Nikša Stipčević

Serbia e Italia nel XIX secolo

 

Quando(*), il 17 marzo 1861, nel regno d'Italia si riunì come stato-nazione quel popolo che per quasi quattordici secoli non aveva vissuto in un'unica entità statale, il principe Mihailo (Michele) Obrenović era da un anno a capo del suo principato e i Turchi tenevano ancora le loro guarnigioni nelle città fortificate della Serbia. Da tempo ormai in Europa si parlava della questione d'Oriente, minaccia incombente sull'equilibrio fra le potenze, che, del resto, era già stato alterato dopo la rivoluzione di luglio del 1830 . Ma neanche i due blocchi dei grandi stati europei, le potenze liberali — la Francia e l'Inghilterra—, e i regimi assolutistici — l'Austria, la Prussia, la Russia –, erano fra loro concordi nei riguardi delle soluzioni possibili per essa. Specie in merito al principato di Serbia e alla Bosnia ed Erzegovina già attorno agli anni Sessanta si sarebbe creato il pomo della discordia per gli instabili equilibri costituitisi fra le potenze, trasformando quelle terre, su cui le grandi potenze avanzavano le loro aspirazioni, manifestando appetiti che persistono fino al giorno d'oggi, in un oggetto di compensazioni geopolitiche. Quale fosse il modo di pensare e d'agire nelle cancellerie delle singole potenze europee ce lo può far intendere anche uno stralcio da una lettera dell'ambasciatore russo a Vienna, Evgenij Novikov, a Gorčakov, redatta una decina di giorni dopo il trattato di Reichstadt (22 luglio 1876) (1), che vogliamo citare a titolo d'esempio:

«L'intérêt primordial de la Russie exige que l'Empire Ottoman ne soit pas remplacé par une unité politique, grecque ou slave, n'importe, qui soit de force à exclure notre influence traditionelle dans ces parages. Le programme de Reichstadt répond amplement à ce besoin par le fractionnement projeté de la Turquie en autonomies ou indépendances nationales: bulgare, serbe, albanaise et grecques, assez grandes pour vivre, trop petites pour s'émanciper de nous, et par un ensemble de mesures destinées à nous assurer un ascendant durable sur le bassin de la Mer Noire.

Il garantit, en retour, à l'Autriche-Hongrie une consolidation de puissance sur l'Adriatique, non seulement contre les revendications serbes, mais encore ou surtout, contre les convoitises italiennes. Toutefois il est digne de remarquer que le annexions projetées ne profiteraient en definitive qu'aux éléments slaves de l'Autriche dont elles augmenteraient la valeur aux dépens de la suprématie hongroise et du régime dualiste actuel. Aussi les Magyars n'y voient-ils qu'un pis aller et, en y prêtant la main, Andràssy sacrifie réellement ses prédilections nationales à ses devoirs plus élevés de ministre de la monarchie. Mais, s'il dépassait une certaine limite, le triomphe des Slaves en Autriche tendrait à transformer cette Puissance en État fédératif groupant sous le sceptre des Habsbourgs les Slaves de l'Occident et du Midi et les aliénant d'autant de nos sympathies. L'antagonisme latent qui, aujourd'hui déjà, existe entre les courants slaves de la Russie et de l'Autriche se traduirait alors en rivalité patente. Ce serait là une des formes les moins acceptables de cette agglomération slave dont il n'est pas de notre intérêt de favoriser l'établissement sur les ruines de la Turquie. Le programme de Reichstadt résoud cette préoccupation en partageant les agrandissements territoriaux ernie les Principautés Serbes d'une part et l'Autriche de l'autre, en établissant entre les Croates catholiques et les Serbes orthodoxes une pondération de forces qui ne peut que nous être profitable».

Nelle altre cancellerie, naturalmente, erano ben diversi gli orientamenti geopolitici dominanti: quello che, invece, non cambiava era il modo di ragionare, sempre in chiave di compensazioni e di interessi territoriali. E nell'epoca delle grandi monarchie le decisioni delle corti, quand'erano concordanti, necessariamente venivano attuate. Nei Balcani si intrecciavano gli interessi di tutte le principali potenze europee (2), prima e dopo la rivoluzione del 1848 (3). La Francia si atteneva, invero, alla dottrina di appoggiare i moti nazionali in Europa: era necessario sostenere i polacchi e gli ungheresi, per poter recare danno alla Russia e all'Austria, ma non appoggiava le piccole nazioni balcaniche che cospiravano contro la Turchia. Tutti, temendo la Russia, non volevano vederne le navi nel Mediterraneo. Si lodavano gli ungheresi per le loro lotte contro l'Austria, ma venivano prese misure contro gli italiani pur in guerra con essa, perché i loro moti rivoluzionari sfioravano le Isole Ionie, allora sotto governo britannico! (4).

Dopo la guerra di Crimea e il trattato di Parigi (1856) anche l'Italia, vale a dire il regno di Sardegna, era diventata una delle potenze garanti, che tra le direttive più rilevanti della sua politica estera aveva inserito anche i rapporti con il principato di Serbia. I saggi politici della Destra storica, che erano stati i realizzatori delle aspirazioni risorgimentali nelle terre italiane, cominciarono a inviare in Serbia consoli di grandi capacità, innanzi tutto Francesco Astengo (che morì giovane, a soli 37 anni, 1831-1868, e svolse funzioni consolari a Belgrado per meno di un anno, dal 23 marzo 1859 al 26 febbraio 1860) (5), e poi Stefano Scovasso, a proposito del quale, in una lettera a Jovan Marinović, Ilija Garašanin espresse il proprio rincrescimento alla notizia che si intendeva richiamarlo («Il suo Governo <quello italiano> sbaglia enormemente a togliercelo»). Infatti le relazioni di Scovasso, pubblicate nei cosiddetti «libri verdi» (Documenti diplomatici italiani), costituiscono una fonte eccellente per conoscere la storia dei Balcani e della Serbia alla metà del XIX secolo.

