Niccolò Tommaseo
Della poesia serbica (Canti popolari. Canti illirici, Venezia 1842)
Cenni del sig. Bouè.
I Serbi non cantano così spesso l' amore e la bellezza delle cose di fuori, quanto le geste de' loro eroi, che son come i paladini de' tempi di mezzo. Ciascuna provincia ha i suoi. Poemi di mille e più versi, pieni di vita. Il verso non rimato, di cinque trochei, con posa dopo il secondo ; e ciascuno compie il concetto da sé. Que' per ballo son varii. Il popolo sta giornate intere a sentire narrazioni guerresche, sentite già mille volte. Cantano e con strumenti, e più sovente senza; gli domini nel mietere, le donne nel filare e in tutti i lavori. Libera la prosodia, ammette scorci e diminutivi gentili. Il poeta nomina talvolta sè nella fine, o chiede qualcosa per continovare l' istoria. Ne' canti per ballo o da tavola son ritornelli senza senso , o meglio di senso smarrito. Più antiche le canzoni , e più semplici e brevi. Serie le più : con dialoghi, che fan vece del dramma che manca. Le imbasciate, all' omerica, son ripetute a parola. Sovente cominciasi: E' beea vino in tale o tal luogo, per indicare il luogo del fatto. Pare che adoprino versi composti per altri canti: e i cantori da strada sovente cuciono insieme più narrazioni, e ne fann'una a lor modo. Danno anima e parola a insetti, a piante, a vestiti. In un canto la fanciulla inseguita dal vago è rattenuta per la gonnella dalle frasche di un arboscello; il giovane adotta a fratel suo codesto arboscello. Soli nelle foreste e ne' prati, s'affezionano al verde e ai fiori, che tengono loro innocente compagnia nelle lunghe solitudini. Usano iperboli possenti: il grido d' un guerriero ferito fa cadere le foglie degli alberi, rizzare l' erbe per terra. Non mancano gli sbagli di tempo e di luogo: spostati fiumi, città, castella; o creátine: varcati in un lampo immensi intervalli; messi insieme guerrieri d' età diversa; 1' ultimo re della Bossina guerreggiato da Turchi con bombe, quando bombe non c' erano.
Per deità barnio le Vile, che son come fajte abitanti i monti e le selve o lungo laghi e fiumane. Vengono a soccorrere e consolare i guerrieri, o a predire. Ce n'è di buone e di ree. Belle; i capelli sciolti, leggiero il vestire: cavalcano rapide. Le cattive cavalcano un cervo, e hanno serpi per iscúdiscio; le buone errano sulle nubi, e le adunano. Tradizione comune ai Boemi, a' Polacchi, agli Ungheri, agli ultimi Scandinavi. Quelli che con le Vile fecero certi studii, iniziansi a'lor segreti in un ballo a tondo, e acquistan potere sopra, natura, come di rannugolare il cielo e volgere il tempo.
Gli eroi son vestiti quasi tutti a un modo ; ma le indoli varie. Marco Kraglievich quando abbattè l' Albanese famoso Musa Chesseglia, trovò che aveva tre cuori, e sur un cuore una serpe dormente: se desta, Marco era morto. Assomigliano il guerriero a falco per coraggio , per isnellezza a pie di falco , a pino per isvelta persona. I mustacchi neri cadono sulle spalle. Il verde delle spade ne dice la buona tempera: i fucili albanesi con trenta anelli. Taluni degli eroi saltano cavalli con lance rittevi. Quando spezzano il fodero della spada, segno è che vogliono o la vittoria o la morte.
Gli occhi, neri: la pupilla assomigliata a mignatta, le palpebre ad ala di rondine. La madre di famiglia paragonata all' oro: oro una giovane bella.
In molte canzoni descritti duelli; e vincitore il Cristiano od il Turco, secondo il poeta. L' eroe divide d' un colpo il nemico, il destriero, il suolo sotto. Dopo rotte le lance e le spade, viensi alla mazza; il vinto muor di coltello: o s'azzuffano, s'atterrano, si strozzano; o si stracciano il collo co'denti.
