Alina Kreisberg

Le parentele letterarie di Jurij Družnikov

Jurij Družnikov, Angeli sulla punta di uno spillo , 2006, Siena, Barbera Editore, pp. 566

 

“La vicenda letteraria di Jurij Ilič Družnikov segue un modello classico: il periodo del dissenso, l'attività di oppositore, la collaborazione con la stampa estera. Il castigo in tali casi era severo: l'esclusione dall'Unione scrittori, equivalente alla condanna all'inesistenza. [1] ”– scrisse L. Suchanek in occasione della pubblicazione, nel 2001, della versione polacca di Angeli [2] . “In tal modo egli entra a far parte del gruppo di scrittori esecrati, oggetto di persecuzioni, la cui lista, nell'epoca staliniana, si apre con i nomi di Anna Achmatova e di Michail Zoščenko, e prosegue nei tempi più recenti con quelli di Boris Pasternak, Andrej Sinjavskij, Jurij Daniel, Aleksandr Solženicyn, Aleksandr Galič, Vladimir Maksimov, Viktor Nekrasov, Lidia Čukovskaja, Vladimir Vojnovič.”

La sfortuna letteraria di Družnikov però, malgrado i nutriti siti plurilingui dedicatigli in rete, sembra proseguire: per fare un esempio degli echi della sua opera all'estero, nonostante la popolarità negli ambienti della russistica polacca [3] e l'entusiasmo suscitato tra gli specialisti dalla comparsa di Angeli [4] , il pur nutrito pubblico dei forti lettori polacchi continua a ignorarlo. La domanda di una giovane commessa di una delle più fornite librerie moscovite: “Ma si tratta di un autore per infanzia?” più che alla lodevole conoscenza degli esordi letterari dello scrittore, mi sembra attribuibile alla sua più totale misconoscenza. Il romanzo infatti, fino al giorno d'oggi, malgrado il suo successo internazionale, non è facilmente reperibile nelle librerie di Mosca, mentre la stampa russa, anche in epoca recente, non ha lesinato attacchi al suo autore [5].

Lo stesso fato sembra incombere sulla versione italiana del libro: malgrado la capillare diffusione, anche in edizione economica, esso sembra aver avuto finora pochi lettori.

Ora, succede spesso che la lettura di un'opera letteraria particolarmente avvincente, ed è questo il caso del romanzo di Družnikov, faccia venire subito in mente un altro libro, già letto, quasi che il lettore sentisse il bisogno di ancorare il piacere della scoperta ad una griglia di riferimenti famigliari. Nel caso di Angeli il punto di riferimento più ovvio, segnalato da diversi critici (tra cui Suchanek cit. ), è rappresentato naturalmente da A. A. Zinoviev. Tra i due scrittori tuttavia, almeno per chi scrive, vi è un'abissale differenza qualitativa: l'autore dell' Homo sovieticus e della Katastrojka , più che un letterato, rimane un filosofo, mentre Družnikov, profondo conoscitore e studioso di Puškin e dell'Ottocento russo [6] , candidato al premio Nobel, apprezzato da Solženicyn, oltre che “scrittore di denuncia”, è anche un raffinato stilista. A. Wołodźko-Butkiewicz [7] vi scorge parentele con J. Trifonov. Per me, l'associazione più immediata, per quanto meno scontata poiché non riferita al mero piano dei contenuti, è stata quella con Il Maestro e Margherita bulgakoviano. Proviamo ad esporre questa analogia, aldilà del comune tratto biografico dei due autori [8], ovvero il loro rapporto con la censura di regime: il veto censorio che per decenni ha gravato sul capolavoro di Bulgakov, consentendone la graduale comparsa sul mercato librario russo solo a trent'anni dalla morte dell'autore e l'esilio forzato di Družnikov.

Si ha l'impressione che nel caso di Angeli il gioco dei rimandi sia innescato dallo scrittore stesso: Družnikov nasce in un ambiente artistico-intellettuale; oltre che letterato, come si è ricordato, è anche storico della letteratura, docente dell'University of California, per cui si sostituisce al lettore in un'operazione di scomposizione del complesso romanzo di Bulgakov nei suoi elementi costitutivi, per ricomporli poi in un nuovo insieme, più lugubre, asfissiante e senza le vie di uscita presenti comunque nella conclusione del primo romanzo, ispirata a quella misericordia per cui, ad oltre trent'anni di distanza, non rimane più spazio.

