Persida Lazarević Di Giacomo
Realtà e finzione nel romanzo "Il despota e la vittima" di Dobrilo Nenadić
Despot i žrtva [Il despota e la vittima], il quarto dei cinque romanzi storici di Dobrilo Nenadić[1] ha valso allo scrittore il premio della Biblioteca Nazionale della Serbia per il libro più letto dell’anno 1999[2].
Ambientato nel medioevo (XV sec.), il romanzo narra le vicissitudini e le tentazioni di Petrašin (il maestro) e Bogdan (il discepolo) durante la costruzione della città di Smederevo (Semendria) per volere del despota serbo Đurađ Branković (1427-1456).[3]
La forma narrativa utilizzata si avvale di livelli diversi: all’ambientazione storica dell’azione si contrappone la fabula fittizia, al concatenarsi di eventi realmente accaduti si intrecciano le vicende dei personaggi in un continuo gioco di rimandi tra realtà ed immaginazione. La notevole perizia narrativa di Nenadić è il tramite attraverso il quale si realizzano i diversi piani del contenuto; l’autore, ad esempio, specifica già dal primo capitolo il luogo e il tempo dell’azione, grazie certamente ad una ricerca ben documentata sulle fonti.
Il nucleo storico-narrativo del romanzo è costituito dalla fondazione della città di Smederevo sulla foce dei due fiumi Jezava e Danubio, per volere, già accennato, di Đurađ Branković che probabilmente fece iniziare i lavori di edificazione verso la primavera del 1428.
All’apertura del romanzo, tempo e luogo vengono definiti e circoscritti storicamente: Bogdan (čtec, lettore ufficiale di corte) si alza dal letto alla vigilia del giorno di S. Giovanni, nella torrida estate dell’anno 6939[4] e più avanti nel testo verrà aggiunto che: «[…] già da qualche anno la piccola piazza di Smederevo era stata trasformata in kara kazan [pentolone nero] […]»[5] e, poi, che: «[…] il despota stava costruendo la città, un miracolo mai visto finora.»[6]
Per la documentazione sull’epoca in questione, Nenadić si avvale dell’opera dello storico Momčilo Spremić, pubblicata a partire dal 1994 col titolo di Despot Đurađ Branković i njegovo doba [Il despota Đurađ Branković e il suo tempo][7]. Questo lavoro monumentale, «opera storiografica di prima categoria»[8], descrive la vita e il tempo del despota serbo seguendo la dottrina storiografica degli Annales d’histoire économique et sociale. Così, per quanto concerne la data della fondazione della città di Smederevo, troviamo confermato che: «La costruzione […] incominciò appena dopo la conclusione della pace serbo-turca. Siccome la pace fu conclusa prima del maggio del 1428, probabilmente la costruzione ebbe inizio nella primavera di quell’anno.»[9]
Oltre che sulla figura di Đurađ Branković, Nenadić si documenta anche sulla famiglia di costui che descriverà più avanti nel romanzo. Essa è composta dalla moglie Jerina o Irina, greca, pronipote dell’imperatore bizantino Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1479) e dai figli Grgur, Stefan, Lazar e Mara, tutti rintracciabili nella monografia dello storico Spremić[10]. L’autore menziona, inoltre, personaggi meno importanti ma comunque noti storicamente, come per esempio, il voivoda Bogdan e il doganiere Rados(l)av Zančić[11], figure di secondo piano che avvalorano però la ricostruzione generale dell’epoca.
La base storica su cui si sviluppa il romanzo è solida al punto che, a tratti, pare quasi che l’autore segua pedissequamente lo studio di Spremić: vedasi la descrizione delle difficoltà dell’edificazione della città, la gradozidanije[12] e della vita nel despotato serbo nella sua totalità (ad esempio la coniazione delle monete, la lavorazione dei metalli e della cera). Coincidono anche il titolo che Bogdan intenderebbe conferire nel suo ‘Libro’ al despota e quello, in latino, che appare sia nei documenti redatti in tale lingua sia in quelli di fonte italiana[13].
È del tutto vera, inoltre, la passione che gli uomini del medioevo serbo nutrivano per l’antichità; per esempio, nel romanzo, Bogdan legge al despota uno scambio epistolare tra Alessandro Magno e il suo nemico Dario: trattasi, evidentemente, del Romanzo di Alessandro, la lettura preferita dai sovrani serbi e dalla nobiltà guerriera[14].
È vero anche, però, che nei confronti di questa stessa antichità i sovrani serbi mostrano una completa mancanza di rispetto e di sensibilità durante l’opera di costruzione della città, condotta con un pragmatismo irriguardoso delle vestigia del passato. Significativo l’episodio in cui Petrašin e Bogdan scoprono una fortezza antica, all’interno della quale sono conservati busti di marmo millenari di rara bellezza: gli uomini di Đurađ distruggono tale patrimonio d’arte per sfruttarne il marmo come materiale per gli edifici della nuova città[15].
I diversi aspetti della storicità de Il despota e la vittima paiono sufficientemente convincenti, ma una lettura circospetta[16] può riuscire ad individuare dove e perché si insinui la congettura dell’autore, dato per supposto che essa esista. Noi ipotizziamo infatti che Nenadić abbia inteso dare una sua forma all’esegesi della storia, analogamente all’operazione di Andrić, che cercò, ne La cronaca di Travnik, di dare un’anima ai “suoi” consoli austriaci e francesi, di non limitarsi ai materiali d’archivio, ma creare un’opera d’immaginazione, un romanzo[17]. Andrić, la cui qualità letteraria è diventata una specie di ‘paradigma’ estetico e intellettuale per tutti gli scrittori serbi del dopoguerra[18], nel trattare la storia appare piuttosto sobrio e riservato: egli «[…] mostra il destino dell’uomo nella sua dimensione oggettiva e storica attraverso quella peculiare categoria che è rappresentata dal destino collettivo.»[19]
Il procedimento di Nenadić, invece, è diverso. Avvicinandosi ai fatti storiografici egli non riesce ad affrontarne con il dovuto rigore la “rifrazione” nella memoria collettiva del popolo, cedendo, a volte, ad un sensazionalismo volto ad impressionare sia il lettore sia l’intera comunità scientifica.
