenti, la sua espressione più naturale è rappresentata dal perfectum, espressione di uno stato nuovo dell’unico argomento, risultante da un cambiamento precedente: Liście zżółkły (pożółkły). Le foglie sono ingiallite. Łąka pozieleniała. Il prato e rinverdito.

La classificazione dei valori aspettuali della predicazioni qui adottata è basata su quella di  di S. KAROLAK[107], per quanto ai fini di questa disamina si potrebbe prestare una qualsiasi delle classificazioni più note, da quella di VENDLER a quella di ANTINUCCI-GEBERT [ 108]. Secondo lo studioso polacco, alla base dell’assai nutrita gamma di caratteristiche relative allo svolgimento temporale del contenuto di un predicato troviamo due soli primitivi semantici, la durata e la puntualità (il succedere), rappresentati allo stato puro rispettivamente dalle forme imperfettive dei predicati tipo giacere, essere verdi (leżeć, być zielonym) e da quelle perfettive dei predicati come scoppiare, lampeggiare (wybuchnąć, błysnąć). La maggiore ricchezza semantica delle opposizioni aspettuali slave e delle forme tempo-aspettuali romanze è dovuta alle varie combinazioni (« configurazioni » secondo la terminologia dell’autore) del valore durativo del lessema con quello puntuale del morfema (o viceversa). Limitandoci a presentare le sole linee più generali di una teoria aspettuale complesssa ed articolata, diciamo che nel caso dei verbi in esame abbiamo a che fare con configurazioni ingressive, a dominante puntuale, in cui la marca morfologica della perfettività fissa il punto d’inizio di uno stato nuovo dell’argomento.

 Per i verbi transitivi Jesień wyzłociła drzewa. Słońce wybieliło bieliznę. Tytoń zażółcił mu palce (lett: l’autunno ha indorato le foglie. Il sole ha sbiancato la biancheria. Il tabacco gli ha ingiallito le dita.’) una funzione analoga (introduzione di una predicazione-causa dello stato nuovo dell’argomento secondo) può essere espletata dal passivum (drzewa są wyzłocone (?przez jesień). Bielizna jest wybielona. Palce są zażółcone (lett: ‘Gli alberi sono indorati /?dall’autunno/. La biancheria è sbiancata. Le dita sono ingiallite’) che differisce dal perfectum solo per l’inversione della prospettiva tematica tra la predicazione statica e lo stato risultante[109]. Da notare marginalmente che l’argomento primo della  predicazione causativa avrà  più facilmente la forma Bielizna jest wybielona na słońcu, od słońca (‘al sole, a causa del sole’) che non przez słońce ‘dal sole’ e analogamente Palce są zażółcone od tytoniu  piuttosto che przez tytoń), ovvero l’elemento causale viene presentato come più marginale rispetto ad una  causa efficiente vera e propria. A confermare tale ruolo marginale dell’argomento causale è il frequente impiego, in polacco, al posto del classico participio passivo in -t-/-n-, di uno specifico gruppo di aggettivi in -ł-, di cui più avanti, che costituiscono una sorta di participio mediale: liście są pożółkłe. In italiano la forma del P. PROSS. ricopre naturalmente entrambe le due funzioni, del praeteritum e del perfectum.

Rispetto alle forme perfettive, quelle imperfettive rappresentano un  grado successivo di complessità semantica: Liście żółkną. Drzewa zielenieją. Papier żółknie od leżenia. Drzewa zielenieją/zielenią się (na wiosnę). Le foglie ingialliscono. Gli alberi rinverdiscono (a primavera), che possono essere parafrasate come ‘x subisce un processo che lo porterà allo stato espresso dalla predicazione perfettiva’ (valore telico). In determinati contesti, e specialmente al presente, tali predicazioni assumono frequentemente il significato abituale.