Persino la struttura dei due libri, con la loro divisione in capitoletti, dotati di titoli riassuntivi, è talmente simile da far pensare ad una citazione. In numerosi brani di Družnikov risuonano inoltre echi dei toni grotteschi bulgakoviani. Basti pensare all'episodio della statua di Lenin del peso di circa 25 chili, da piazzare in cima al Picco del Comunismo ad opera di quello che è il meno scaltro dei membri di un comitato di giovani comunisti, o al personaggio, peraltro eccezionalmente simpatico nell'ambito della corte dei miracoli družnikoviana, dell'impontentologo-imbroglione Sagajdak con la sua angelica moglie, ex-prostituta sordomuta.

Ma procediamo con ordine. Il tratto più evidente che accomuna i due libri è naturalmente l'irruzione, nella tetra realtà di Mosca (quella degli anni immediatamente successivi al NEP in Bulgakov e quella dell'epoca brežnieviana in Družnikov) del soprannaturale, rappresentato da Satana-Woland, con la sua corte, nel primo e dal fantasma del marchese de Custine nel secondo, che manifestano entrambi un benevolo interessamento per i rispettivi protagonisti dei due romanzi.

L'altro elemento in comune è l'ambientazione, Mosca, che fa da sfondo esclusivo ai due romanzi. Si tratta tuttavia di due scenari ben diversi. La Mosca solare di Bulgakov è una città reale, sebbene popolata da personaggi stravaganti, tangibile nella sua materialità e apparentemente godibile con i parchi, le pinete circostanti, i nomi concreti dei viali, la breve evocativa descrizione della “Casa di Griboedov”. E soprattutto quella di Bulgakov è una città coloratissima. Al contrario, leggendo il libro di Družnikov si ha l'impressione di guardare una pellicola in bianco e nero. La sua gelida Mosca è un non-luogo per eccellenza: i personaggi si spostano in mezzo alla neve tra la redazione del giornale Trudovaja Pravda e le varie sedi del potere, principalmente il Comitato Centrale del PCUS, per rintanarsi nelle proprie case o, meglio, nei propri tuguri. I cinquant'anni del regime hanno dissolto il tessuto urbano, ridotto ad una ragnatela di rapporti, così come i mostri architettonici brežneviani, attualmente in via di demolizione, hanno stravolto l'aspetto della capitale russa.

La similitudine dell'ambientazione va intesa anche in un senso meno letterale: i principali protagonisti di entrambi i romanzi fanno parte di cerchie vicine al potere, dell'apparato burocratico pseudo-letterario in Bulgakov e del sistema pseudo-giornalistico o, meglio, semplicemente propagandistico in Družnikov. Ma, anche in questo caso, più che di una immagine speculare, si tratta di uno specchio deformante. La vicinanza con il potere per i personaggi di Bulgakov è fonte di privilegi, per quanto agli occhi di un lettore appartenente ad un mondo “normale”, tali privilegi appaiano decisamente irrisori: le “ferie creative” nelle località turistiche di prestigio, le prelibatezze gastronomiche a basso prezzo nel lussuoso ristorante dell'Associazione Scrittori, persino l'elegante tesserino, “profumato di cuoio pregiato”[9], che certifica l'appartenenza all'esclusivo mondo letterario. Il rapporto con il potere dei protagonisti di Družnikov, per quanto più intimo, è al tempo stesso inverso. La tessera di riconoscimento che il personaggio principale, caporedattore di Trudovaja Pravda , esibisce, nelle prime righe del romanzo, all'ingresso del palazzo del Comitato Centrale è semplicemente di colore rosso scuro, senza nessun connotato di lusso, eppure è questo stesso documento, senza caratteristiche esteriori precise, a salvargli la vita dopo l'infarto, almeno per un breve arco di tempo. Il fatto di essere “uno dei nostri” diventa così la condizione simbolica della sopravvivenza. Gli eroi di Družnikov non traggono vantaggi evidenti dalla loro frequentazione quotidiana del potere. L'“uomo fortunato” Makarcev, per le sue visite al Comitato Centrale, indossa un abito studiatamente liso e mal stirato. I suoi privilegi materiali particolari si limitano in fondo ad una Volga di servizio con l'autista e alla possibilità di regalare al figlio Boris una utilitaria per il suo diciottesimo compleanno, macchina che per lo sciagurato giovane e, con lui, per tutta la famiglia, diventerà fonte di guai giudiziari. “Il benessere materiale non gli importava più di tanto, –dice Družnikov del suo protagonista – ma della sua posizione gli importava eccome” (p. 40). Il potere, fondamentalmente, non è uno strumento per raggiungere dei beni materiali: è un bene in sé, che determina la possibilità stessa dell'esistenza L'unico privilegio veramente ambito dai personaggi per sé o per i propri figli è l'accesso agli istituti universitari di prestigio, sempre legati all'onnipresente partito o agli apparati della sicurezza, aspirazione legata da una parte al “culto della cultura”, intesa sempre come chiave del potere, e dall'altra al mito del sol dell'avvenire, tipici entrambi dei paesi del blocco comunista. Il potere sovietico della fine degli anni sessanta non elargisce favori, ed effettivamente, eccezione fatta per Nadja Sirotkina, figlia di un generale, generalskaja dočka , non costretta a prendere la metropolitana e a rammendarsi le calze, nessuno degli eroi del romanzo gode di privilegi materiali particolari. Il potere sovietico dispensa fondamentalmente punizioni per colpe come quella di appartenere ad una etnia sbagliata, ovvero diversa da quella russa, di aver subito un incidente durante un'esercitazione militare o di aver sostenuto l'etimologia turca della sovieticissima parola tovarišč [10] ‘compagno'. “Qualsiasi stakanovista proletario è cento volte più felice di te. Lui si fa le sue otto ore di lavoro, il suo bicchierino di vodka, e le sue preoccupazioni finiscono lì. – dice Boris Makarcev al padre – Mentre tu sei in pena tutta la notte al pensiero di aver fatto degli errori che ti potrebbero costare il licenziamento il giorno dopo” (p. 294).