Tuttavia l'interesse per i serbi e per la Serbia non era soltanto conseguenza della geopolitica del governo italiano, invero lungimirante. I serbi e la Serbia rientravano piuttosto in quell'opera politico-culturale e in quell'ordine di pensieri che va sotto la definizione di «Risorgimento italiano». E due sono i personaggi che in modo paradigmatico esprimono due stratificazioni dell'interessamento culturale e politico di cui erano oggetto gli slavi, Serbia e serbi compresi. Si tratta di Giuseppe Mazzini e di Niccolò Tommaseo, il primo capo dei democratici rivoluzionari repubblicani, che incuteva timore a tutti gli stati legittimistici, e l'altro vicino, nelle proprie idee, ai cattolici liberali, che riponevano le loro speranze in un'Italia organizzata come repubblica federale neoguelfa, a capo della quale si trovasse il Pontefice Massimo di Roma (6).

L'enorme energia rivoluzionaria che Mazzini profuse nella realizzazione delle proprie idee fece di lui il simbolo del principio di nazionalità, la cui fase integrativa in Europa, secondo alcuni studiosi, durò fino alla fine del XIX secolo (7), che spesso gli storici chiamano «grande» o «lungo» (1789-1914), a differenza di quello «corto», il XX (1911-1989). In quest'epoca il principio di nazionalità era diventato l'idea dominante, che sarebbe stata utilizzata, molti decenni dopo, anche dal presidente americano Woodrow Wilson per i suoi «quattordici punti», con i quali si intendeva garantire la giustizia e la pace fra i popoli e che furono concepiti e resi di pubblico dominio nel corso e alla fine della primo conflitto mondiale, quando si conclude, anche nella visione della filosofia della storia, questo secolo «lungo». Però non credo si possa ritenere esaurita la fase «integrativa» del principio di nazionalità con la fine della Grande Guerra. Periodizzazioni di questo tipo vengono sconfessate dallo scorrere degli eventi storici. Aveva ragione Francesco Guida a rilevare che lo «jugoslavismo ( era ) l'unica applicazione di quelle confederazioni che auspicava Mazzini», e ci troviamo già nei primi tre decenni del XX secolo. Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, dopo il 1929 Regno della Jugoslavia, ne era una, oggi lo vediamo, sfortunata attuazione.

All'epoca della «Giovine Italia», nei primi anni Trenta dell'Ottocento, quando Mazzini prende le distanze dal settarismo carbonaro del Buonarroti, si consolida in lui l'idea che si fosse ormai conclusa l‘«epoca individualista», di cui erano stati rappresentanti, sintesi e termine ultimo, Napoleone nel campo dell'azione e Byron nella sfera della contemplazione, perché nell'uno Mazzini vide consumarsi 1'individualismo politico, mentre nell'altro aveva conosciuto la medesima sorte quello poetico. Il ribelle si trasforma nell'apostolo del principio di nazionalità. I doveri dell'uomo ne precedono i diritti e Mazzini scrive I doveri dell'uomo. L'idea di libertà non può essere separata da quella di nazione. Questo sistema binario, nazione-libertà, mantiene in equilibrio il liberalismo nazionale. Si distingue la libertà che deve essere conseguita da quella che va preservata. Gli italiani, gli ungheresi, i polacchi la stanno conseguendo, gli svizzeri la devono conservare. Queste due specie di libertà liberano anche due tipi di energia spirituale, differenti nella loro attuazione perfino nel campo dell'arte. Se nel momento presente non esiste la libertà, essa va cercata nel passato, idealizzato, inondato da ogni conflittualità all'interno del gruppo etnico, del popolo. La libertà diviene criterio di interpretazione del passato e assurge anche a vaglio di assimilazione del passato nel presente. Quello che si vuol trovare è il carattere nazionale. Su questa base cominciano a essere concepite in Europa le storie della civiltà e della cultura di un popolo. Secondo Mazzini la libertà deve avere uno scopo, che consiste nello sviluppo completo e armonioso dell'attività umana, e dev'essere al servizio dell'uguaglianza, della formazione di un popolo. La libertà è un principio critico, mentre l'uguaglianza è un principio organico, ma entrambe hanno per scopo l'attuazione della legge del progresso, inteso come infinito perfezionamento dell'umanità (8). Quest'obiettivo si raggiunge associandosi, ma senza uguaglianza non ci può essere nemmeno l'associazione e allo stesso modo non può sussistere la nazione senza l'unità, nè unità persistente senza indipendenza, ché non esiste possibile indipendenza senza libertà. La teoria e la prassi si devono associare. Il pensiero è quanto precede l'azione e l'azione ne è l'imprescindibile conseguenza, logica e morale. La verità è una sola e l'unità è la prima legge dell'intelletto. Mazzini ritiene che la rivoluzione francese sia la conclusione dell'epoca precedente, incominciata con il Cristo. Per lui il cristianesimo segna l'inizio di un'epoca individualistica, e il medioevo è l'epoca cristiana più pura, mentre la rivoluzione francese è il coronamento e la fine d'esso (9). L'energia politica di Mazzini e dei suoi numerosi seguaci contribuì a fare in modo che la nazione italiana da culturale si trasformasse in nazione territoriale. La nazione, però, che non è un territorio che possa crescere con l'aumento della sua superficie, è un tutto organico per unità di scopi e di capacità. Ciò che contraddistingue la nazione nella concezione di Mazzini, secondo quelli che nel 1835 egli indica come suoi elementi essenziali, è il pensiero comune, il diritto comune, in unione a uno scopo comune. Là dove gli uomini non riconoscano un principio comune, accettandolo con tutte le sue conseguenze, dove non esista coincidenza di intenti, e proprio per tutti, non ha luogo la nazione, ma sussistono le masse, le associazioni casuali, che la prima crisi riesce a dividere. Uno dei principi essenziali in questa dimensione del pensiero mazziniano, come di quello di Garibaldi, consiste nell'istanza che la libertà di una nazione dipenda dalla libertà di un'altra, che la servitù di una nazione provochi pure la distruzione della libertà di un'altra. E proprio questo principio portò le unità garibaldine nell'America Latina, come pure indusse i garibaldini a prender parte alle insurrezioni dell'Erzegovina e ad arruolarsi nella divisione «Drina» durante la guerra serbo-turca del 1876.