Le frasi a due argomenti possono avere anche la normale forma attiva. La predicazione causativa è rappresentata in superficie da una nominalizzazione  Zachód czerwieni chmury (lett. ‘il tramonto arrossisce le nuvole’) o da uno dei suoi argomenti Tytoń żółci palce (lett. ‘il tabacco ingiallisce le dita’). I due esempi fanno parte di un particolare tipo di predicazioni bivalenti che include i verbi di tipo otaczać (detto di soggetti animati), pokrywać, zalewać, rozświetlać, e in italiano circondare (detto di soggetti animati), allagare, rovinare, isolare ecc. che si prestano a due interpretazioni diverse: quella statica nonché quella telica di azione in corso. Nel primo caso le forme imperfettiva e la perfettiva corrispondente sono praticamente sinonimiche, con il significato  decisamente attuale. Entrambe le frasi Zachód czerwieni chmury e Zachód rozczerwienił (zaczerwienił) chmury (lett.: ’il tramonto arrossì le nuvole’) possono essere  parafrasate come ‘le nuvole sono rosse a causa del tramonto’. Nel secondo degli esempi citati sembra prevalere il significato abituale (non escluso naturalmente nell’esempio precedente): in altri termini, żółcić non è qui il sinonimo  del suo corrispondente perfettivo, bensì equivale ad una somma di predicazioni perfettive corrispondenti, rappresentando pertanto  un grado successivo di complessità semantica. La differenza dipende fondamentalmente dal ruolo semantico dell’argomento che rappresenta in superficie la relazione causativa: le frasi con i soggetti predicativi, tipo Zachód czerwieni chmury. Wiosna zieleni drzewa  (lett:’la primavera inverdisce gli alberi’) si prestano ad una duplice interpretazione, mentre in quelle con i soggetti + concreti, in cui il secondo argomento sostituisce una sorta di localizzatore (sensu lato) sadza czerni szyby, tkaniny, meble, (lett. ‘la fuliggine annerisce i vetri, i tessuti, i mobili’) Tytoń żółci palce, prevale il significato abituale di caratteristica costante. Naturalmente la frase Sadza czerniła mu twarz (‘la fuliggine gli anneriva il viso’) ha il senso attuale, però la sua espressione più naturale sarà piuttosto miał twarz uczernioną sadzą (‘aveva il viso annerito dalla fuliggine’).[110] Per il verbo bielić  (‘sbiancare, imbiancare’) il valore abituale può essere reso esplicitamente, tramite la scelta dell’imperfettivo secondario wybielać. Da notare che l’interpretazione +/- attuale della predicazione non dipende semplicemente dal tratto +/-CONCRETO del primo argomento (cf. Słońce złoci, księżyc srebrzy powierzchnię morza.’ il sole indora, la luna inargenta la superficie del mare’, a significato decisamente attuale), ma piuttosto dalla possibilità di attribuire al predicato il valore della somma di due predicazioni: COINCIDERE[111] nonché ESSERE di un COLORE qual.

I corrispondenti italiani delle predicazioni bivalenti possono essere di tipo analitico, con la perifrasi causativa: Il tabacco fa ingiallire le dita. Più spesso tuttavia lo stesso verbo dinamico derivato da un cromonimo  può avere sia una che due valenze: Il fumo annerisce le pareti - Le pareti anneriscono (a causa del fumo). L’autunno ingiallisce le foglie degli alberi. Le foglie ingialliscono  in autunno (da notare, anche in questo caso la forma non causativa del secondo argomento. La frase le pareti ingialliscono per il fumo suona leggermente colloquiale). Per i predicati monovalenti, il dizionario GARZANTI segnala l’esistenza di forme riflessive, tipo La pergamena (s’)ingiallisce con il tempo, sembra trattarsi tuttavia di un uso più limitato.

Tornando al campo polacco, troviamo la serie morfologica:

żółknąć/zżółknąć (pożółknąć) - participio mediale zżółkly, pożółkly

vs

żółcić/ zażółcić (ev. wyżółcić) -  participio passivo zażółcony,wyżółcony;

zielenieć/pozielenieć, zzielenieć -participio mediale pozieleniały, zzieleniały

vs

zielenić/zazielenić - participio passivo zazieleniony

Si tratta di opposizioni marcate dall’alternanza della vocale tematica -ie-/-i-, che risale all’alternanza dei morfemi tematici protoslavi in funzione del cambiamento del numero delle valenze verbali, tipo ñÀäÈÒÈ–ñýäýÒÈ, ÂàÐÈÒÈ - ÂÚÐýÒÈ, ïàëèòè - ïîëýòè[112]. Tali opposizioni  interessano una buona parte dei verbi derivati da cromonimi polacchi e non solo da quegli considerati solitamente, secondo la tipologia di BERLIN e KAY[ ] come basilari: 

bieleć,  zbieleć (zbielały) - bielić, pobielić, wybielić (pobielony, wybielony)

czarnieć, sczernieć, poczernieć (sczerniały, poczerniały ) - czernić, poczernić, uczernić, zaczernić (poczerniony, uczerniony, zaczerniony)

czerwienieć, poczerwienieć (poczerwieniały ) - czerwienieć, poczerwienieć, zaczerwienić (poczerwieniony, zaczerwieniony)

zielenieć, zzielenieć, pozielenieć (zzieleniały, pozieleniały ) - zielenić, zazielenić (zazieleniony)

Infatti anche alcuni termini più periferici danno luogo a formazioni morfologiche dello stesso tipo:

różowieć, poróżowieć (poróżowiały ) - różowić, zaróżowić (zaróżowiony)

brązowieć, zbrązowieć (zbrązowiały ) - brązowić, ?pobrązowić (?po- u-, wybrązowiony)

purpurowieć, spurpurowieć (spurpurowiały ) - purpurowić, ?upurpurowić, (?upurpurowiony).

Già a questo punto si possono osservare alcune irregolarità e alcune caselle vuote.

1. I corrispondenti perfettivi dei verbi transitivi, come purpurowić: Jesień purpurowi lasy ‘l’autunno imporpora i boschi’, o brązowić ( zachód brązowi ziemię tonem wiolonczeli ‘il tramonto imbruna/imbrunisce la terra col tono di violoncello’ /L. STAFF/) ‘, insieme con i loro participi passati, sono formazioni piuttosto virtuali, difficilmente riscontrabili in testi reali.

2. Come si è osservato all’inizio, nella maggior parte dei casi, ai participi passivi veri e propri in -n-, derivati dai verbi transitivi, corrispondono per i verbi intransitivi gli aggettivi in -ł-.

Si tratta di una sorta di participio che in polacco viene derivato da molti verbi monovalenti a valore mediale (processuale), e non solo da quelli che indicano l’assunzione di caratteristiche cromatiche (cf. postarzały, zgrzybiały, zgłodniały, upadły, owrzodziały). Sincronicamente, molti di essi non si ricollegano a nessun verbo (zajadły, wyrozumiały, zarozumiały, zatwardziały ecc.).

Quello che c’interessa in questa sede è che le forme in -n-, tipo zaczerwieniony, zaróżowiony, oltre al valore passivo vero e proprio, che ammette cioè la specificazione di una causa esterna, (zaczerwieniony przez wiatr, z upału ‘lett.: arrossito dal vento, dal caldo’), possono assumere anch’essi il valore mediale: zaczerwieniony z gniewu, ze wstydu ‘dalla rabbia, dalla vergogna’[113] ecc, diventando pertanto perfettamente sinonimici con gli aggettivi in –ł-.

La diminuzione del numero delle valenze è segnalata, come si è detto, dall’alternanza vocalica. Ora, è risaputo che il mezzo sistemico cui ricorrono a tale scopo le lingue di nostro interesse è rappresentato dalla riflessivizzazione.[114] Si tratta di forme a valore mediale che preferisco chiamare pseudoriflessive, riservando il termine riflessivo alle azioni intenzionali il cui paziente è correferente con l’agente:  si tratta della differenza che oppone la predicazione zabił się strzałem w skroń a zabił się spadając z rusztowania (lett.: ’si è ucciso con un colpo alla tempia’ vs ‘si è ucciso cadendo dall’impalcatura’). Infatti, anche nel campo semantico-lessicale in questione troviamo delle alternanze e dei doppioni: różowić się - różowieć rumienić się, rozjasniać się - jasnieć zielenić się - zielenieć. Talvolta le due forme, sia il verbo telico pseudo-riflessivo che quello che differisce dal suo corrispondente bivalente (transitivo) per l’alternanza della vocale tematica, sono intercambiabili:

czernieć = czernić się vs czernić

Garnek czerni się od dymu ‘la pentola annerisce per/*dal il fumo’.