Il più celebre eroe è Marco Kraglievich: di grande statura, di mirabile forza: uomo giusto, schietto, generoso, amico sincero. Pronto all' armi, ma non crudele se non aizzato. Rotto di costumi e gran bevitore. II suo cavallo macchiato, sovente è mentovato ne'canti, anch'esso bevitore di vino. Lo dipingono in atto d' inseguire per aria sopra lance rizzate una Vila che l' aveva ferito. E colla mazza la colse, nè la lasciò che la non gli promettesse ne' pericoli aiuto. Visse censessant' anni; second' altri, trecento. Altri imagina che dopo l' ultima battaglia si ritraesse io una caverna, quando vide la canna del primo moschetto. Dio a lui pregante diede un sonno che non si romperà se non quando gli cadrà da sè la spada dal fodero. Si sente talvolta il suo cavallo nitrire; e la spada è già mezza fuori. Gli era figliuol maggiore di Vucassino governatore e capitano sotto Stefano Dusciano, e, lui morto, re. Vucassino volle togliere il regno a Urosio V figliuolo del benefattore suo: Marco, a ciò contrastando, fu cacciato dal padre. Il qual poi nel 1367 ammazzò Urosio l' ultimo de' Nemánidi. Marco andò allora a servire Amuratte I, infino in Arabia : così dice il canto. Nella battaglia d' Ancira salvò Solimano figliuolo di Baiasette. Ammazzò (cantano) un visire con dodici de'suoi, che aveva ad un falcone suo rotta un'ala. Spaventò lo stesso sultano, presentandoglisi con la mazza e la pelliccia a rovescio dopo la morte del padre. Quegli lo consola e gli dona. Singolare che un Serbo combattente pe' Turchi sia fatto l' eroe degli Illirici Cristiani. Ma questi in lui onorarono lo schietto amico del prìncipe suo, il gran guerriero.
I Serbi Turchi scelsero a eroe un Ergua Mujo, o Mustafi, e lo cantano vincitore di Marco Kraglievich; come lui, valoroso, bevitore di gran brocche di vino, mangiante in un pasto novanta libbre di castrato, venti di pane; e aveva non men vorace il cavallo. I Turchi celebrano il valore anco de' Cristiani, ma sotto de' proprii. Talvolta alterano i canti de' Cristiani per dare a' proprii vittoria.
In altre canzoni descrivousi assalti d' assassini; e i viaggi di gente scortata da Panduri, e gli scontri. Il fucile dà luogo a pitture non men poetiche dell' arco antico: e vario e nuovo il descrivere delle ferite.
Belle altresì le leggende; come quella del Convento di Ravànizza fondato da Lazzaro e quella de' miracoli di San Saba, al quale esce di bocca una fiamma turchina. C' è canti per digiuni, per nozze, per banchetti, per l' opre, pe' mietitori, per giuochi e per feste. Ce n'è di pastorali, e in Dalmazia di marittimi. Ce n' è di caccia. Le dipartenze, il ritorno, le vedove, gli amici, il desiderio di una tomba distinta; l' amore di patria, come nel canto del Dalmata perso nella città di Venezia. La ripugnanza al mutar fede è narrata ne' canti cristiani e ne' turchi. Una mussulmana, prigione d'un signore cristiano, piuttosto che abiurare, si getta dall'alto del castello, e rimane appesa in aria pe' capelli. Un giovane cristiano rigetta le ampie promesse d' un Turco ricco. Molli canti accennano a streghi e a magie. Altrove prediconsi disgrazie perch' un Turco ha forzato cristiani a mietere in dì di festa. Tra' canti di nozze è uno in cui Marco Kraglievich con due amici chiede in moglie Rossanda, che tutti e tre li rifiuta con scherno: ed egli le taglia le braccia, le cava gli occhi, e glieli butta entr' una pezzuola nel seno. Molto in questi canti parlasi di nozze, della chiesta, de' convitati, de' compari, delle gite, del banchetto; ma non si tace de' rigiri d' amore: più i poeti turchi però che i cristiani Ne' Turchi trovi e talismani amorosi, e amori veementi, e ratti, e infedeltà e rivali, e timidità, e disperazioni, e un marito di due mogli, e artifizii d' esser bella. Ne' canti cristiani dipingesi il favellio secreto d' amore, e le pene; e una fanciulla ch' esce d' impaccio con una pronta risposta, e una che tenendo il cavallo del suo vago confessa alla bestia l' amor suo; ed un pastore che ad una pastorella nel bagno ruba la camicia, e la madre di lui li marita ; e turche rapite da cristiani; e una che libera il cristiano prigione del padre, e fugge con lui, e in Dalmazia gli si sposa; e altre che si convertono alla fedde nostra. In altri gli uomini son lamentati infedeli, o la moglie prepone l' uomo suo alle più care cose. Una moglie al vedere il marito freddo, da al figliuolo il mazzetto di fiori che rinfrescava ogni sera per farli sbocciare; e quegli li getta nel concio. Sul Montenegro i canti d' amore cantansi a due ben più belli che i nuovi rimati sulle guerre recenti contro Turchia.