Le idee del Mazzini furono accolte con vivissima adesione nel circolo dei liberali serbi, nel principato e nella regione della Vojvodina, allora inclusa nella monarchia degli Asburgo. I liberali erano convinti che l'ideologia mazziniana si sarebbe potuta realizzare in una prima fase nel principato, per poter poi contribuire all' unificazione dei territori nei quali vivevano i serbi, ma la loro cerchia era assai ristretta, essendo circoscritta a quella generazione di giovani che fecero i loro studi all'estero: in Svizzera, in Germania, in Francia o in Inghilterra. La realtà del paese era ben diversa. Nel principato non esisteva, come in Italia, una borghesia illuminata, affrancata economicamente, che potesse assorbire le idee mazziniane e convertirle in azione politica. Il mazzinianesimo in Serbia rimase per quel momento un'utopia, ma contribuì a creare una profonda radice di affetto verso l'Italia, che, per diffusione capillare, più che secolare, permane tuttora.

Però, le grandi idee hanno lunga durata e si coniugano, nel tempo, con altri impulsi ideali, che fanno diversificare il germe originario. Così accadde con le idealità mazziniane, filtrate nel decorso degli anni, nei decenni che seguirono, in ambienti intellettuali e politici tanto diversi che a volte riesce difficile coglierne il germe originario. Il mazzinianesimo non si può collegare solo ai tempi risorgimentali, perché le sue propaggini si moltiplicarono in senso verticale e orizzontale.

Esiste un fenomeno che dovrebbe essere anche confrontato con la sostanza delle idee mazziniane ed è l'euroregionalismo. Nelle nazioni più consapevoli è stata prestata spiccata attenzione a tale fenomeno, sul quale l'Accademia delle Scienze di Vienna aveva steso un rapporto, commissionato certamente dal governo, che si può leggere nel volume Österreich und das Europa des Regionen , del 1995. I regionalisti europei, e sono in tanti, si rivolgono all'aggruppamento etnico, all'etnicità. Si parte da un regionalismo economico per giungere poi a esprimerne uno etnocentrico. C'è tutto un pullulare di idee regional-etniche. In molte pubblicazioni di questo tipo si relativizza l'idea dello stato-nazione. I teorici del regionalismo si appellano anche all'idea dell'Europa dei popoli, non tenendo conto del principio di nazionalità di pretto stampo mazziniano. Il regionalismo etnico in particolar modo viene teorizzato nell'area germanofona. A Maribor, in Slovenia, nel 1992 era stata promulgata la Magna Charta Gentium et Regionum. Alcuni anni prima di quest'avvenimento abbiamo avuto occasione di seguire il mega convegno L'Europa delle genti , tenutosi a Venezia con una massiccia partecipazione di delegazioni dell'Est europeo. Considerando lo stato-nazione superato, si stanno gettando le basi di un fondamentalismo etno-federalista, che potrebbe essere la miccia di implosione di tutti i grandi stati europei. Non a caso Philippe Séguin, il quale si attiene, con ragione, alla teoria volontaristica di Ernest Rénan, che è alla base del patriottismo e della nazione francese, fondandosi sul patto democratico, diceva: «la nazione è il prodotto lento della Storia e della volontà collettiva che non si identifica né in una razza e neanche, o almeno non sempre, in una lingua». Gli euro-regionalisti mirano, a mio avviso, alla distruzione della «nazione dei cittadini», mentre le euro-regioni diventerebbero dei nuovi stati-nazione, fondati sulla teoria della razza e del territorio, creando una nuova Europa a micro-tasselli politici, facilmente manovrabili. Perciò mi riesce comprensibile il fatto delle tante nuove riletture di Mazzini, che tuttora ci può aiutare a svelare le deformazioni del principio di nazionalità.

L'influsso mazziniano nell'area danubiano-balcanica è stato studiato e chiarito a fondo nei decenni successivi al 1920. Segno questa data perché allora apparve il prezioso libro di Antonio Anzilotti (10) Italiani e jugoslavi nel Risorgimento , edito nella terza serie dei «Quaderni della Voce». Per me con tale testo di 117 pagine inizia il nutrito filone di studi dedicati alle vivificanti idee del Risorgimento italiano in quest'area, il cui nucleo centrale è rappresentato dalle opere di Angelo Tamborra e della sua scuola (11). Oggi conosciamo abbastanza bene le complesse vicende che portarono alla formazione della «Gioventù serba unita» ( Ujedinjena omladina srpska ), della «Giovine Bosnia» ( Mlada Bosna ) (12) e di altri movimenti di stampo mazziniano. Ho parlato di un germe originario mazziniano che qualche volta riesce difficile intravvedere. Uno dei fondatori della «Giovine Bosnia» fu Dimitrije Mitrinović — eravamo all'inizio del XX secolo (13) —, che in un secondo tempo si trasferì in Inghilterra, dove, collaborando alla rivista «New Britain», iniziò un movimento ideal-religioso nel quale si possono individuare idee prettamente mazziniane. È importante rilevare che questo moto oggi, dopo quasi un secolo di vita, rivive, quasi senza soluzione di continuità, nel «New Age», che si è propagato negli Stati Uniti, acquistando credito in una larga fascia degli intellettuali e della classe politica. Gli «acquariani», così essi vengono designati, si possono collegare con la matrice mazziniana attraverso Dimitrije Mitrinović. L'approdo della «religione del progresso» del Mazzini nel «millenarismo» degli «acquariani» resta ancora da spiegare.