Srebro czernieje od siarki. Owoce czernieją od mrozu (lett.: *’l’argento annerisce dal/per lo zolfo, la frutta annerisce dal/per il gelo’)

vs

czernić brwi, rzęsy (lett.: ’annerire le ciglia, le sopracciglia’)[115]

czerwienieć = czerwienić się vs czerwienić

brązowieć = brązowić się vs brązowić

jaśnieć = rozjaśniać się vs rozjaśniać

Per niebieski troviamo un altro tipo di alternanza morfologica:

niebieścieć = niebieszczeć: Niebo po burzy niebieszczeje ‘ il cielo diventa azzurro dopo il temporale’ vs

(raro) niebieścić: Zmrok niebieścił szyby okien ‘Il tramonto tingeva di azzurro i vetri delle finestre’.

Per alcuni verbi processuali monovalenti riscontriamo solo la forma riflessiva, cf. rumienić się, złocić się, mentre in altri casi esiste solo quella semplice: brunatnieć, brązowieć.

L’esistenza della sola forma semplice è tipica dei verbi privi di forma bivalente, il che conferma a pieno l’interpretazione di D. PAILLARD (1979: 76), secondo cui il riflessivo costituisce “la trace du vidage d’une des places de la relation prédicative”: blednąć, rudzieć, sinieć, blaknąć, płowieć. La causa del processo può essere introdotta soltanto in posizione marginale (ze strachu, od słońca, z zimna ecc) , per quanto si tratta di idiosincrasie superficiali. Infatti sia in polacco che in italiano il verbo płowieć, sbiadire è solo monovalente: *słońce płowi zasłony; *il sole sbiadisce i tendaggi, mentre il suo esatto equivalente semantico słońce odbarwia zasłony, il sole scolorisce (fa scolorire, fa sbiadire) i tendaggi è perfettamente accettabile, in quanto scolorire può essere sia mono- che bivalente .

I verbi esclusivamente monovalenti sono privi ipso facto di corrispondenti riflessivi, in quanto lo svuotamento dell’unica valenza può portare solo a costruzioni impersonali cf. Niebo ciemnieje. Niebo się ściemnia. Ściemnia się. La corrispondente forma aggettivale (participio mediale) può essere esclusivamente in -ł-.

Trattandosi di verbi telici, essi ammettono tutti, almeno in teoria, prefissi perfettivizzanti, per indicare il raggiungimento di uno stato nuovo dell’oggetto, per quanto a volte, specialmente per unità più periferiche (bury, pomarańczowy), si tratti di forme piuttosto virtuali.

Si è parlato finora esclusivamente di verbi a significato dinamico, indipendentemente dal numero delle loro valenze. I cromonimi tuttavia danno luogo ad un’altra serie di derivati verbali a significato statico di cui fornisce un esempio il bel verso di LERMONTOV che ho pensato di riprendere a mo’ di titolo e cui corrisponde nella versione italiana Biancheggia una vela solitaria. Si tratta della serie rappresentata in polacco da bieleć, czernieć, jaśnieć, siwieć, czerwienieć, zielenieć, ciemnieć, sinieć, brunatnieć.

Il dizionario di SZYMCZAK segnala anche granatowieć, fioletowieć, purpurowieć, forme piuttosto dubbie, ma virtualmente possibili. Il significato statico viene segnalato per quasi tutti i verbi monovalenti derivati da cromonimi[116], incluse quelle pseudo-riflessive: czernić się, czerwienić się, złocić się, brunatnić się, żółcić się, srebrzyć się. La forma può variare: a volte la forma semplice in -ie- e quella pronominale in -i- coesistono. In tali casi, solitamente, per la forma riflessiva prevale il significato statico, vuoi come l’unico:

brunatnieć - brunatnić się: Brunatnią się zaorane pola (lett.: *‘bruneggiano campi arati’)

bieleć - bielić się: Płaty śniegu bieleją na polach. Pola bielą się śniegiem (lett.: ’le chiazze di neve biancheggiano sui campi. I campi biancheggiano di neve’).