L’inconfutabilità dei dati storici e i fattori dinamici della diegesi serba medievale sono, in realtà, il «pre-testo» attraverso il quale Nenadić sospende nel tempo l’interpretazione della storia, ironizzando proprio sulla percezione popolare di quest’ultima. Pur seguendone l’ordine cronologico e quello causale, l’autore pone in dubbio la validità della trasmissione orale che della storia viene fatta; attraverso i personaggi di Petrašin e Bogdan, il maestro e il discepolo, il saggio e l’istintivo, egli mostra il suo scetticismo sulla validità della memoria storica collettiva dei serbi, o, per meglio dire, sulla validità dell’espressione soggettiva e immediata delle vicende. Nenadić non diffida della storia in sé, ma di alcune delle tante varianti che la decrittano. Avvicinarsi alla storia dei due protagonisti significa, dunque, sfidare con risolutezza la trasmissione stessa di quella parola, del verbo che denota la storia (serba). A tale riguardo merita evidenza la battaglia del Kosovo (1389) che rappresenta un aspetto tipico di questa cultura e che ha assunto, nella memoria storica del popolo serbo, il valore simbolico di spartiacque tra lo splendore e la gloria dell’impero medievale e l’infamia del periodo successivo. La tradizione orale glorifica il mito del Kosovo e divide i tempi in prima e dopo la battaglia, come giustamente osservò Ami Boué nella sua Turquie d’Europe[20]. Con il disastro del Kosovo incomincia il declino dell’indipendenza della Serbia e il 1389 è la data d’inizio della sua successiva sciagura[21].
La letteratura serba è ricca di opere in cui si piangono le terre perdute e in cui la nostalgia diventa passione violenta. Nella tradizione orale, il limite tra la storia vera e quella fittizia è difficilmente individuabile, per cui l’inesattezza, se corrisponde a quanto auspicabile, finisce per essere verità.
È necessario soprattutto verificare le corrispondenze tra la poesia popolare e la realtà storica. Il despota Đurađ Branković e i membri della sua famiglia sono, per esempio, fra i protagonisti di questa tradizione orale. Le poesie epiche sui membri della dinastia dei Branković sono numerosissime, sia in decasillabi che sotto forma di bugarštice[22], e il padre del despota, Vuk Branković, viene considerato il traditore per eccellenza durante la battaglia del Kosovo.
Nella tradizione orale serba, uno dei complessi tematici che caratterizzano la trasmissione eziologica è «la concretizzazione storica di avvenimenti di un’epoca che segnano la distruzione della civiltà preesistente.»[23] Inoltre, «per il popolo serbo […] la fine di un’epoca storicamente importante è la battaglia del Kosovo, quindi non è un caso che ad essa venga collegato l’arrivo del ‘tempo ultimo’.»[24]
Questa battaglia non segnò, però, la fine dei principati serbi: ci furono prima quello del colto e pio Stefan Lazarević (1389-1427) e poi quello di Đurađ Branković, l’ultimo despota. Durante i loro regni, la Serbia riacquistò terre per un’estensione pari quasi a quelle raggiunte coi Nemanjić[25], ma la popolazione del despotato tuttavia doveva pagare un tributo ai turchi e Đurađ Branković fu vassallo dell’Ungheria. Nella bugarštica più antica, Đurađ viene presentato sotto una luce positiva, come un uomo di animo nobile, sebbene fosse vassallo dei turchi e non avesse voluto aiutare Janos Hunyadi, militante dell’indipendenza serba, quando era suo prigioniero; successivamente però, egli sarà ricordato dalla poesia popolare in modo negativo, quale despota nel senso vero della parola[26]. Con la figura del padre di Đurađ, Vuk Branković, si ha invece il rovesciamento del dato storicamente accertato: egli non tradì in Kosovo, sebbene la leggenda gli abbia assegnato questo ruolo. Tra le ragioni più plausibili[27] dell’attribuzione di questo tradimento segnaliamo le seguenti: Vuk fu l’unico nobile superstite della battaglia; insieme al resto del suo esercito abbandonò, pare, il campo prima della sconfitta; dopo la battaglia, visse in ostilità con la famiglia del principe Lazar.
Questa contaminazione degli avvenimenti storici riguardo la figura di Vuk Branković conferma un aspetto tipico della letteratura orale serba: la struttura della trasmissione orale non può essere estranea alla propria origine ed è soggetta sempre a vari influssi. Nel caso del tradimento, la struttura che il cantore popolare offre richiede una fusione degli aspetti cristiani e pagani della comunità tali da soddisfare le esigenze del popolo, ovvero della storia nazionale: la pesante sconfitta dei serbi per mano dei turchi necessita di una spiegazione valida, adatta al tragico periodo della storia nazionale in cui una sconfitta viene celebrata come se fosse gloria. Come Giuda tradì Gesù, Vuk tradisce il principe Lazar, colui con il quale divide il pane (Vuk era genero di Lazar) e Lazar, in questa storica battaglia, preferisce il regno celeste a quello terreno. In questo modo è stata creata la leggenda cristiano-pagana del Kosovo.