C'è canti per malattie; e sulla peste: per omicidii innocenti. Due fratelli duellanti si riconoscono mentre 1' uno è già moribondo; e 1' altro s' uccide. C è canti per sommosse, per odii di popoli o di persone; per vendette di sangue.
All Ferrich il Mullar sulla fine del secolo scorso aveva indiritto l' invito di raccorre e i canti e le tradizioni del popolo con queste sapienti parole, che noi rechiamo con riconoscenza non iscompagnata da gioia. Gioia che un Raguseo prontamente abbia risposto all' invito, quando ancora le pare fonti della poesia popolare agl' italiani ingegni eran chiuse.
Illyricum heroum mater, bellis quidem et magnis olim triumphis claruit. Populi noscendi Tu januam aperuisti. Quam vellem placeret Tibi, civi optimo, quae in proverbiis expertus es, in reliquis popolarium fabulis, cantibus, historiarum traditionibus audeve; nec, si operosiori ornatui tempus desit, exponendis saltem deesse. Habemus omnium fere gentium documenta, de re vero, ut plurimum, publica imperitantium : haec domestica matrum senumque doctrina humanitatem propius tangit: inde bello paceqae gesta, hinc populorum indoles elucescit. Neque dubium, qui populo bene velit, ab his cognoscendis initium capere debere. Sunt prorsus haec rudimenta quasi fundamen, cui omnis legum, praeceptorum, opinionum, in qualibet gente moles superstruenda videtur. Ast cum in latissima regione, quae ab Istro ad verae Graeciae fines inter duo maria patescit, innumerae tribus vario vel eodem tempore habitarint, plurimarum, puto, quaedam in lingua, moribus, memoria vestigia remanserint; magnam in iis colligendis tum praecipue gratiam doctorum hominum inibis, quum, quae optime cecineris, ea, unde et a quibus habueris, brevi commentatione indigitare velis; quo facto non solum diversorum, planitiei, littorum, montium incolarum ratio magis patescet, sed complura de eorum victu cultuque memorata digna, afferendi facultas erit. Ego vero persuasissimum habeo succesiones regnorum sufficienter notas, hominum plerosque incognitos versari; nec nisi indagandis linguis traditiouibusque ad eam illorum cognitionem aditum fieri, sine qua leges bonas fieri posse vix video.
Il Ferich a lui :
….Hoc re
Certum ipsa, Illyricis superesse in gentibus et nunc
Perveteres quosdam sine lege, sine ordine rhythmos,
Quos quandoque meis audivi ipse auribus alta
Voce ab ruricolis sexus utriusque per agros
Cantari. At quisnam corruptos verteret, ante
Quam quis ad incudem revocans aerugine ab omni
Perpurget sapienti arte, et medici vice fungens ?
Quest' opera fece con parco arbitrio e religioso amore lo Stefanovich, conservando de'canti del popolo anco certi idiotismi e irregolarità, che alla storia di tutte le lingue slave possono giovare anch' essi.
... Carminis est lex
Heroici, dena ut concludere syllaba versum
Debeat. Interdum est similis vocum exitus; idque
Versibus in binis sibi succedentibus usque ad
Finem aliqui servant: multi hoc ab more recedunt;
Arbitrioque cadunt cantantis verba. Soluti
At seu sunt versus, ...