Si è accennato ai tuguri in cui scorre la misera vita privata dei protagonisti di “Angeli”. In entrambe le opere la crisi degli alloggi, incubo dell'era sovietica (e, sebbene in misura attenuata, grave problema del periodo post-sovietico) è fortemente presente. Nel romanzo di Bulgakov “il tema (…) della ricerca di un alloggio (…) fa continuamente capolino (…) la ridda di personaggi golosi e spregiudicati intorno all'appartamento n° 50 e altri tratti minori (la casa dove abita Margherita costituisce già di per sé una caratteristica che la distacca ‘irrealisticamente' al di sopra della realtà quotidiana)” [11] . Il felice rifugio del Maestro, luogo in cui creare ed amare, sono due stanze nel seminterrato, con i vetri appannati, conquistate grazie ad una vincita alla lotteria. Di simili modesti privilegi non può godere la maggior parte dei protagonisti di Družnikov nella cui vita ogni possibilità d'un terno al lotto è rigorosamente preclusa. Le descrizioni dei luoghi in cui vivono, nei migliori dei casi dei monolocali ad uso di intere famiglie o kommunalki , in coabitazione o subaffitto, sfiorano il mostruoso e, al tempo stesso, sono improntate ad un tono di agghiacciante naturalità, come se il mostruoso dovesse rappresentare la norma.

Ma il trait d'union principale su cui regge il parallelismo tra le due opere è certamente il motivo del libro. In Bulgakov si tratta del libro scritto dal Maestro, o forse solo sognato dal suo discepolo ( ibidem, p.XX). Il lettore è convinto del suo alto valore spirituale, ma in fondo non ne è a conoscenza: si tratta effettivamente della storia di Cristo-Yešua e di Pilato di cui si riportano dei brani? La risposta affermativa può venir solo dalla genesi del romanzo [12], ma non dal suo stesso testo. Nel Maestro e Margherita le due trame, quella ambientata nella Gerusalemme del I secolo e quella moscovita, sono presentate come semplicemente parallele. E poi quest'opera esiste per davvero? Disperato per l'impossibilità di pubblicarla, l'alter ego bulgakoviano trova riparo nella follia e finisce col bruciare il manoscritto. E' solo la magia bianca del buon diavolo Woland, con la sua celebre affermazione “I manoscritti non bruciano”, a farlo tornare all'esistenza. Il recupero del libro avviene solo nel mondo magico in cui al Maestro e alla sua amata è concesso di rifugiarsi e nella mente tormentata di Ivan, non in quello falso-letterario del MASSOLIT. Bulgakov racconta in fondo la morte di un'opera.