Va qui detto che la letteratura popolare dei serbi è caratterizzata dall’insieme dei seguenti elementi coesistenti[28]: l’eredità praslava pagana che i serbi portarono con sé nei Balcani, i residui delle culture dei popoli che trovarono in quelle terre, gli elementi di credenza religiosa della chiesa cristiana orientale, gli influssi della cultura orientale islamizzata, della cultura europea occidentale, dei popoli vicini e degli slavi meridionali in generale, la propria tradizione politica e culturale del medioevo[29]. Per di più, come afferma Jovan Deretić:
[La letteratura popolare serba] nella sua forma classica, attraverso la quale è nota nel mondo, non ebbe origine, come è stato per la maggior parte degli altri popoli, in tempi preistorici, mitici, ma in un periodo più recente della storia nazionale. È preceduta da un’intera grande epoca della storia e della cultura nazionale che, nonostante la sua chiusura, lasciò considerevoli tracce. Quindi, la letteratura orale serba, specialmente la poesia epica quale sua forma principale, rappresenta uno dei ponti maestri tra la nostra [serba] cultura ecclesiastica feudale del medioevo e la cultura borghese dei tempi nuovi.[30]
Con la scelta di descrivere la edificazione della città di Smederevo, una delle più belle costruzioni fortificate dell’epoca in Europa e sede del despota Đurađ Branković, Nenadić si scontra con la tradizione soprattutto quando afferma che:
L’omettere Smederevo [da parte della tradizione] non avviene per caso. Smederevo è la negazione diretta del mito del Kosovo. O Smederevo, o Kosovo. O abbiamo perso tutto in Kosovo nel 1389 e poi come passeri siamo volati via verso il cielo, oppure ad un certo momento, dopo il Kosovo, abbiamo avuto uno stato ricco, estremamente ben organizzato, con una popolazione capace di compiere grandissime opere costruttive.[31]
Lo scrittore presenta al lettore un aut-aut netto: o si sceglie il mito del Kosovo e dunque la specificità delle spiegazioni e dei commenti eziologici, per cui ogni elemento che corrisponda alla struttura desiderata dal cantore popolare è benvenuto e può trasformarsi in storia vera e propria, oppure si dovrà accettare anche l’altro aspetto della vicenda, ammettendo che anche dopo la caduta del Kosovo ci fu un grande stato serbo, forse persino più grande di quello dell’epoca dei Nemanjić.
Adattando il termine usato da Genette[32], ipotizziamo che Nenadić abbia effettuato, in realtà, una sorta di trasposizione tematica e stilistica a partire dalla tradizione popolare. Apparentemente l’autore non solo cerca di non attirare l’attenzione sull’operazione che sta svolgendo, ma quasi rinnega l’eredità di Vuk e la passione europea per la cultura dei serbi. Nenadić offre una “storia demitologizzata”, commenta Nikša Stipčević[33]; in realtà, la situazione concreta di Nenadić potrebbe forse corrispondere a una specie di forgerei, dal testo poetico popolare a quello narrativo. Mirando alla riuscita estetica, egli utilizza una varietà di procedimenti: così per esempio, capovolge parzialmente l’immagine tradizionale della moglie del despota, che nella poesia popolare è una figura cattiva (‘la maledetta Jerina’, colpevole di varie disgrazie accadute nella città in costruzione[34]), in una donna greca colta e fine, costretta dalla sua nascita nobile a seguire il rigido protocollo di corte, fino a collocarsi dalla parte del male. La Jerina di Nenadić disprezza il popolo serbo, ma influisce poco sulle decisioni del despota; analogamente, la figlia del despota, Mara, conosciuta nella poesia popolare col nome tematico di “La bella Mara del despota” (“Lepa Mara despotova”), ne Il despota e la vittima è invece raffigurata come un essere esile, fine, diafano, dal volto grigiastro e dai denti rovinati, per cui la moglie del despota la definisce come «la brutta zitella».
Alla storica e mitica Piana dei Merli l’autore oppone la sontuosa Smederevo, sede storica ed epica di Đurađ Branković, una città che attira ogni tipo di gente, dove gli zecchini, contati e controllati uno a uno, brillano e per i quali si commette ogni sorta di delitto.
È a questo mondo, che si definisce cristiano, in cui lo spirito serbo viene catalizzato dal mito della battaglia del Kosovo, che l’autore contrappone la figura di Petrašin, il saggio maestro di vita, che nel contesto della cultura medievale va considerato come esempio di automatismo associativo basato sull’ironia o sul contrasto, per cui il saggio viene scambiato per il folle: «[…] Bogdan si chiede cosa sia Petrašin: un semplice folle, un credente oppure un saggio. Potrebbe essere tutto questo e al contrario nulla di questo.»[35]; egli è amante della saggezza greca, apprezza Diogene ed Epicuro[36]: «Per vivere bene e confortevolmente, senza paura né angoscia, l’uomo non ha bisogno di molti soldi. Perché tutto, [quando è] in eccesso, persino il denaro, allontana l’uomo dalla felicità.»[37]
La felicità di Petrašin è conseguenza delle sue posizioni etiche; la sua è una felicità di pace e atarassia, quel particolare stato d’animo di distacco con cui il saggio guarda alle passioni e a tutto ciò che sgomenta gli uomini. In pieno accordo con la natura e libero dai pregiudizi, con austerità e tranquillità (il distacco appunto), accetterà tra le sue braccia anche l’indomabile e bella Lenka, moglie del commerciante Zovko, che gli si concede per ottenere da lui, per conto di Luko Hrnjec, mercante raguseo[38], il segreto della lavorazione della cera. Questo fatto marginale, insieme ad una frase di Petrašin (storicamente accertata ma non particolarmente significativa) sull’inutilità della costruzione di Smederevo - «Il despota Zorzi sta costruendo la fortezza per il sultano.»[39] - darà origine a una storia, in sé banale, ma ripresa in molteplici varianti, in cui ciascuna si allontana sempre di più dalla verità. «Il popolo inventa facilmente le storie e le sparge in fretta, e la realtà si mescola stranamente in un inestricabile groviglio con le storie stesse.»[40], dice Andrić. Sia Bogdan (coinvolto nella frenetica vita di Smederevo) sia Žujo, Čuvrija, Lenka, gli uomini di Đurađ e tutti gli altri sudditi in generale saranno capaci di narrare una storia discostandosi sempre di più dalla fonte. Nel corso della trasmissione popolare dei dati, i racconti della gente formeranno vari episodi ovvero interpretazioni e giudizi sulla vicenda.