Con tutta probabilità Mazzini era venuto a conoscenza dei problemi degli slavi leggendo la traduzione francese delle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit di Herder. Allora Mazzini poteva avere sui ventitré anni, essendo nato nel 1805. Da allora il problema degli slavi lo interessò fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1847 egli pubblicò in Inghilterra alcuni articoli, riuniti sotto il titolo On the Slavonian National Movement, cui seguì, l'anno dopo, l'uscita dell'edizione italiana, intitolata Del moto nazionale slavo. Lettere slave. Più tardi, nel 1866, nel suo settimale «Il Dovere» pubblicò Missione italiana - vita internazionale, e nel 1871, nel periodico «Roma del popolo», Politica internazionale. Questo gruppo di scritti costituisce l'opera oggi nota come Lettere slave. In una missiva alla signora D'Argoult, del 1864, pubblicata nel t. LXXIX delle sue opere, Mazzini riconosce agli slavi, dopo la morte di Goethe e di Byron, l'unica poesia viva e spontanea da cui traspaia l'azione, l'unica, almeno, che lui conosca, e inoltre rende omaggio al loro spirito di sacrificio, ormai perso da quei popoli, fra cui egli pone il proprio come quello della sua interlocutrice, che preferiscono i giochi diplomatici, mentre questi altri pregano e si battono.

Nelle lettere che scriveva ai compagni di lotta Mazzini ricordava spesso la Serbia ed esprimeva la speranza che essa passasse all'azione. Tuttavia le informazioni che egli riceveva dai Balcani spesso non erano altro che illusionismo politico, destinato a rimanere inefficace. Così, il 16 febbraio 1863, scrivendo all'amico Agostino Bertani, fantastica di Serbia, Bulgaria, Montenegro, province dell'Oriente europeo, pronte ad agire appena si fosse trovata un'intesa con la Grecia, per la quale lui stesso si adoperava. E siccome la Serbia e in generale gli slavi del sud avevano una gran parte della propria popolazione nell'impero d'Austria, il movimento contro la Turchia sarebbe necessariamente diventato una sommossa pure contro quest'ultimo. Inoltre, una forte intluenza serba in Ungheria avrebbe coagito con il movimento italiano, portando pure ivi a un'esplosione, dalla quale non sarebbe rimasta immune neppure la Boemia. E in tono analogo, il 21 febbraio del medesimo anno, annuncia a Nicola Mignogna di essere, se non proprio a capo, almeno in contatto con un'ampia azione europea, che comprendeva Polonia, Russia, Ungheria, Serbia, Bulgaria, Montenegro, Grecia, l'impero turco e quello austriaco, quindi un'area estesa dal Baltico all'Adriatico. Egli, poi, si vede in contatto con una Serbia pronta, armata, organizzata, per quanto non manchi di criticarne il sovrano, a quel tempo Michele Obrenović, che, nonostante le sue costanti attività cospirative, al momento buono tradisce. Ormai, però, anche questo principe si era ricollegato alla direzione dell'Europa democratica, mantenendo vivo il desiderio di insorgere contro i turchi, giacché metà dei serbi si trovava sotto l'Austria; Mazzini, inoltre, riteneva che anche la Bulgaria avrebbe seguito l'esempio della Serbia. Del Montenegro, poi, non era nemmeno il caso di parlare, poiché tutte le volte che era necessario battersi contro il turco era pronto alla chiamata, anche perché desiderava impossessarsi del porto delle Bocche di Cattaro, ed esercitava pure una forte influenza sulla popolazione slava in Dalmazia, lungo tutta la costa dell'Illiria. Quanto all'Ungheria, che per la posizione geografica non poteva muoversi da sola, essa poneva come condizione della propria insurrezione il moto serbo e l'attacco dell'Italia contro l'Austria. Scrivendo da Londra, il 2 marzo 1863, a Saverio Friscia, che si trovava a Palermo, Mazzini insiste, fra l'altro, su parametri per lui ben definiti dello schieramento europeo: l'intero impero turco in Europa è corroso dall'interno causa le organizzazioni slave; al centro di quest'azione si trova la Serbia, con gente maschia ed armata. L'insurrezione che avrebbe dovuto seguire l'iniziativa montenegrina, era stata bloccata dal principe, che, come da noi, era alla testa del movimento, per poi impedirne l'azione una volta scoccata l'ora. Il partito nazionale, che si stava separando dal principe, si preparava ad abbatterlo nel caso non si fosse venuti subito all'insurrezione. La Bulgaria è pronta a seguire la Serbia, che ha due milioni e mezzo di abitanti in Austria. Il Montenegro, insorto l'anno precedente e che si organizza per una nuova insurrezione, ha una grande influenza sugli slavi di Dalmazia e dell'Adriatico.

Appare evidente a chiunque conosca a fondo la storia di tale periodo che i punti di vista espressi da Mazzini in queste lettere del 1863 esprimevano i pensieri e gli atteggiamenti dei liberali serbi, perché proprio costoro erano delusi dalla politica interna ed estera del principe Mihailo (Michele Obrenović) e del suo governo. Il patriota genovese, infatti, credeva fermamente alle informazioni sui preparativi militari della Serbia, che sarebbe stata allora già pronta ad affrontare la guerra con la Turchia, il che non corrispondeva a verità. I liberali serbi e i membri della «Gioventù serba unita» credevano che, con l'appoggio dell'Italia e della Prussia, sarebbe stato possibile liberare i connazionali della Turchia e dell'Austria, ma la Serbia, come fu evidente in seguito, non era sufficientemente armata. Appena quindici anni dopo, sotto il regno di Milan Obrenović, essa avrà un esercito in grado di entrare in guerra con la Turchia.

Fin dallo scadere degli anni Cinquanta, all'epoca dell'assemblea tenuta nel giorno di S. Andrea (Sentandrejska skupština), le idee di Mazzini erano state accettate da un gruppo di liberali serbi, a capo dei quali si trovava Vladimir Jovanović, padre di Slobodan, uno dei più rinomati storici serbi. Si ebbe allora la fondazione della «Gioventù serba unita», organizzata sull'esempio della «Giovine Italia», mentre i giornali più autorevoli cominciarono a pubblicare articoli su Mazzini, il suo operato e le sue idee, che compaiono nel «Vidov dan», nella «Srbija», nelle «Srpske novine», nel «Glas naroda», nel «Pančevac» e nella «Zastava». La voce del Genovese si diffuse ampiamente fra gli intellettuali serbi, nel principato della Serbia come nella Vojvodina. Nei discorsi di Svetozar Miletić, capo del partito nazionale serbo nella Vojvodina, si intravvedono chiare influenze dell'ideologia mazziniana. Ma il collegamento principale con Mazzini avveniva tramite Vladimir Jovanović, come testimoniato da suo figlio. In una lettera del 1924. in italiano, egli così descrive l'incontro dei due:

«Mio padre conobbe Mazzini nel mese di novembre a Londra. A causa delle sue idee liberali, mio padre aveva dovuto lasciare la Serbia e vivere come esule a Londra. Il noto rivoluzionario Bakunin gli presentò Mazzini. Mazzini abitava allora in un alloggio molto modesto, che comprendeva una stanzetta e una camera da letto. Egli fece subito una forte impressione su mio padre a causa dello splendore eccezionale dei suoi occhi, con la sua voce chiara ed energica e con le sue frasi brevi e sentenziose. Mio padre espose a Mazzini il programma del partito liberale serbo, di cui lui era uno dei capi. In base a questo programma in Serbia si sarebbero dovute risvegliare le energie nazionali a mezzo delle istituzioni democratiche, e una volta fosse stato raggiunto questo obiettivo, si doveva provocare 1'insurrezione generale fra i cristiani dei Balcani contro il governo turco. Siccome le grandi potenze europee sostenevano la Turchia, il partito liberale vedeva la necessità che l'azione rivoluzionaria nei Balcani venisse preceduta dall'opera di propaganda a Londra ed a Parigi. a favore dei cristiani Orientali che erano sottoposti al giogo turco. Mazzini ascoltò con molta attenzione quanto mio padre gli andava esponendo. Osservò che gli Jugoslavi e gli Italiani avevano un nemico comune nell'Austria, e che la situazione politica dei governo serbo non era senza analogia con la situazione politica del governo italiano. Come quest'ultime cercava appoggio in Francia, il governo serbo cercava sostegno in Russia. Mazzini tuttavia sosteneva che né i Francesi né i Russi erano amici disinteressati. Mazzini promise ogni aiuto per la propaganda che mio padre intendeva condurre a Londra […] Nei colloqui che in seguito mio padre condusse con Mazzini, questi rilevò tutti i vantaggi che un'azione simultanea avrebbe potuto avere per gli Italiani e gli Jugoslavi. Da una parte. presupponendo l'insurrezione rivoluzionaria nei Balcani l'Austria sarebbe stata costretta a dividere le sue forze e a dislocare un corpo lungo la frontiera meridionale; dall'altra parte, in caso di guerra con I' Italia, l'Austria sarebbe stata impossibilitata a intervenire nei Balcani; era perciò necessario che l'azione italiana e quella jugoslava fossero avviate nello stesso momento. Mazzini insisteva che fosse assolutamente necessario guadagnarsi l'aiuto della Prussia. Soltanto l'azione combinata tra la Prussia, l'Italia e gli stati Balcanici avrebbe potuto spezzare le forze dell'Austria e della Turchia. Per di più quest'azione avrebbe dovuto essere sostenuta a livello diplomatico almeno dalla Francia, che è nemica dell'Austria e della Turchia» (14).

Le idee di Mazzini si trasformarono in azione politica non soltanto nelle file dell'opposizione liberale. Se leggiamo con attenzione il Načertanije (Disegno) di Ilija Garašanin, che precede di almeno due decenni l'epoca della quale stiamo parlando, vi possiamo rinvenire i riflessi delle idee di Mazzini, che certamente gli erano arrivate per il tramite di František Zach (15), agente di Czartoryski a Belgrado e confidente del politico serbo. Influenze mazziniane si ravvisano anche in Matija Ban, conservatore e avversario dei patrioti liberali, uomo di fiducia del governo di Belgrado, raguseo di nascita e serbo-cattolico. Nella sua «Circolare» del comitato centrale ai comitati territoriali, che inviò come agente di Garašanin in missione segreta in Bosnia ed Erzegovina, i «mazzinismi» si possono facilmente individuare, e sono anche certo che Matija Ban rifece e pubblicò lo scritto di Bianco di Saint-Jorioz sulla guerra per bande (16). In Italia come in Serbia si creò una strana simbiosi di idee, che fecero proprie così gli esponenti dell'opposizione come i governanti. Le autorità perseguitavano il Genovese e i suoi seguaci, ma si attenevano al principio di nazionalità, abbracciato anche da Napoleone III, grande protettore dell'unità d'Italia, che nel 1866 aveva ceduto al neocostituito regno sabaudo il Veneto, anche se un anno dopo le truppe francesi avrebbero difeso Roma e lo stato pontificio dall'attacco delle truppe garibaldine. A poco tempo dalla morte, nel 1872, Mazzini, con Garibaldi, sarebbe divenuto uno dei simboli del Risorgimento italiano: la repubblica da lui auspicata non era stata realizzata, ma era nata l'Italia unita sotto re Vittorio Emanuele II: una parte del suo programma era realtà. E, del resto, le idee degli avversari politici influiscono sull'orientamento delle politiche dominanti molto più di quanto siano disposti a riconoscere gli storici realistici, quelli di hegeliana ascendenza, del genere del grande Leopold von Ranke. Quanto non si è realizzato rende possibile e forgia, a modo suo, quello che è stato attuato, e a lungo andare i vinti divengono vincitori.