vuoi come il primo:

różowieć - różowić się: Jabłka różowiły się na drzewie. Śnieg różowiał w blasku ognia.(lett. *‘Le mele roseggiano-rifl. sugli alberi. *La neve roseggiava nel chiarore del fuoco’)

czernieć - czernić się: Las czerni się na tle nieba. Na policzkach czerni się zarost. Napis czernieje na papierze (lett. ‘Il bosco nereggia-rifl. sullo sfondo del cielo. Sulle guance nereggia-rifl. la barba non rasata. La scritta nereggia sulla carta.’)

brązowieć - brązowić się: Brązowiły się kapelusze grzybów (lett. * Bruneggiavano cappelle di funghi’)

In entrambe le serie sopraelencate, per la forma semplice il significato statico viene segnalato come secondo. Pertanto in presenza di due forme monovalenti, è la riflessiva a tendere al significato statico, mentre per la semplice prevale piuttosto la telicità. Non si tratta tuttavia di una regolarità assoluta: sebbene nella coppia żółcieć - żółcić się, la forma pronominale viene interpretata come esclusivamente statica, nondimeno anche per quella semplice il significato statico è fornito come primo:

Z daleka żółcieje rzepak (lett. *’Da lontano gialleggia il ravizzone’),

mentre quello dinamico viene segnalato come raro.

Per entrambi i membri delle coppie czerwienieć - czerwienić się, zielenieć - zielenić się il significato statico viene segnalato al secondo posto:

W dali zieleniał las. Pola zieleniały oziminą (lett. ’In lontananza verdeggiava il bosco. I campi verdeggiavano di grano vernino-str’).

Da notare, in quest’ultimo esempio, come pure nel già citato Pola bielą się śniegiem, il rovesciamento della prospettiva tematica rispetto a

Ozimina zieleniała, śnieg bielił się na polach (lett.: ‘Il grano vernino verdeggiava, la neve biancheggiava sui campi’),

in cui ad essere topicalizzato è il localizzatore, mentre l’argomento rematico allo strumentale corrisponde all’oggetto della percezione, concetto che sarà ripreso più avanti. Tale rovesciamento tuttavia è possibile solo nei casi in cui la predicazione può essere interpretata come “fullfilment verb”, ovvero l’equivalente di śnieg pokrywa pola con aggiunta della predicazione seconda ‘la neve è qual (crom.)’. Nei termini di A. WIERZBICKA (cit.: 329), si tratta di ”environmental concepts”, concetto che non sarà approfondito in questa sede. La frase Na stole zieleniła się sałata ( lett.:’sul tavolo verdeggiava l’insalata’) non ammette nessun altro ordine.

Lo stesso argomento semantico può essere relegato in una posizione più periferica (complemento causale):

Słomiane dachy zieleniły się od mchu (lett.: ’i tetti di paglia verdeggiavano *dal/per il muschio’ )[117],

parafrasabile come congiunzione di due predicazioni statiche che rappresenteremo per il momento come   ‘i tetti di paglia erano coperti di muschio’ CAUSA‘i tetti di paglia erano verdi’.

Alcuni verbi, derivati da cromonimi secondari (srebrzyć się, złocić się), hanno soltanto la forma monovalente riflessiva, con entrambi i significati, statico e, più raramente, dinamico:

Rzeka srebrzyła się pod słońce (lett.: *‘Il fiume argenteggiava-rifl contro il sole’).

Kaczeńce złocą się nad wodą. (lett.: *‘le calte gialleggiano in riva all’acqua’)

Più frequente è il caso opposto: l’esistenza della sola forma semplice: purpurowieć, sinieć, błękitnieć, różowieć, ?granatowieć, jasnieć, ciemnieć. Per le prime tre voci della lista viene segnalato per primo il significato dinamico, mentre più lunga è la serie in cui esso appare come secondo: jaśnieć, granatowieć, ciemnieć, siwieć, sinieć, brunatnieć:

Szarzały puste ścierniska (lett.:*‘grigeggiavano campi di stoppia’).