Paradossalmente, così come lo scopo dell’interpretazione eziologica è quello di essere «interessante, persino emozionante, pittoresco, ma sempre con la pretesa della verità»[41], la narrazione della gente di Smederevo si arroga lo status che rivendica una verità che non c’è e non c’è mai stata. Come il cantore della poesia popolare così gli abitanti della città serba fortificata conoscono vari modi attraverso i quali organizzare la narrazione: essi intrecciano, assemblano, fortificano, costruiscono, estendono, inventano, pensano e nuovamente intrecciano una storia. Bogdan, per esempio, è uno di coloro che del “favoleggiare” aveva fatto una professione guadagnandosi così da vivere[42]. Ne Il despota e la vittima tutti i personaggi dotati di talento narrativo sono portati a coltivare la loro arte fino ad acquistare la fama. La posizione dell’autore è resa esplicita, nel romanzo, dalle seguenti parole: «Quando una storia parte per il mondo essa è come un minuscolo granello che il vento porta ovunque. Essa è seminata dappertutto e non ritorna mai all’inizio, verso la verità, né verso quello che davvero è successo.»[43]
A causa della parola che egli stesso riempie di un senso nuovo, Petrašin diventerà il capro espiatorio, dovrà scontare le colpe di tutta la comunità. L’accelerazione delle vicende ed il precipitare della situazione[44] coincidono con il moltiplicarsi delle storie narrate nella città, sempre più colorite e sempre più distaccate dalla verità. Questi “narratori” popolari acquistano grande prestigio, rivali e gelosi della loro reputazione giungono a sempre maggiori prodezze mnemoniche e ad una produzione narrativa che si allontana sempre di più dal punto di partenza. Quando i repertori della gente vengono accresciuti a dismisura, l’autore commenta amaramente: «E persino se qualcuno lo volesse, non potrebbe mai, dopo tutto, accertare chi e che cosa vi ha contribuito. Forse anche le canzoni delle gusle nascono così.»[45]
Persino quando un inaspettato capovolgimento della situazione rischia di portare, solo per un attimo, gloria a Petrašin, Jerina, la moglie del despota, che pure gode della simpatia dell’autore, non trova che parole di disprezzo per un simile manifestarsi del fatalismo popolare: «Appare un nuovo eroe e le lagne dei guslari non vedono l’ora di sollevare qualcuno dal mondo villano alle stelle.»[46] Jerina aggiungerà ancora a proposito dei serbi: «Questa è una tribù maledetta che ama le proprie catene e innalza in cielo la propria sofferenza.»[47]
Benché Nenadić cerchi di opporsi con ironia sia alla tradizione cristiana che alla tradizione orale serba attraverso la figura di un ex monaco che abbraccia la filosofia greca, tuttavia lo scrittore cade nella propria trappola con la vita di Petrašin: per giungere a una conclusione circa la vita di Smederevo e di Petrašin stesso, egli è costretto, suo malgrado, a rifarsi ai modelli del cantore popolare, a ripescare i motivi e la tematica propri della poesia e delle narrazioni popolari serbe, di quelle stesse che Vuk, contro il quale lo scrittore si scaglia[48], aveva fatto conoscere all’Europa intera. Così anche Petrašin, in accordo con la tradizione orale serba e slava, più in generale, verrà alla fine sacrificato, murato vivo nella torre della fortezza, per espiare le colpe della gente, causa di tutti i mali che affliggono il popolo. Il ruolo della vittima sacrificale è conforme ai canoni della trasmissione orale.
Delle vittime murate, note anche presso altri popoli[49], Vuk dice: «Presso il nostro popolo ancora oggi si narra che nessuna grande costruzione può essere fatta senza che in essa venga murata qualche persona»[50]. Il motivo si ritrova nelle poesie popolari Zidanje Skadra [La costruzione di Scutari] e Zidanje Ravanice [La costruzione di Ravanica]; secondo la tradizione, uno dei fratelli Jugović, eroi della battaglia del Kosovo, aveva murato la sua sposa nelle fondamenta del ponte sulla Sitnica, presso Vučitrn. Anche nel ponte sulla Drina[51], a Višegrad, sarebbe stato murato un uomo. Si narra, inoltre, che, verso il 1870, un cadavere umano sia stato murato nelle fondamenta del ponte a Trebinje[52]. Petrašin, l’uomo più puro del mondo, sacrificato in questo modo, diventa leggenda, quasi a riprova di quanto lui stesso dice all’inizio della narrazione: «-Io sono come colui che era: la voce di uno che grida nel deserto. A me non dà ascolto nessuno, o non vuole, o non può sentire quello che dico.»[53] Questa vox clamantis in deserto è la voce di S. Giovanni Battista o Precursore, da cui Petrašin prenderà il nome (Jovan) e il modello di vita a cui ispirarsi. Obbedendo alle regole della tradizione orale serba e di quella cristiana, Petrašin diventa la vittima sacrificale del despota.
L’autore tenta, quindi, di ‘ingannare’ il lettore, ponendolo, apparentemente, davanti ad eventi storici e ironizzando sulla tradizione orale di quegli stessi eventi, ma così facendo crea, a sua volta, una sorta di etiological tale[54]: il mito, collegato strettamente con le credenze e le pratiche religiose di un popolo, viene arricchito di un significato religioso: la tessitura del romanzo di Nenadić corrisponde all’allegoria cristiana e a quella epica serba sul sacrificio. La storia dell’origine della città di Smederevo, attraverso la figura di Petrašin, diventa qui mito delle origini.
Nikša Stipčević sottolinea che «Il romanzo storico di Nenadić è […] un sistema chiuso. Esso ha una struttura solida»[55]; alla maniera dei guslari dell’epica popolare, Nenadić, crea, una sua versione della fondazione della città di Smederevo e in tal modo necessariamente chiude un cerchio. All’inizio del romanzo, Bogdan si sveglia il giorno precedente a quello di Ivanjdan, che la chiesa ortodossa festeggia quale giorno di S. Giovanni (24 giugno): «Tra il popolo si crede che quel giorno il Sole si fermi per tre volte nel cielo oppure balli per il timore di Dio […]»[56] come per segnalare simbolicamente la nascita della figura di Petrašin il martire, il quale, pur spogliandosi della tonaca monacale, si avvicinerà sempre di più al suo santo ispiratore. Per tramutare il personaggio in leggenda, la storia dovrà chiudersi, formare un cerchio. Alla fine del romanzo, al nascere del giorno successivo all’ultimo respiro di Petrašin, Bogdan getterà nel Danubio una coroncina di petrovac, un grande fiore di prato, dai petali bianchi e dalla corolla giallo-dorata col quale, il giorno di S. Pietro, le ragazze serbe usano fare corone con cui ornano le case: «Non so se esso abbia un qualche significato simbolico in generale», commenta Nenadić, «ma nel romanzo è espressione dell’amore.»[57] Bogdan salirà poi sulla barca e andrà contro corrente, lascerà Smederevo per sempre.