D'altra parte, l'idea che Mazzini propugnava per i popoli slavi nella vita intellettuale italiana della prima metà del XIX secolo aveva anche una forte controparte. Cesare Balbo nel 1814 pubblicò Delle speranze d'Italia , che riassumeva le idee geopolitiche di quella cerchia di pensatori politici italiani che in seguito sarebbero stati definiti moderati, i quali concepivano in modo tradizionale, e a volte con un orientamento conservatore, i nuovi equilibri fra i paesi europei. Lo studioso subalpino, che riteneva, come risaputo, che l'influenza dell'Austria si sarebbe dovuta rivolgere verso l'area danubiana anche causa la pressione esercitata dal mondo tedesco, che disponeva soltanto di una parte della costa del Mare del Nord, condivideva l'opinione diffusa di un'Austria bastione naturale contro l'espansione della Russia e grande potenza che impediva all'Islam, vale a dire alla Turchia, di avanzare in Europa. Per di più, le aspirazioni orientali dell'Austria coincidevano con gli interessi della Francia e dell'Inghilterra, le quali, a loro volta, non desideravano che la Russia arrivasse al Mediterraneo assumendo il controllo del Bosforo. Bisognava piuttosto consentire ad essa di allargarsi verso il Caucaso; l'Inghilterra e la Francia avrebbero «sistemato» il Mediterraneo — la prima controllando il canale di Suez, la seconda tenendo l'Algeria e il Marocco — e con lo sviluppo di questa distribuzione delle linee d'influenza e di espansione si sarebbe creata la situazione adatta perché l'Italia e la Polonia conseguissero l'indipendenza. Questa corrente del Risorgimento italiano riconosceva all'Austria una vitalità che non andava combattuta e nemmeno abbattuta, come, invece, pensavano i mazziniani. Balbo, che era, anzi, del parere che fosse interesse dell'Italia la costituzione di un impero austro-slavo, su cui concentrare l'attenzione della corte viennese, fino a indurla a rinunciare ai possedimenti italiani, era, dunque, favorevole al rafforzamento dell'austroslavismo, ritenendo che una tale politica facesse gli interessi dell'Italia futura. In un passo egli si dice convinto che esista la possibilità che gran parte della nazione slava si unisca con quella tedesca, in ciò vedendo l'occasione per gli italiani di separarsi dai tedeschi. Le idee del Balbo erano, perciò, in sintonia con la linea delle compensazioni geopolitiche, che erano proprie della politica dei governi europei nel XIX secolo e che portò a un accordo in occasione della guerra serbo-turca del 1876-78, dell'occupazione della Bosnia ed Erzegovina nel 1878 e della sua annessione all'Austria-Ungheria nel 1908.

Il secondo personaggio che simboleggia importanti inclinazioni dell'opinione pubblica italiana verso la Serbia e i serbi è Niccolò Tommaseo, l'illustre poligrafo italiano autore delle famose Scintille, causa le quali la maggior parte dei nostri studiosi del passato lo aveva ritenuto, infondatamente, uno scrittore serbo. Il Tommaseo si è conquistato meriti particolari nei riguardi della cultura serba grazie alle sue traduzioni e interpretazioni di quella poesia popolare nei ben noti Canti corsi, toscani, illirici e greci (17). In molti dei suoi scritti sparsi, da lui raccolti nel Dizionario estetico, troviamo l'esaltazione dei serbi e della loro poesia, e perfino la lode dei caratteri antropologici di quel popolo. Ma per la concezione politica tommaseiana relativamente all'unificazione degli Slavi del Sud il testo più importante, fra i sette riuniti sotto il titolo Ai popoli slavi, è quello rimasto a lungo sconosciuto, finché non fu pubblicato da R. Ciampini nel secondo tomo dell'edizione nazionale delle opere del dalmata (18). In questo scritto, con tutta probabilità risalente all'epoca delle Scintille, al 1840, il Tommaseo esprime il proprio punto di vista sulla Serbia, la Dalmazia, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro e sul Njegoš (19). L'idea che lo pervade è quella dell'unificazione dei serbi in uno stato in cui la Dalmazia avrebbe svolto un ruolo di egemonia culturale, mentre per forza reale e politica dominante sarebbe stato il principato della Serbia. Indubbiamente va al Tommaseo il merito maggiore se in Italia, nella prima metà del XIX secolo, ma anche in seguito, nacque il culto della poesia popolare serba, stimolando un numero sempre crescente di traduzioni, per arrivare fino a D'Annunzio e alla sua Ode alla Serbia , tuttavia, le sue idee politiche non trovarono un terreno fertile in Serbia. Il suo animo filoserbo si manifestò anche in altri scritti, non soltanto in questo, rimasto allora inedito, ma la sua idea cattolica, neoguelfa uscì sconfitta dalla realtà dei fatti che presiedette alla creazione della moderna Italia unita, i cui creatori furono anticlericali, quale, del resto, si mantenne la politica ufficiale italiana tino alla caduta del regno nel 1913. Il Risorgimento fu compiuto da politici illuminati, ma di destra, esemplari nella loro onestà, che nello stato pontificio vedevano, a ragione, l'ostacolo principale all'unificazione statale della penisola durante i secoli; perché ciò avvenisse fu necessario in pratica eliminarlo. Daltra parte, il federalismo cattolico del Tommaseo non poté avere eco in Serbia. Il popolo, come allora venivano denominate le popolazioni contadine emarginate dalla vita culturale, punto d'appoggio principale della chiesa cattolica, non aveva preso parte al Risorgimento, rimanendo fuori dalla vita pubblica causa la legge elettorale, basata sul criterio del censo, la quale, del resto, escludeva tutte le donne dal diritto di voto. L'idea cattolica del Tommaseo non poteva porre radici in Serbia, paese a maggioranza religiosa ortodossa, ma la sua influenza fu grandissima in Dalmazia, nei ceti cittadini italiani, come presso i serbi, ortodossi e cattolici. Si può dire che per un certo periodo egli ebbe una funzione culturale egemonica in Dalmazia e fu uno degli ideologi della nazione dalmata, idea accarezzata con entusiasmo verso il 1848, su cui porta notizie importanti lo studio recente, e già citato, dell'Ekmečić (20).

Ma, siccome le idee durano a lungo, molto più a lungo della vita umana, il partito popolare di don Sturzo, risorto, dopo la seconda guerra mondiale, come Democrazia Cristiana, facendo perno sull'idea politica cattolica, sconfitta nel XIX secolo, e sugli strati sociali che l'avevano accettata, è riuscito a governare per oltre quarant'anni l'Italia del dopoguerra. Anche questo è un esempio di come gli sconfitti possano diventare vincitori: Tommaseo ne sarebbe stato lieto.