In Družnikov il libro è uno scritto realmente esistente di un autore storicamente attestato: La Russia nel 1839 del marchese de Custine. La cartella grigia, contenente la versione russa di questo lucido e disincantato racconto di viaggio, compare nell'ufficio di Makarcev in modo misterioso, ma per niente sovrannaturale: un dattiloscritto samizdat , fatto recapitare da ignoti al direttore del più importante quotidiano del regime. Il sovrannaturale sopravviene soltanto in seconda battuta, con la comparsa del marchese in persona, che intavola con il protagonista una pacata e cortese discussione politica Il problema pratico di Makarcev, oltre a quello intellettuale della polemica interiore con le affermazioni del testo, sarà quello di far sparire l'opera proibita, che come un'idra, continua a moltiplicarsi in più copie. Con la solita operazione di rovesciamento, in Angeli il problema non è la morte dell'opera, bensì la sua cocciuta sopravvivenza. Ad accomunare i due “messaggeri dell'aldilà” in entrambi i libri è, come si è detto, il loro atteggiamento di simpatia nei confronti dei protagonisti terrestri, per quanto – in confronto all'appoggio aperto di Woland, espressione della giustizia ultraterrena – quello dello spettro del viaggiatore francese è improntato piuttosto ad un distaccato rispetto. Il principe delle tenebre bulgakoviano offre al suo protagonista un'apparenza di vita tranquilla in un paradiso illuminista, mentre l'unico rifugio sereno che de Custine, portavoce della razionalità europea, è capace di proporre a Makarcev è la morte, vista peraltro come una semplice “esperienza di vita”: “Mi dispiace per lei, ma i suoi affanni terreni sono arrivati al termine (…) E' giunta l'ora di sgomberare, come credo si dica da queste parti. Non è poi così terribile. Dia retta a uno che ci è passato tanto tempo fa e che prova un ineffabile affetto nei suoi confronti. Si potrebbe anche definire amore…Ancora un altro istante e poi lei si sentirà bene, e, forse, quello che più conta, finalmente libero. Presto avremo tanto tempo per conoscerci meglio, per discutere di tutto (…)”(p. 564)

Ma se questi sono i parallelismi, tra i due romanzi intercorrono anche differenze, sia riguardo le scelte delle strategie narrative, sia riguardo il diverso modo di parlare della realtà sovietica.

Va ricordato che Bulgakov fu anche uomo di teatro, per cui i protagonisti del suo romanzo, più che personaggi veri e propri, sono delle drammatis personae, caratterizzate – come le maschere della commedia dell'arte - solo dai loro gesti, o, per dire meglio, sono dei fantocci, caratterizzati dai gesti che fa compiere loro il burattinaio Woland. In altri termini, sono senza psiche, mancanza che riguarda non soltanto la ridda di figure grottesche che gravitano attorno a MASSOLIT, ma anche gli stessi protagonisti: il Maestro, che si riassume nel simbolo dell'artista, caratterizzato solo dal proprio racconto del XIII capitolo; Margherita, accompagnata dalla sua “donna dello schermo” la cameriera Nataša, è l'amore puro, disposto a sacrifici; Ivan che si trasforma nell'archetipo del discepolo convertito. Non si tratta certo della mancanza di vena psicologica nello scrittore, bensì di una sua precisa scelta stilistica: a confermare la capacità di Bulgakov di tracciare, con poche pennellate, degli acutissimi ritratti psicologici, sarebbero sufficienti, paradossalmente, i brevi brani del romanzo del Maestro, in cui i personaggi storico-letterari hanno uno spessore molto maggiore rispetto a quelli di ambientazione moscovita.