La coroncina di fiori simboleggia magicamente il cerchio; essa congiunge l’inizio con la fine, Ivanjdan con Petrovdan: «Fiori di S. Giovanni, fiori di S. Pietro, / Giovanni li coglie e li coglie»[58], canta il popolo serbo. All’interno del romanzo-cerchio di Nenadić sono presenti elementi tratti sia dalle narrazioni cristiane che da quelle popolari serbe: la figura di Petrašin-martire-S.Giovanni, che richiamerà la figura di Gesù; il cammino di Petrašin verso il luogo del sacrificio, la torre della fortezza, una via crucis personale («Aveva anch’egli, come Gesù, figlio di Dio, una sua via verso il Golgota, la sua Via dolorosa, come avrebbero detto i latini e coloro che amano il parlare forbito.»[59]). C’è poi il personaggio di Lenka-Maddalena, la peccatrice che, baciata la fronte a Petrašin, si getterà nel fiume e, infine, la colonna romana alla quale viene legato Petrašin, simbolo dualistico del bene e del male (che in seguito verrà soppiantata dall’altro simbolo cristiano della croce).
All’interno di quest’allegoria pagano-cristiana è presente anche la strega, veštica Sinđelija. Non si tratta, però, della strega brutta e cattiva della tradizione orale serba[60]:
Era una strega, questo lo sapevano tutti, eppure non aveva nulla che si addica a una strega: né il naso a uncino, né la verruca sul naso, né il neo sotto il seno sinistro, né il dente davanti dell’arcata superiore forato. Non era né magra né ingobbita. Non aveva occhi rossi da ratto. Anzi, gli occhi di Sinđelija erano miti e azzurri, come quelli di un angelo. Tutto al contrario, e tutto per confondere e portare l’uomo nella direzione sbagliata: Sinđelija era una donna carina e dal volto dolce. Ecco così. Eppure con quegli stessi occhi miti, e bisogna dirlo, faceva vari miracoli.[61]
*
Come la strega, anche Dobrilo Nenadić fa di tutto per confondere il lettore e portarlo fuori strada. E’ come se dicesse: «Non esiste solo la storia del Kosovo, credetemi. Eccovi un racconto sui tempi di Đurađ Branković. Io, il narratore onnisciente, vi racconterò una storia altrettanto bella e commovente sul sacrificio della fortezza di Smederevo.» Non a caso Nenadić sostiene che: «Senza spavalderia ed arroganza non esiste scrittore.»[62] La trappola che l’autore tende al lettore e a se stesso sta nel fatto di non riuscire ad evitare il richiamo della tradizione popolare, dando la sensazione di qualcosa di già conosciuto seppure ignoto, grazie alla generosità del materiale fornito dal folclore serbo. In fondo, Nenadić non riesce proprio a negare il suo legame con la letteratura orale: «Le mie prime esperienze di lettore sono proprio quelle con […] le poesie popolari epiche. […] quell’epoca ha prodotto tanti archetipi i quali, in una veste diversa, ci determinano anche oggi.»[63] L’autore non può rimanere immune dalla fervida immaginazione con la quale l’uomo vede e interpreta il mondo che lo circonda: «Il semplice novellatore d’oggi […] ha ricevuto gran parte del suo materiale leggendario da un passato ancora più incolto del suo presente, [ed] ha ‘pronto per l’uso’ tutto un magazzino di racconti»[64] i quali descrivono i grandi avvenimenti della storia e l’immaginazione popolare serba ha parecchio da dire sull’origine dei suoi luoghi fortificati.
Pur ricorrendo alla tradizione cristiana, Nenadić radica la sua allegoria soprattutto nell’epica popolare, fino alla composizione di un suo mito di Smederevo. Petrašin diventa così un eroe serbo (sacrificato per tutti noi, per la nostra follia), alla pari degli altri personaggi delle poesie popolari, accanto a Starina Novak, al principe Bogosav oppure a Sibinjanin Janko, poiché il suo esempio incarna il livello manifesto della funzione della tradizione orale. D’altronde, a proposito dell’origine delle poesie popolari, è Nenadić stesso ad affermare, contrastando Vuk Karadžić che:
Il popolo non ha mai creato nulla. Se mai è stato creato qualcosa, esso è opera degli individui. Il fatto che, a causa di circostanze tragiche, tutti questi, narratori, poeti, creatori di indovinelli, proverbi ecc. siano rimasti anonimi, è un’altra faccenda.[65]
Per Nenadić diventano, volens nolens, materia di vivo interesse il rapporto tra il modo popolare di concepire il mondo, cioè il pensiero popolare primitivo e la concezione cristiano ortodossa che interpreta tale problema.
I dettagli narrativi di una storia orale, raccontata in una data comunità, pare che siano relativamente fissi, indipendentemente dalla forma della narrazione: un «abile narratore tratta, di solito, la sua materia molto liberamente, ma entro i limiti tradizionali.»[66] Ci sono dei luoghi comuni riguardo ai personaggi, all’azione e all’ambiente talmente radicati nella poesia popolare (serba) da costituire parte indispensabile dello stile del narratore; Nenadić ha dalla sua parte il talento e la padronanza di questi vecchi espedienti. La sua trattazione del tema è sicuramente segno di una letteratura sofisticata: «Nenadić sa cosa sono le parole, e come utilizzarle […].»[67] La necessità dell’autore di spiegare, chiarire l’origine della edificazione della città (di Smederevo) lo porta inevitabilmente a formare egli stesso una storia che verrà letta, alla stessa maniera delle poesie popolari serbe, per saecula saeculorum.