Per un certo tempo l'Italia e la Serbia ebbero obiettivi politici convergenti, poiché sino alla fine degli anni Sessanta la prima condusse una politica antiaustriaca, traendo in questo vantaggi dai movimenti e dalle aspirazioni della seconda, ma, quando cominciò ad accostarsi all'Austria-Ungheria, all'epoca della Triplice Alleanza, naturalmente l'attenzione diplomatica per la Serbia subì un calo, mentre la politica ufficiale preferì orientarsi verso il Montenegro, dando spazio anche a importanti piani economici (la costruzione della ferrovia). Nei confronti della Turchia l'Italia condusse una politica ambivalente, in dipendenza del suo alterno avvicinarsi e allontanarsi dalla politica dell'Inghilterra e della Francia, per le quali l'impero ottomano costituiva un ostacolo importante all'espansione dell'influenza russa verso il Mediterraneo, linea d'azione, questa, seguita anche oggi dalla strategia delle potenze occidentali. E il nemico principale della Serbia era allora la Turchia, a occidente (fino al 1878) e a sud (fino al 1913). I serbi dovevano agire sia contro la Turchia islamica sia contro l'Austria-Ungheria cattolica per poter realizzare i propri obiettivi nazionali. Il momento di rottura si verificò alla fine del «secolo lungo», nel periodo 1915-16, ma soprattutto alla fine del 1914, dopodiché nel 1915, a Niš, nel «Delo» da maggio a luglio comparvero degli articoli che erano in accordo con gli scopi del governo serbo e che dovettero sortire l'effetto di irritare l'Italia, che sentiva vivamente la Dalmazia come proprio spazio geopolitico. Con l'unificazione degli Slavi del Sud, vale a dire dopo la costituzione del regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, la politica italiana fu anche antiserba, giacché la Serbia veniva giustamente considerata cardine e Piemonte della Jugoslavia. In effetti, la costituzione della Jugoslavia fece sì che si riducessero i possedimenti italiani in Dalmazia e i sostenitori principali dell'attribuzione d'essa al nuovo stato furono gli studiosi serbi.

Ma anche negli anni in cui l'Italia conduceva una politica antiserba l'atteggiamento filoserbo del Risorgimento italiano continuò a manifestarsi negli articoli, nelle traduzioni delle poesie, in molte presentazioni e interpretazioni di quello che si pensava in epoca risorgimentale. L'interesse per la poesia popolare serba non viene meno neppure all'epoca in cui la politica ufficiale italiana, specie sotto Mussolini, si manifestava apertamente ostile nei confronti della Jugoslavia. Una volta piantato, il germe della comprensione non cessa di crescere; anche oggi, in circostanze che non sono per nulla favorevoli, nelle cerchie degli intellettuali si riconferma la comprensione delle idee che avvicinarono l'Italia e la Serbia in una stagione tanto lontana da noi.

Sulla stampa quotidiana odierna possiamo seguire in che modo stia rivivendo l'idea federalista in Italia. Non è più quella clericale del Tommaseo, e neppure quella laica di Carlo Cattaneo, ma è certamente un'idea federalista modificata e adattata. Non è da molto che a un convegno scientifico italiano ci si è chiesti come sia avvenuto il disgregamento dell'idea integralista in Italia: uno dei motivi andrebbe ricercato nel fatto che la nazione ha perduto il suo antagonista; ora che l'ha ritrovato nella politica federalista torna a essere riproposta l'idea dell'unità nazionale.

In un'occasione, allorché scriveva la Storia d'Europa , Benedetto Croce ebbe a dire che l'interesse per il passato coincide con la riflessione sul presente. Quando non si conosce ciò che è stato, non si apprende neppure il momento attuale, e, quando non si capisce la storia d'oggi, è difficile intendere il tempo trascorso. Con vivissimo discernimento storico e politico, Pietro Pastorelli aveva ragione di rilevare come «il trascurare o addirittura l'ignorare l'esistenza del principio di nazionalità ci abbia fatto trovare impreparati, soprattutto sul piano culturale, ma di conseguenza su quello politico, ad affrontare le trasformazioni che si sono prodotte in Europa con la caduta del muro di Berlino e la scomparsa dell'Unione Sovietica: impreparati e incapaci di comprendere, e quindi di contribuire ad incanalare e controllare il fenomeno, ancora in atto, del riassestamento della carta politica dell'Europa centro-orientale sulla base del principio di nazionalità, (...) nel caso dei vicini jugoslavi tale impreparazione è stata foriera di gravi conseguenze: ci siamo messi ad inseguire un fantasma, la Bosnia dei «bosniaci», come almeno l'assassinio di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe dovuto insegnarci» (21).

L'idea di nazione, il principio di nazionalità, come dicono gli storici, nel corso di due secoli ha conosciuto notevoli trasformazioni — da noi, in Italia e nel mondo —, ma non è morta. E ancor oggi si offrono alla nostra riflessione, riconfermate, le parole pronunciate da Ernest Renan nel corso di una lezione, tenuta l'11 marzo 1882 alla Sorbona, in cui disse che «la nazione è un plebiscito quotidiano», per poi continuare nei seguenti termini: «La nazione è l'anima, il principio spirituale. Due aspetti, che in realtà sono tutt'uno, costituiscono quest'anima e questo principio spirituale; uno è il passato, l'altro il presente. Uno è il possesso comune di un ricco patrimonio di memorie; l'altro è l'accettazione attuale, il desiderio di vivere insieme, il desiderio di perpetrare la durata di un'eredità ricevuta come indivisibile. L'uomo, signori, non può essere improvvisato. La nazione, come il singolo, è il risultato di un lungo passato di sforzi, di sacrifici e di dedizione» (22).

Il presente ci ha fatto rievocare il passato. Molti dilemmi geopolitici dell'Ottocento salgono di nuovo sulla ribalta della storia. Nutriamo la vana speranza che almeno una volta saremo capaci di trarre ammaestramenti dalle vicende storiche trascorse.

Note:

(*) Testo della conferenza tenuta a Trieste il 12 novembre 1998 per la Deputazione di storia patria per la Venezia Giulia.