Góry siwiejące na tle nieba (lett.:*’le montagne grigeggianti sullo sfondo del cielo’).

Smuga lasu siniejąca na horyzoncie (lett.*la striscia del bosco blueggiante all’orizzonte’).

Rarissimo e poco marcato è il valore statico di płowieć (lett.: *fulveggiare): płowiejące zboża, mentre le caselle vuote si riscontrano solo per alcuni cromonimi marginali come pomarańczowy.

Per niebieski che, come si è osservato, forma una serie morfologica più lunga, troviamo valori dinamici primari per niebieszczeć, niebieścieć, corrispondenti monovalenti di niebieścić, mentre quelli statici vengono dati come secondari, mentre la variante niebieszczyć się ha esclusivamente il significato statico

Nelle traduzioni degli esempi polacchi si è dovuto ricorrere spesso a neologismi inesistenti, per quanto trasparenti dal punto di vista morfologico. La loro trasparenza è dovuta all’esistenza, anche in italiano, di alcuni verbi statici derivati da cromonimi, per quanto essi siano di gran lunga meno numerosi e abbiano il carattere prevalentemente letterario: rosseggiare, biancheggiare (prescindo dal suo uso transitivo), nereggiare (raramente anche transitivo), verdeggiare (per cui viene segnalato anche il significato dinamico ‘assumere il colore verde’). Anch’essi consentono il rovesciamento della prospettiva tematica, analogo a quello osservato per il polacco: in quella isola che del mar giace nel cuore, e di selve nereggia (PINDEMONTE).

I verbi a significato statico, in entrambe le lingue, rappresentano gli imperfectiva tantum , per cui non hanno forme di participio mediale in -ł-  (essendo intransitivi, in polacco, non possono naturalmente formare  participi praeteriti in -n-, -t-).  In italiano, l’improbabile uso di un tempo perfettivo conferisce alla predicazione il valore limitativo (biancheggiò per  un po’ di tempo) o ingressivo (improvvisamente biancheggiò all’orizzonte) . Negli esempi riportati dal dizionario di SZYMCZAK colpisce invece l’uso frequente dei participi praesenti. Nel dizionario GARZANTI, questi ultimi vengono segnalati a volte come entrate lessicali a parte:  rosseggiante ’di color rosso o che tende al rosso’ verdeggiante ‘che appare verde e rigoglioso’. Trattandosi di predicazioni a significato durativo, prive di elementi semantici causali, caratteristici dei participi praeteriti dei verbi perfettivi[118] viene da chiedersi della differenza semantica che li oppone agli aggettivi da cui derivano.

Un altro tratto che accomuna le definizioni fornite dai due dizionari (a prescindere dalle inevitabili incongruenze lessicografiche) è il frequente uso delle parafrasi “apparire, mostrarsi”. Per il polacco troviamo ad es.:

bieleć - ukazywać się, być widocznym jako biala plama

zielenieć, zielenić się - wyglądać zielono, mieć zielony kolor, odróżniać się od tła zielonym kolorem

szarzeć - wygladać szaro, mieć szary kolor, rysować się niewyraźnie[119] szaro na jakimś tle

E per l’italiano:

biancheggiare - apparire, mostrarsi bianco

Se le definizioni lessicografiche sono riflesso di intuizioni linguistiche generalmente condivise, viene da chiedersi sul significato da assegnare a tali parafrasi, nonché sui motivi della frequente cooccorrenza dei verbi in questione con dei localizzatori:

Biancheggia in cielo la solitaria faccia della luna.

W mroku bielały  jasno ubrane postacie.

Inoltre, in tutte le lingue prese in esame i verbi in questione presentano una singolare restrizione selettiva: non possono combinarsi con soggetti caratterizzati dal tratto +HUM. Infatti, di fronte alla correttezza degli esempi precedenti

*W mroku bielał człowiek, Jan, Einstein

* Nell’oscurità biancheggiava un uomo, Giovanni, Einstein

non sono assolutamente accettabili, mentre tornano ad essere tali nella versione

bielała czupryna Eisteina

biancheggiava la chioma di Einsein.