Il romanzo di Družnikov, al contrario, pullula di personalità realistiche, con dei percorsi di vita e profili psicologici ben definiti. I numerosi ritratti vengono ottenuti tramite un procedimento letterario costante: l'autore si limita rigorosamente ai resoconti dei soli eventi biografici dei protagonisti e alla descrizione dei loro comportamenti, senza alcun accenno alla vita interiore. Questa esclusione della dimensione psicologica si rivela paradossalmente una tecnica di caratterizzazione estremamente efficace. Colpisce in particolare la serie di ritratti femminili. All'unico simbolico e radioso personaggio di Margherita, Družnikov contrappone tutta una galleria variegata di effigi femminili, dalla razionale, apparentemente algida moglie di Makarcev alla sua fedele, efficiente e ingenua segretaria Anna, frustrata nel desiderio di maternità, alla dissoluta dattilografa Inna, alla nevrotica Nadja, ansiosa di disfarsi della propria verginità, peraltro uno dei personaggi più tragici persino in questa triste galleria di disgrazie umane, senza menzionare tutta la teoria di figure di secondo piano. Nella loro varietà, le donne di Družnikov – a differenza della salvifica Margherita - sono accomunate dall'aura di sfortuna che le circonda: le avversità della sorte, i torti subiti da parte degli uomini e le disgrazie altrui di cui sono cause involontarie. E questo è vero non solo per la sventurata fille fatale Nadja, ma anche per Inna, responsabile della copia in più del pernicioso manoscritto.

L'unica eccezione a questa tecnica descrittiva improntata al distacco viene fatta per l'eroe principale Makarcev, il solo cui si riferiscono i pochi verbi psicologici presenti nell'opera. L'autore lo fa percepire al lettore come “una persona per bene”. Ma nello stesso lettore sin dall'inizio si insinua il dubbio circa i motivi di questa quasi-simpatia. Makarcev appartiene all'élite del potere, il suo lavoro consiste “nel preparare le decisioni che poi i più alti gradi del Partito avrebbero preso, capire la vera natura di quelle decisioni, lavorare perché fossero messe in pratica” (p. 29). Immerso com'è nel mare di lavoro della sua fabbrica di menzogne, ha soltanto una vaga subliminale consapevolezza del proprio stato di perenne schizofrenia, del divario tra la realtà vera e le finzioni prodotte. Da “brava persona”, all'epoca dell'invasione in Cecoslovacchia, prova simpatia per Dubček, non si sente “in sintonia coi nuovi leader per i quali la vita del Partito era più importante di quella degli uomini. (…) Lui si sarebbe comportato senz'altro in modo diverso, più raffinato.” (p. 41), ma immediatamente ricorre ad un cavilloso ragionamento “dialettico” per rimuovere i propri dubbi. Non esclude la possibilità di pubblicare qualche brano di Solženicyn, naturalmente non senza gli opportuni ritocchi ideologici, ma il fugace contatto con lo scrittore dissidente gli incute terrore e partecipa, senza ombra di esitazione, alla campagna persecutoria nei suoi confronti. Il pensiero “dialettico” riesce a giustificare qualsiasi infamia: “Lei non capisce la forza e la duttilità [13] della nostra ideologia. – dichiara allo spettrale visitatore - Anche se il XX Congresso del Partito è stato uno shock un po' per tutti, chi comanda è comunque il partito e non le persone riabilitate uscite dai campi” (p. 87). Makarcev ammette candidamente che i suoi dilemmi non consistono nella scelta tra il bene e il male, bensì in quella di optare per un male minore. Non è privo d'intelligenza né di una sui generis sensibilità morale: la lettura del testo di de Custine lo segna profondamente, non ha dubbi circa la giustezza delle osservazioni del viaggiatore francese né della loro triste attualità a 130 anni di distanza: “Se io avessi più potere il sistema sarebbe completamente diverso. ” (…) “io ho sempre cercato di migliorare le cose, di privilegiare la cultura, la giustizia, l'umanità, perché in questo consiste l'essere comunisti”. “Certo, monsieur , (…) Ed è per questo che sono venuto da lei” – ribatte de Custine. (p. 80)

Sul piano dei rapporti interpersonali, “l'umanità” di Makarcev viene contrapposta al gelo brežneviano incarnato dal suo successore Jagubov. “Un tempo un ebreo riusciva a farsi pubblicare solo se usava un cognome russo. Mentre ora ti chiedono: ‘Come ti chiami veramente di cognome?' E poi non ti pubblicano! Quindi Jagubov (…) rappresenta l'indicatore del barometro” (p. 517) Il direttore di Trudovaja Pravda non si considera un antisemita: è infatti l'unico ad offrire una possibilità di sussistenza allo sfortunato Rappoport, l'ebreo la cui vita trascorre in caduta libera (mentre ad altri protagonisti, oltre alle cadute, viene riservato qualche volo, più o meno breve). Ma per indicare che cosa significhi la tolleranza razziale nell'era dell'URSS a Družnikov bastano pochi tratti di penna: Makarcev, durante un interrogatorio alla sezione del personale, viene informato sul cognome del primo marito di sua moglie. “'Il primo marito si chiamava Flejman'. ‘Ma mia moglie è russa, non è ebrea!' Si lanciò in sua difesa , e sentì una vampata di terrore e di colpa colorargli il viso.” Nota bene il professor Flejman aveva divorziato dalla sua giovane e bella moglie per salvarla dalle purghe staliniane all'epoca della “congiura dei medici”.