  1. La lettera è stata pubblicata dal Nolde nell'introduzione al volume di S. GORIAÏNOV, La Question d'Orient à la veille du Traité de Berlin (1870-1876), intr. et notes par B. NOLDE, Institut d'études slaves, Paris 1948. pp. 28-29.
  2. Cfr. M. EKMEČIĆ, Revolucija 1848. i Balkan ( La Rivoluzione del 1848 e i Balcani ), Matica srpska, Novi Sad 2000. pp. 11 ss.
  3. Per la posizione italiana cfr. R. MOSCATI, La diplomazia europea e il problema italiano nel 1848 , Sansoni, Firenze 1947, p. 195.
  4. EKMEČIĆ, op. cit., pp. 213-218.
  5. Cfr. Lj. BANJANIN, Francesco Fortunato Astengo, console del Regno sardo a Belgrado , «Studi Piemontesi», XXVIII, 1, 1999, pp. 181-198.
  6. È doveroso citare il perentorio giudizio di G. Spadolini, «Ma l'Italia federale ci fu e fu sconfitta esattamente il 29 aprile 1848. Il federalismo coincise col neoguelfismo, la più grande febbre del popolo italiano nell'Ottocento: il sogno di una confederazione di Stati indipendenti e sovrani, col Papa presidente», espresso nella Prolusione al convegno di Trieste, 15-18 settembre 1993, pubblicata nei relativi atti Nazione e nazionalità in Italia. Dall'alba del secolo ai nostri giorni, a cura di G. SPADOLINI, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 5.
  7. Cfr. A.D. SMITH, Theories of Nationalism, Duckworth, London 1971, p. 191, e, inoltre, E. KEDOURIE, Nationalism, Blackwell, Oxford-Cambridge (Mass.) 1993, e H. KOHN, L'idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico , tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1956; la bibliografia sul nazionalismo ammonta oggi a parecchie centinaia di voci.
  8. Cfr., in proposito, R. DE FELICE. Democrazia e stato nazionale . in Nazione e nazionalità in Italia, cit., pp. 37-44, e inoltre A. AGNELLI. L'idea di nazione all'inizio e nei momenti di crisi del secolo XX , ibi, pp. 15-36 .
  9. Cfr. A. LEVI, La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, a cura di S. MASTELLONE, Morano, Napoli l967 3 ; A. CODIGNOLA, La giovineza di G. Mazzini, Vallecchi, Firenze 1926; G. SALVEMINI, Mazzini, in ID ., Scritti sul Risorgimento, a cura di P. PIERI e C. PISCHEDDA, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 145-251.
  10. Morì quattro anni dopo, nel 1924. Era nato nel 1885.
  11. Per una bibliografia esauriente cfr. il mio Dra preporoda. Studi je o italijansko- srpskim kulturnim i političkim vezama u XIX veku (I due Risorgimenti. Studi sulle relazioni culturali e politiche italo-serbe nel XIX secolo), e particolarmente il cap. Giuseppe Mazzini e Vladimir Jovanović, Prosveta, Beograd 1979, pp. 107-172. Ora si può consultare pure il saggio di LJ. TOŠEVA KARPOVICZ, Mazzini e il Risorgimento serbo, in Il mazzinianesimo nel mondo, vol. II, Domus Mazziniana, Pisa 1996, pp. 511-567.
  12. Cfr. P. PALAVESTRA. Književnost Mlade Bosne (La letteratura della Giovine Bosnia ), Institut za književnost i umetnost, Beograd 1994 2 .
  13. Cfr. P. PALAVESTRA, Dogma i utopija Dimitrija Mitrinovića počeci srpsk.e književne avangarde (Il dogma e 1'utopia di Dimitrije Mitrinović inizi dell'avanguardia letteraria serba), Slovo Ljubve, Beograd 1977.
  14. S. JOVANOVIĆ ricavò queste affermazioni dalle Memorie di Vl. Jovanović, suo padre, rimaste a lungo inedite, ma ora pubblicate; cfr. VL. JOVANOVIĆ, Uspomene, a cura di V. KRESTIĆ, BIGZ, Beograd 1988.
  15. Cfr. ora l'illurninante studio, con molti dati nuovi, di M. EKMEČIĆ, Garašanin, Čartoriski i Mađari , . in ID., Revolucija 1848 , cit., pp. 163-212.
  16. Una guerra per bande per ottenere la libertà nazionale; Mazzini era contrario a quella di classe, ritenendo che essa conducesse alla rovina, alla violenza, a una nuova tirannia.
  17. Cfr. la ponderosa monografia, con un'appendice bibliografica di rilevante importanza, di M. DRNDARSKI, Nikola Tomazeo i naša narodna poezija ( Niccolò Tommaseo e la nostra poesia popolare ), Institut za književnost i umetnost, Beograd 1989, p. 355.
  18. Cfr. N. TOMMASEO, Scritti editi e inediti sulla Dalmazia e sui popoli slavi, a cura di R. CIAMPINI, vol. I, Sansoni, Firenze 1933.
  19. Cfr. J. PIRJEVEC, Niccolò Tonìinaseo tra Italia e Slavia, Marsilio, Venezia 1977, p. 264, un'utile sintesi con numerosi elementi inediti desunti da ricerche d'archivio.
  20. Cfr. EKMEČIĆ, Revolucija 1848 , cit. All'inizio degli anni Cinquanta uno studioso zagabrese di antica famiglia dalmata, J. Gospodnetić, si accingeva a preparare una tesi di dottorato di stato sulla nascita della nazionalità dalmata nei primi decenni dell'Ottocento, raccogliendo molti documenti di rilevante interesse, ma il titolo proposto venne respinto. In seguito Gospodnetić continuò la sua carriera universitaria in Francia, abbandonando gli studi storici e dedicandosi alla fonetica.
  21. Cfr. P. PA5TORELLI, Il principio di nazionalità nella politica estera italiana, in Nazione e nazionalità in Italia, cit.. pp. 204-205.
  22. Cfr . E. RÉNAN, Che cos'è una nazione?, e altri saggi, tr. it., intr. di S. LANARO, Donzelli, Roma 1993.

Nikša Stipčević, Serbia e Italia nel XIX secolo, «Quaderni Giuliani di Storia», XXI, 1, 2000, pp. 7-22

 

На Растку објављено: 2008-03-04
Датум последње измене: 2008-03-05 00:05:23
 

Пројекат Растко / Пројекат Растко Италија