Un breve raffronto con la situazione russa. Толковый словарь русских глаголов individua il gruppo di  verbi definiti come «глаголы становления и проявления цветового признака » caratterizzati dalle componenti semantiche rispettivamente ‘diventare’ (становиться, статься) e ‘distinguersi’ (выделаться, выделиться) mentre i corrispondenti verbi transitivi, tipo белить, vengono inclusi nella classe più generica «глаголы покрытия объекта » e, probabilmente per questo motivo, le unità registrate sono ben lungi dall’esaurire la lista. Il gruppo intransitivo comprende oltre una ventina di unità lessicali (l’imprecisione è dovuta allo statuto incerto dei verbi tipo мрачнеть, смеркаться o anche бледнеть o il colloquiale обугливаться, che occupano una posizione marginale all’interno del gruppo semantico-lessicale), derivate sia dai cromonimi di base sia da molti termini secondari, come ad es. алеть o буреть, senza corrispondenti in polacco. Dal punto di vista morfologico, essi si oppongono ai loro corrispondenti transitivi (laddove questi esistono), per l’alternanza vocalica e/i, analoga a quella osservata in polacco. Le due lingue slave tuttavia divergono per alcuni aspetti, tra cui il più importante è la concorrenza di gran lunga minore in russo tra le forme semplici in е- e quelle pseudo-riflessive in –и- : BABENKO segnala soltanto due forme pronominali золотиться e румянится, quest’ultima a significato esclusivamente ingressivo cui va aggiunto серебрится, a significato esclusivamente statico. Quasi tutti gli altri verbi possono essere usati sia nell’accezione statica di ‘apparire’ che in quella ingressiva ‘diventare (più) qual’, eccezion fatta di блекнуть, мрачнеть e пунцоветь, unità piuttosto marginali,per cui viene registrato soltanto il significato ingressivo. In BABENKO manca anche il significato statico del verbo голубеть, segnalato invece da OŽEGOV con l’esempio В траве голубеют незабудки. Lo stesso OŽEGOV registra l’esistenza di alcune forme pseudo-riflessive in cui, a differenza del polacco il pronome enclitico cooccorre con la desinenza intransitiva in –e-, come чернеться e белеться, a significato esclusivamente statico, mentre la forma semplice può essere usata in entrambe le accezioni.

Tra le tre lingue slave messe a confronto, il serbo-croato sembra presentare la distribuzione più regolare delle marche morfologiche. Innanzi tutto le forme transitive si oppongono regolarmente a quelle intransitive, continuando l’antica alternanza della vocale tematica –i-/-ě-: beliti/b(ij)eleti, žutiti/žut(j)eti, crniti/crn(j)eti ecc. come in:

Duvan žuti prste lett.’il tabacco ingiallisce le dita’

Trava žuti od sunca lett.’l’erba ingiallisce dal sole’

entrambi a significato dinamico, rispettivamente telico o ingressivo, secondo la terminologia di KAROLAK. A queste formazioni si oppongono i verbi, sempre monovalenti, in –(j)eti pseudoriflessivi specializzati nell’espressione del significato statico: polja se bele od snega ‘i campi biancheggiano di neve’, u daljinti se zelenila šuma ‘nella lontananza verdeggiava un bosco’ vs (po)zeleneti od ljubomore ‘diventare verdi d’invidia’. Per quanto la regolarità della distribuzione delle marche dei tre valori, legati alla diatesi e all’aspetto, appaia molto maggiore rispetto al polacco, essa non è tuttavia assoluta: di fronte al transitivo srebriti ‘rendere argenteo, coprire d’argento’ troviamo il verbo statico pseudoriflessivo, sempre con la vocale tematica –i- srebriti se ‘lett. *argenteggiare, apparire argenteo’. Se in questo caso l’irregolarità morfologica potrebbe essere attribuita allo statuto piuttosto marginale del cromonimo srebrn, srebren, tale spiegazione non è certamente valida per i verbi plaviti se *’blueggiare’ o crveniti se ‘rosseggiare’ di fronte a crven(j)eti od stida ‘arrossire di vergogna’.