Il redattore capo ama “l'atmosfera famigliare del giornale” e gode di popolarità tra i suoi collaboratori, scrocca però delle sigarette al proprio autista e accetta, come debita, con la massima indifferenza, la servizievole dedizione della segretaria, senza degnarla di alcun gesto di apprezzamento.

La struttura del libro si basa su una raffinato procedimento costruttivo: il parallelismo tra i destini del protagonista e del deuteragonista Rappoport. Se Makarcev è un uomo di successo, Rappoport, viste le sue origini, è condannato al ruolo di eterno sconfitto. Družnikov lo descrive con uno dei rari paragoni di cui è avaro lo stile del libro: “A guardarlo, ricordava un'aquila sporca e malata, con le ali rotte, un'aquila che se ne andava tranquillamente in giro per lo zoo, perché tanto non poteva più volare” (p. 136). Nel caratterizzare Rappoport, il narratore ricorre spesso all'aggettivo “cinico”. Ma è proprio la frequenza di questa parola, usata quasi a mo' di postojannyj epitet della letteratura veterorussa, a mettere in guardia. In che cosa consiste il cinismo di Rappoport, oltre al fatto di guadagnarsi da vivere scrivendo testi propagandistici, firmati da altri e di falsificare le lettere di lettori, gli unici espedienti che gli consentono di sopravvivere? Indipendentemente dalle aggettivazioni volutamente fuorvianti (oltre che “cinico”, Rappoport viene qualificato come “burbero”), dal racconto emergono altre sue caratteristiche che, oltre alla straordinaria intelligenza e al senso dell'umorismo, sono la capacità di dar prova dei sentimenti di lealtà, amicizia e riconoscenza, doti completamente estranee all'ambiente che lo circonda e, certamente, non tra le più apprezzate. Il presunto “cinismo” va riletto come mancanza di ogni illusione, contrapposta allo sdoppiamento etico di Makarcev.

Un altro contrappunto, forse meno riuscito, tra le esistenze dei due personaggi è rappresentato dalla vita famigliare di Makarcev e Rappoport, la formalità cui è improntata la convivenza matrimoniale del primo opposta alla breve e tenera parentesi coniugale, del secondo e, soprattutto, il rapporto con i loro rispettivi figli. Quello di Makarcev con Boris è piuttosto un non-rapporto: il giovane impersona, in modo quasi troppo plateale, la completa mancanza di valori negli eredi della generazione di falsi valori. Il personaggio marginale, figlio adottivo di Rappoport, orfano di amici russi – vittime delle purghe, fa venire in mente i santi giovinetti della tradizione letteraria russa. Indifferente di fronte agli eventuali vantaggi da trarre dalla realtà in cui vive, sceglie la spiritualità, non tanto una religiosità qualunque, già di per sé mal vista nel regime programmaticamente ateo, ma per giunta quella abiurata, o meglio mai abbracciata, dal suo padre adottivo, il giudaismo, la religione dei reietti. La parabola non manca certamente di efficacia ed appartiene alla tradizione letteraria russa ma, a parer mio, Družnikov dà il meglio di sé nelle raffigurazioni, apparentemente spassionate, dell'epoca che racconta.

Il secondo aspetto per cui divergono questi due capolavori (perché, indubbiamente, di capolavori si tratta) della letteratura russa del Novecento è quello “dell'approccio al politico”.

Gli accenni agli orrori “quotidiani” dello stalinismo, agli arresti e alle delazioni in Bulgakov si fermano a livello di allusioni: basti pensare ai tragicomici processi contro i gatti e le persone con iniziali sbagliate dell'Epilogo.

L'ambientazione sociale di “Angeli”, come si è detto, è molto più vicina al cuore stesso del potere. L'immagine del regime liberticida della fine degli anni '60, definita dai critici occidentali come “satirica”, lo è soltanto a livello stilistico: in realtà si tratta di cronaca. I falsi miranti a preparare l'invasione della Cecoslovacchia, i pestaggi e gli arresti ingiustificati da parte dei servizi di sicurezza, e soprattutto la xenofobia imperante, di cui l'antisemitismo è solo la manifestazione più acuta, sono tutti dati riportati puntualmente dalla stampa clandestina dell'epoca. Tale atteggiamento giornalistico è completamente estraneo a Bulgakov.