E Nenadić non può negarlo: Il despota e la vittima è il libro più letto dai serbi.
Note:
1. Nato il 23 ottobre del 1940 a Vigošta, vicino Arilje (Serbia centrale), è un ingegnere agronomo ora in pensione. Ha pubblicato i seguenti romanzi: Dorotej (1977), Kiša (1979), Vreva (1981), Poplava (1982), Statist (1983), Divlje zvezde (1985), Roman o Obiliću (1990), Polarna svetlost (1995), Despot i žrtva (1998), Uragan (1999), Brajan (2000) e la novella Ahilije (1996).
2. A Dobrilo Nenadić sono stati assegnati anche altri premi: il premio “Bestseller d’oro” nel 1998; il premio “Meša Selimović” per il miglior libro del 1998, il premio della casa editrice Prosveta nel 1998; il premio della fiera bellica del libro della casa editrice Prosveta nel 1999.
3. Presso i bizantini, il termine despota rappresentava il più importante titolo onorifico; sotto i Paleologi, venne conferito ai sovrani serbi dei casati Lazarević e Branković (i despoti Stefan, Đurađ e Lazar) mentre, a partire dal 1402, il conferimento era a discrezione esclusiva dell’imperatore. V.: S. NOVAKOVIĆ, Vizantinski činovi i titule u srpskim zemljama XI-XV veka, in Glas SKA, 78 (1908). Sulla divisione amministrativa del despotato serbo v.: M. J. DINIĆ, Vlasti za vreme despotovine in Zbornik Filozofskog fakulteta, X-1 (1968), pp. 237-243.
4. Nei vecchi manoscritti serbi, il trascorrere del tempo veniva scandito alla maniera bizantina e l’anno veniva contato, solitamente, secondo l’era di Costantinopoli, calcolata a partire dalla creazione del mondo fino alla nascita di Cristo. Gli altri modi di contare il tempo erano: l’indict costantino (il giro di 15 anni), il giro del sole (28 anni), il giro della luna (19 anni). V.: Đ. TRIFUNOVIĆ, Azbučnik srpskih srednjovekovnih književnih pojmova, Belgrado, Nolit, 1990, pp. 193-195.
Sulla base di questo sistema di calcolo, l’anno 6939 corrisponderebbe al 1431 d.C.
5. Despot i žrtva, 3a ed., Belgrado, Prosveta, 1999, p. 9 (esiste anche una quarta edizione del romanzo, sempre del 1999, e una quinta del 2000, Belgrado, Narodna knjiga): «[…] do pre nekoliko godina maleni trg Smederevo pretvorio u kara kazan […].»
6. Ibid., p. 11: «[…] despot je zidao grad, čudo jedno neviđeno.»
7. La prima edizione è del 1994 ( Belgrado, SKZ ). Ci riferiamo qui all’edizione della CLIO, Belgrado, 1999.
8. N. STIPČEVIĆ, Propast umnoga ili istorijska alegorija Dobrila Nenadića, in Učitavanja, Belgrado, Zavod za udžbenike i nastavna sredstva, 1999, p. 130: «prvorazredno istoriografsko delo».
9. M. SPREMIĆ, Despot Đurađ Branković i njegovo doba, op. cit., p. 140: «Izgradnja Smedereva počela je tek posle sklapanja srpsko-turskog mira. Kako je on zaključen pre maja 1428, verovatno je gradnja počela u proleće te godine.»
10. Cfr.: Ibid., p. 76 et passim.
11. Cfr.: Ibid.: Bogdan, voivoda a Srebrenica, pp. 550, 783, 850; Radosav Zančić, nobile serbo, doganiere a Srebrenica, pp. 728, 783, 885.
12. Ibid., p. 670.
13. Cfr.: Ibid., pp. 160-161.
14. V.: R. MARINKOVIĆ, Srpska Aleksandrida, Belgrado, Filološki fakultet, 1969, p. 276.
15. Cfr.: M. SPREMIĆ, Despot Đurađ Branković i njegovo doba, op. cit., p. 142.
16. U. ECO, Sovrainterpretare i testi in Interpretazione e sovrainterpretazione: Un dibattito con Richard Porty, Jonathan Culler e Christine Brooke-Rose, a cura di S. Collini, Milano, Bompiani, 1995, p. 61.
17. Cfr.: K. DIMITRIJEVIĆ, a cura di, I. ANDRIĆ, Vreme zabrana, Belgrado, Prometej-Apolon KO, 1991, p. 31; si veda inoltre: M. ŠAMIĆ, Istorijski izvori «Travničke hronike» Ive Andrića, Sarajevo, Veselin Masleša, 1962.
18. M. NEDIĆ, Transformacije savremenog srpskog istorijskog romana, in Istorijski roman, a cura di M. MATICKI, Belgrado-Sarajevo, Institut za književnost i umetnost-Institut za književnost, 1992-1996, p. 349.
19. B. ZIELINSKI, Tipologija srpskog istorijskog romana, trad. di D-V. Pažđerski-Pavlović, Belgrado, MSC, 2000, pp. 302: «[…] pokazuje sudbinu čoveka u njegovoj objektivnoj i istorijskoj dimenziji posredstvom specifične kategorije, koju predstavlja kolektivna sudbina.»
20. A. BOUE’, La Turquie d’Europe ou observations sur la géographie, la géologie, l’histoire naturelle, la statistique, les mœurs, les coutumes, l’archéologie, l’agriculture, l’industrie, le commerce, les gouvernements divers, le clergé, l’histoire et l’état politique de cet empire, Parigi, A. Bertrand, 1840.