Come si è già accennato, anche in russo e in serbo-croato vige la restrizione selettiva tipica del gruppo statico in polacco e in italiano : i verbi derivati da cromonimi in riferimento agli esseri umani (e di conseguenza dotati di prima e seconda persona), come краснеть, зеленеть, розоветь, седеть е синеть, crn(j)eti se , svetli se possono essere usati esclusivamente nell’accezione ingressiva.

Per concludere, proviamo a definire il rapporto tra la forma verbale statica con il predicato nominale corrispondente (essere verde, bianco, rosso, być zielonym, białym, czerwonym, быть белым,желтым, зеленым, biti crven, zelen, beo) ovvero stabilire le cause dell’esistenza di due unità lessicali separate, essendo improbabile, per una serie relativamente regolare (in italiano l’opposizione con i verbi dinamici è marcata dall’alternanza morfologica: a-, in- + -ire vs 0 + -eggiare) e, almeno nelle lingue slave messe a confronto, piuttosto nutrita, la ridondanza fortuita.

A mio parere, la differenza tra i due tipi di predicazione va ricercata a livello della forza assertiva. Certamente, qualsiasi attribuzione di una qualità all’argomento implica una presa di posizione da parte del locutore nei confronti del dictum, tuttavia tale asserzione resta solitamente priva di indicatori formali. C’è da notare tuttavia l’impossibilità, o comunque la stranezza delle frasi *la vela biancheggia, ma nessuno lo nota, *żagiel bieleje, ale nikt tego nie dostrzega, *парус белеет но никто его не видит, di fronte ai  correttissimi  Gli alberi sono (già) verdi, ma nessuno lo nota, drzewa są (już) zielone, żagiel jest biały, ale nikt tego nie dostrzega, парус белый но никто этого не видит . Nel caso dei verbi che ammettono la duplice interpretazione, dinamica e statica (czerwienieć, zielenić się, verdeggiare), tale aggiunta seleziona automaticamente il significato dinamico: czerwieniał z wysiłku, ale nikt tego nie zauważał.

Si tratta di una caratteristica che accomuna i verbi statici derivati da cromonimi con quelli di percezione sensoriale: lśnić, rozbrzmiewać, brillare, risuonare, rimbombare, сверкать, сиять, раздаваться, sijati (se),razl(ij)egati se (da notare la forma pseudoriflessiva) o di percezione unita all’elemento di valutazione: zdobić, szpecić, ornare, abbellire, decorare, deturpare, украшать, обезображивать, ukrašavati, ružiti che - a differenza delle predicazioni nominali, być ładnym, brzydkim, szpetnym, donośnym, lśniącym; essere belli, brutti, lucenti, forti (nel significato di intensità acustica): nikt nie usłyszał wybuchu, chociaż był on donośny; nessuno ha sentito l’esplosione per quanto fosse forte - implicano sempre l’identità del locutore con lo sperimentatore. Pertanto, inaspettatamente, ai margini del sistema verbale, troviamo un’opposizione paragonabile alla categoria del testimoniale espressa con mezzi lessicali. In altri termini, nell’opposizione tra le predicazioni nominali (aggettivali) e quelle con i verbi statici corrispondenti, le prime costituiscono il membro non marcato dal punto di vista assertivo, mentre le seconde congiungono l’attribuzione di una caratteristica statica all’oggetto con l’affermazione della sua percezione diretta da parte del locutore. Potrebbe essere quest’ultima la causa dell’inammissibilità dell’impiego dei verbi statici con i soggetti che occupano posti prioritari nella gerarchia topicale: quella che domina nel loro contenuto è l’affermazione di una sensazione soggettiva del locutore, dovuta ad una causa di carattere più marginale.

 

Alina Kreisberg, Le storie colorate, Pescara , Edizioni Tracce, 2001.

Alina Kreisberg - docente di Filologia Slava, Università degli Studi "G. d'Annunzio", Chieti-Pescara

 

Први пут објављено: 2001
На Растку објављено: 2008-02-24
Датум последње измене: 2008-02-24 13:15:09
 

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