Verrebbe voglia di sintetizzare le differenze tra i due autori russi, ricordando le due versioni della vecchia barzelletta del povero ebreo alle prese con una capra. La prima, resa nota in Italia grazie alla versione edulcorata dell'umorismo ebreo di Moni Ovadia, racconta di un povero Isac che, angustiato nella sua misera catapecchia dalla mancanza di spazio e da assillanti problemi familiari, dietro il consiglio di un saggio rabbino, vi introduce per soprappiù una capra. Quando, al limite della sopportazione, torna dal rabbino, tormentato da una situazione logistica divenuta insostenibile, il saggio gli consiglia di sbarazzarsi dell'animale, dopo di che il protagonista comincia a godersi lo spazio riconquistato. Molto più amara è la seconda versione, la cui diffusione pare sia limitata ai soli paesi dell'ex blocco sovietico. Dopo l'acquisto della capra, Isac non si fa più vivo con il rabbino. Quest'ultimo, sorpreso da tale mancanza di reazione, dopo un po' di tempo si reca da Isac per controllare personalmente la situazione. Isac non ha altre lamentele, oltre a quelle di prima: la capra dà un po' di latte, la numerosa prole della famiglia gioca con gli escrementi dell'animale. “E la puzza?” – esclama alla fine il rabbino spazientito. “Beh, la capra si è abituata” è la risposta.

Dell'oceanico romanzo di Družnikov è stato scritto: “nonostante le quasi 600 pagine fa rimpiangere che non ce ne siano ancora”. Io personalmente, terminata la prima lettura, ho riaperto il libro alla prima pagina, traendone altrettanto piacere, complice anche l'eccelsa traduzione dall'inglese a cura di F. Aceto, rivista sul testo russo da L. M. Pignataro,.

 

  1. Ne è testimonianza lo scritto autobiografico Isključenie pisaletlja N° 8552.
  2. L. Suchanek, Jurij Drużnikow – W poszukiwaniu aniołów , http://www.druzhnikov.com/polish/teksty/krytyka/wposzukiwaniu.htm; J. Drużnikow, 2001, Anioły na ostrzu igielnym , ARCANA.
  3. Già nel lontano 1990 W. Woroszylski dedica un acuto saggio Prawdziwe zwłoki i spreparowana legenda al suo Voznesenie Pavlika Morozowa , http://www.druzhnikov.com/polish/teksty/krytyka/prawdziwe.htm;
  4. Il libro è stato incluso nel novero dei dieci migliori romanzi russi del secolo scorso.
  5. А .Liberman, V pustyne čaxloj i skupoj …Jurij Družnikov pod gradom poslušlivyx strel, Istočnik “Poberežie” Philadelphia, 2001.
  6. Basti ricordare i suoi Russkie mify (1995)
  7. A. Wołodźko-Butkiewicz, Od pierestrojki do laboratoriów netliteratury. Przemiany we współczesnej prozie rosyjskiej. Fragment książki. Jurija Drużnikowa potyczki z mitami, http://www.druzhnikov.com/polish/teksty/krytyka/butkiewicz.htm;
  8. Prescindendo naturalmente della lunghissima gestazione dei due romanzi, summa del messaggio letterario dei rispettivi autori: 1928 – 1940 nel caso di Bulgakov, e 1969 – 1979 per Družnikov.
  9. La traduzione citata è quella di E. Guercetti, A. Bulgakov , Il Maestro e Margherita , Milano 1986, Garzanti p. XVII
  10. Traslitterata nella traduzione italiana come tovariš.
  11. G. Buttafava, introduzione a M. A. Bulgakov , Il Maestro e Margherita , Milano 1986, Garzanti p. XVII
  12. Cf. M. Čudakova, Tvorčeskaja istoria romana Michaila Bugakova ‘Master i Margarita', “Voprosy Literatury”, Moskva, 1976, n.1, pp. 218 - 253
  13. Tutte le sottolineature sono mie.

 

На Растку објављено: 2008-02-29
Датум последње измене: 2008-02-29 22:24:22
 

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