... simili aut ratione cadentes,
Constanti debet semper praecederc lege
Quemlibet ex illis, et claudere continuato
Oh quoddam tractum sic spiritu, ut exanimari
Cum plane id reris, crispa tum voce vibrissent,
Attollantque notis adeo altis ac peracutis,
Ut credas ululare lupos. In carmine cantus
Heroo semper celer est, insuave sed illud
Oh trahitur. Velcrum heroum, sua quos peperit gens,
Praeclara assidue decantant facta, virile
Nempe in bellis robur, amicitiasque, fidemque;
Mortem obitam ob patriae vel libertatis amorem;
Si quis et hospitio, mensaque excepit amica
Heroas fato profugos, indignaque passos:
Atque alia id genus attollunt ad sidera. Casus
Lamentari etiam tragicos juvat. Harmonicum autem
Quo canere est mos, instrumentum Gusla vocatur,
Simplice praetentum chorda, qaae constat equinae
E pilis candae quampluribus ad feriendum
Utuntur plectro, similis quod prorsus obarmat
Chorda quoque. Hoc pauci, cantantum magna licet ris,
Rite sonant…
Infixa utricolo spargat ni tibia cantum,
Haud ante incipiunt chorene. Antiquissima porro
Illa eadem quae simplicior: longe omnibus unam
Haoc tamen anteferunt aliis, quae tendis in orbem.
Femina virque una nullo discrimine juneti
Se manibus capiunt: et primum volvere lente
Se circum incipiunt nutantes, inde figuram
Circulus amittit (choreae ducis id tribuendum
Ingenio ), et modo fit quadrati forma, modo ovi
Oblongam in speciem se mutat, littera nunc fit
Sibila serpentum referens, modo diditur orbis
In totidem paria, et bini tunc scilicet omnes
Vir mulierque pedes agitant: summoque is habetur
In pretio qui plus aliis se obdurat ad illos
Enormes saltus queis ipsa haud femina parcit,
Motu incomposito corpus vestemque revolvens.
In genus hoc choreae agrestis quidam abripit ardor
Plane illos incredibilis; multasque per horas
(Deme breves pasuas) motu in violente manebunt.
Dum choreae fiunt, extra cantatur, et ipsi
Cantibus indulgent saltantes, queis animant se.
Sæpe adhibent choricos ( inscripti hoc nomine) cantus,
At nil ad choream facientes; sunt tamen arte
Multa compositi, nec abest nativa venustas.
Morlachi Illyriis longe plus omnibus ut sunt
Ad cantus addicti; ita seu ruralibus instant
Illi operis, capiuntve cibos, vel mutua miscent
Colloquia inter se vacui, sine cantibus horum
Nil peragunt…
Si fit, vicini ut sublimia per juga montis
Sive die seu nocte viator inambulet alter,
Is repetit versum, cantat quem primus, et, usque
Dum geminas voces distantia deleat, ambo
Continuant canere alternis. Hic usus ab annis
Primis contrahitur; maternos atque paternos
Addiscunt primum, quae magna est copia, cantus:
Dein alios quos in pagis audire remotis
Contigit, inque dies, siquos facundia praesens,
Inter eos quum factum oritur memorabile, fundit
Ignoretque licet structuram carminis auctor,
Mensuram ad justam excudet versus tamen omnes.
Ex his hitoricus prudens et naris, ut ajunt,
Emunctae multa utiliter spectantia ad hujas
Annales popoli mediocri posset opella
Coligere. Hi decantati pene omnibus horis
Ad veteres mores perlonga aetate tenendos
Multum contúlerunt: hinc ritus non modo gentis,
Sed choreas ludosque remota ad tempora longe
Spectare haud dubium est. Vires testantur iu illis
Corporeae, vel dexteritas; quis majus codem
E septo spatium saltet, cursuque volucri
Quis praeverti alios valeat, praegrandeve saxum
Quod tolti vix possit humo, cui longius ab se
Victrici dabitur dextra protrudere in auras.
…Qui lumina casu
Amisere aliquo, victum sibi quaerere tali
Arte student, fugiuntque notam furisque malique;
Inque viis permulta ex tempore, nec mala fundunt
Ad nutum poscentis carmina. Quodque negavit
Horum oculis natura, id concessisse videtur
Ingenio; vivisque calescit imaginibus mens,
Ipsa colorantur queis carmina. Porro redundant
His veteres cantus; ratioque vel ipsa loquendi
Asiacae est similis. Marco de rege canentem
(Hunc inter primos heroas fama reponit)
Audisse haee memini: “ Rex ipse, et regia Marcus
” Progenies sedet altus equo; colubro utitur uno
” Pro fraenis alio cessantis terga flagellat.
Niccolò Tommaseo: Della poesia serbica, In: Canti popolari. Canti illirici / Raccolti e illustrati da N. Tommaseo, Venezia 1842. - pp. 30-37.
Датум последње измене: 2008-02-27 16:26:20