21. In realtà, «[…] il crollo dello stato medievale serbo, rappresentato dalla caduta di Smederevo nell’anno 1459, è pietra di confine nella storia serba: con esso finì il periodo dell’indipendenza medievale e cominciò l’epoca della schiavitù: con esso fu distrutto il mondo medievale serbo.» (M. SPREMIĆ, Despot Đurađ Branković i njegovo doba, op. cit., p. 657: «[…] propast srpske srednjovekovne države, oličena u padu Smedereva 1459. godine, kamen je međaš u srpskoj istoriji: njome je završen period srednjovekovne samostalnosti a počelo je doba ropstva: njome je uništen srpski srednjovekovni svet.»).
22. La bugarštica di Sibinjanin Janko è, per quanto si sa, l’iscrizione più antica finora trovata: essa narra la schiavitù di Sibinjanin Janko (Janos Hunyadi il voivoda di Transilvania) nella fortezza di Smederevo dove era stato rinchiuso da Đurađ Branković. È stata annotata, come parte integrante del poema Lo Balzino da Rogieri de Pacienza, nel 1497, a Gioia del Colle. V.: N. MILOŠEVIĆ-ĐORĐEVIĆ, Narodna književnost in AA. VV., Kratak pregled srpske književnosti, Belgrado, Lirika, 2000, pp. 32-33; M. PANTIĆ, Nepoznata bugarštica o Despotu Đurđu i Sibinjaninu Janku iz XV veka, in Zbornik Matice srpske za književnost i jezik, XXV (1977), pp. 421-420 (anche in Susreti s prošlošću, Belgrado, Prosveta, 1984, pp. 7-32).
23. N. MILOŠEVIĆ-ĐORĐEVIĆ, Od bajke do izreke. Oblikovanje i oblici srpske usmene proze, Belgrado, Društvo za srpski jezik i književnost Srbije, 2000, p. 124: «[…] istorijsku konkretizaciju događaja ili epohe u kojoj se ruši dotadašnja civilizacija.»
24. Ibid., p. 127: «Za srpski narod […] kraj važne istorijske epohe bila je kosovska bitka, zato zaista nije slučajno što se dolazak ‘pošljedneg vremena’ vezuje za nju.»
25. Nemanjić, dinastia medievale cui si deve la fondazione del primo stato unitario serbo (1159-1371). Ne fu capostipite Stefan Nemanja (1159-1196) che, resosi indipendente dalla sovranità bizantina, unificò sotto la sua autorità tutte le popolazioni serbe.
26. V. nota 21; cfr. anche: J. REĐEP, Grof Đorđe Branković i usmeno predanje. Novi Sad, Institut za jugoslovenske književnosti i opštu književnost Filozofskog fakulteta u Novom Sadu, Kulturno-prosvetna zajednica Vojvodine, Izdavačko-knjižarska agencija “Prometej”, 1991; id., Sibinjanin Janko – Legende o rođenju i smrti, Novi Sad, Književno-umetnička zadruga “Slavija”, 1992.
27. V.: V. ĐURIĆ, Antologija narodnih junačkih pesama, Belgrado, SKZ, 1990, pp. 44-45.
28. Cfr.: L. MATEJKA, Serbo-Croatian Oral and Written Verbal Art: Contacts and Conflicts, in Studia Slavica Mediaevalia et Humanistica Riccardo Picchio Dicata, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1986, II, p. 512.
29. V.: J. DERETIĆ, Istorija srpske književnosti, Belgrado, Nolit, [1983], pp. 148-149.
30. Ibid., pp. 149-150: «[Srpska narodna književnost] u svojemu klasičnom obliku, u kojem je postala poznata u svetu, nije potekla, kakav je slučaj kod većine drugih naroda, iz praistorijskih, mitskih vremena, nego iz jednoga poznijeg razdoblja nacionalne istorije. Prethodi joj čitava jedna velika epoha nacionalne istorije i kulture koja je, uprkos svojoj zatvorenosti, ostavila znatnih tragova u njoj. Stoga je srpska usmena književnost, naročito epska pesma kao njen glavni oblik, predstavljala jedan od glavnih mostova između naše crkveno-feudalne kulture srednjeg veka i građanske kulture novih vremena.»
31. M. TODOROVIĆ, intervju: Dobrilo Nenadić, pisac, in Nin (19/11/1998): «Prećutkivanje Smedereva nije slučajno. Smederevo je direktna negacija kosovskog mita. Ili Smederevo, ili Kosovo. Ili smo izgubili sve na Kosovu 1389. i potom poput vrabaca prhnuli na nebesa, ili smo u jednom trenutku posle Kosova imali bogatu državu, vanredno dobro organizovanu sa stanovništvom sposobnim za najveće graditeljske podvige.»
32. G. GENETTE, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997, p. 246.
33. Cfr. anche: M. NENADIĆ, Transformacije savremenog srpskog istorijskog romana, in Istorijski roman, op. cit., p. 349.
34. Cfr. la poesia popolare Starina Novak i knez Bogosav (Vuk, III/1).
35. Despot i žrtva, p. 150: «[…] Bogdan se pita šta je Petrašin: obična budala, vernik ili mudrac. Mogao bi sve to da bude a opet i ništa od toga.»
36. Ibid., pp. 63-64.
37. Ibid., p. 64: «Da bi čovek živeo lako i udobno, bez straha i teskobe, čoveku nije potrebno mnogo novca. Jer sve u suvišku, pa i novac, čoveka od sreće udaljuje.»
38. Cfr.: M. SPREMIĆ, Despot Đurađ Branković i njegovo doba, op. cit., pp. 78, 171, 707 et passim.
39. «Despoto Zorzi gradi tvrđavinu za sultana.». Cfr.: M. SPREMIĆ, Despot Đurađ Branković i njegovo doba, op. cit., p. 149.
40. I. ANDRIĆ, Il ponte sulla Drina, trad. di B. Meriggi, Milano, Mondadori, 1993, p. 47.
41. R. PEŠIĆ, N. MILOŠEVIĆ-ĐORĐEVIĆ, Narodna književnost, Belgrado, Trebnik, 1996, p. 85.
42. Cfr.: J. BOLTE, J. POLIVKA, Anmerkungen zu den Kinder und Hausmärchen der Brüder Grimm, Lipsia, Dieterichsche Verlagsbuchhandlung,1913-32, IV, pp. 5-9.
43. Despot i žrtva, p. 127: «Kad priča kroz svet krene ona je poput sićušnog zrnjevlja koje vetar na sve strane raznosi. Rasejava se svuda i nikad se više na početak ka istini i onome što se stvarno događalo, ne vraća.»
44. La descrizione di un episodio di simile follia collettiva, con la gente che inveisce contro l’innocente, è presente anche in I. ANDRIĆ, La cronaca di Travnik, trad. di L. Salvini, Milano, Bompiani, 1962, pp. 304-305.
45. Despot i žrtva, p. 193: «I kad bi ko hteo nikada ne bi mogao, posle svega, da utvrdi ko je šta ovome delu priložio. I guslarske pesme tako valjda nastaju.»
46. Ibid., p. 125: «Pojavljuje se novi junak a guslarska blejala jedva čekaju da nekoga iz prostoga sveta u zvezde vozdignu.»
47. Ibid.: «Ovo je ukleto pleme koje svoje verige voli i svoju patnju u nebesa diže.»
48. M. TODOROVIĆ, Dobrilo Nenadić, pisac, op. cit.
49. Cfr. J. G. FRAZER, Il ramo d’oro, Roma, GTE Newton, 1992, pp. 230, 623-651.
50. Dela Vuka Karadžića. Srpske narodne pjesme, II, Belgrado, Nolit, 1972, p. 81: «U narodu se našemu i sad pripovijeda da se nikakva velika građevina ne može načiniti dok se u nju kakvo čeljade ne uzida».
51. Cfr.: I. ANDRIĆ, Il ponte sulla Drina, op. cit., pp. 36-68.
52. Š. KULIŠIĆ, P. Ž. PETROVIĆ, N. PANTELIĆ, Srpski mitološki rečnik; Belgrado, Etnografski institut SANU, 1998, p. 180. Cfr. anche: V. ČAJKANOVIĆ, Stara srpska religija i mitologija, Belgrado, SKZ-BIGZ-Prosveta-Partenon M.A.M., 1994, V, pp. 126-127.
53. Despot i žrtva, p. 11: «-Ja sam kao i on što je bio: glas vapijućeg u pustinji. Mene niko ne sluša, ili neće ili ne može da čuje što zborim.»
54. Cfr.: S. THOMPSON, La fiaba nella tradizione popolare [The Folktale, trad. di Q. Maffei], Milano, il Saggiatore, 1994, p. 26.
55. N. STIPČEVIĆ, Propast umnoga, ili istorijska alegorija Dobrila Nenadića, op. cit., p. 131: «Nenadićev istorijski roman jeste […] zatvoren sistem. On ima čvrst sklop.»
56. Š. KULIŠIĆ, P. Ž. PETROVIĆ, N. PANTELIĆ, Srpski mitološki rečnik, op. cit., p. 209: «U narodu se veruje da tog dana Sunce na nebu triput zastane ili zaigra od straha pred Bogom […]».
57. Lettera di Dobrilo Nenadić del 21/12/2000: «Ne znam da li to ima neko simboličko značenje uopšte ali je u romanu izraz ljubavi.»
58. Vuk St. KARADŽIĆ, Etnografski spisi. Dela Vuka Karadžića, prir. M. Filipović, G. Dobrašinović, Belgrado, Prosveta, 1969, p. 66: «Ivanjsko cveće, Petrovsko, / Ivan ga bere te bere».
59. Despot i žrtva, p. 201: «Imao je i on kao i Isus, sin božji, svoj put na Golgotu, svoju Via dolorosa, kako bi rekli Latini i oni koji vole otmeno da govore.»
60. Cfr.: Š. KULIŠIĆ, P. Ž. PETROVIĆ, N. PANTELIĆ, Srpski mitološki rečnik, op. cit., p. 92.
61. Despot i žrtva, p. 159: «Bila je veštica, to su svi znali, a opet nije imala ništa što jednoj veštici sleduje: ni kukast nos, niti bradavicu na nosu, ni mladež pod levom sisom, ni probušen prednji zub u gornjoj vilici. Nije bila ni mršava ni pogrbljena. Nije imala crvene pacovske oči. Naprotiv, Sinđelijine oči bejahu blage i plave, kao u anđela. Sve suprotno i sve samo da zbuni i na pogrešan pravac čoveka zavede: zgodna i milolika ženica bila je Sinđelija. Eto tako. A onim istim blagim očima, i to da se pomene, činila je razna čudesa.»
62. Glas javnosti ( 08/05/2000): «Bez drskosti i bezobrazluka nema pisca.»
63. Dobrilo Nenadić: Duhovna avantura, in Književni razgovori, prir. S. Radović, Belgrado, Idea, 1995, p. 73: «Prva čitalačka iskustva sam imao […] sa junačkim narodnim pesmama. […] ta epoha dala toliko arhetipova koji nas u nešto drukčijem ruhu i danas određuju.»
64. S. THOMPSON, La fiaba nella tradizione popolare, op. cit. p. 332.
65. M. TODOROVIĆ, Dobrilo Nenadić, pisac, op. cit.: «Nikad ništa narod nije smislio. Sve što je ikad stvoreno, delo je pojedinaca. E, sad druga je stvar što su, sticajem tragičnih okolnosti, svi ti pripovedači, pesnici, tvorci zagonetki, poslovica itd [.] ostali anonimi.»
66. S. THOMPSON, La fiaba nella tradizione popolare, op. cit., p. 606.
67. M. PANTIĆ, Dobra priča o lošoj priči: Dobrilo Nenadić, «Despot i žrtva», Prosveta, Beograd, 1998, in Letopis Matice srpske, (aprile 1999), p. 567: «Nenadić zna šta su reči, i kako ih upotrebiti […].»
Persida Lazarević Di Giacomo, Realtà e finzione nel romanzo Il despota e la vittima di Dobrilo Nenadić, Bérénice, a. XI, n. 29, luglio 2003, pp. 36-49.
Датум последње измене: 2008-03-10 08:42:43