Jože Pirjevec
Vuk Stefanović Karadžić, Niccolò Tommaseo e Trieste
Vuk Stefanović Karadžić nato due secoli fa , il 7 novembre del 1787 a Tršić sulla Drina, in una oscura provincia dell'immenso impero ottomano, ottenne in vita e in morte autorevoli riconoscimenti: Goethe, Jakob Grimm, John Bowring, Mickiewicz, Mazzini, Puškin, per citare soltanto alcuni tra i più illustri esponenti della cultura europea della prima metà dell'Ottocento, salutarono in lui l'uomo che, con la sua geniale opera creativa, aveva reso un popolo intero partecipe del grande simposio intellettuale d'Europa, facendo nel contempo scoprire a questa l'epica bellezza dei canti popolari serbi nati nelle tenebre di una secolare schiavitù.
Nessuno tuttavia ha saputo cogliere in tutta la sua estensione il ruolo fondamentale di Karadžić nella moderna cultura serba come Niccolò Tommaseo. In una lettera all'amico tedesco Heinrich Stieglitz, pubblicata nel 1842 sulla rivista triestina La Favilla, egli infatti definisce Karadžić «uomo più meritevole di un'intera accademia».[1] Con tale definizione, lo scrittore dalmata sintetizza efficacemente la poliedrica attività di Karadžić, questo filologo, grammatico, etnografo, storico, traduttore, riformatore della lingua e dell'alfabeto, che riuscì a fondere e sublimare in sé il meglio che il suo popolo aveva prodotto attraverso i secoli, rinnovandolo con slancio creativo per trasmetterlo alle generazioni future. La definizione del Tommaseo vale pure quale testimonianza di una precisa stagione della sua vita, e per il fatto d'essere apparsa sulla Favilla in un momento significativo della vita intellettuale di Trieste, su cui val qui la pena di aprire una discussione.
La fama di Karadžić esplose in Europa in seguito alla pubblicazione nel' 23 a Vienna, dove egli aveva trovato rifugio, del primo volume della sua raccolta di canti popolari serbi. Il Tommaseo, che in quel periodo collaborava a Firenze alla rivista letteraria L ‘Antologia, ne trovò notizia sulla Biblioteca universale di Ginevra e sul foglio dei romantici francesi Le Globe e, per quanto raccoglitore egli stesso di canti popolari toscani, si limitò a prenderne atto piuttosto distrattamente, riferendone nelle lettere agli amici dalmati come d'una specie di curiosità.[2] Era quello per il Tommaseo un momento particolare, in cui egli cercava di fuggire la Dalmazia e tutto ciò che gli rammentava la sua terra d'origine, per inserirsi più compiutamente nella vita culturale italiana. Molti anni più tardi, nel ricordare la prima giovinezza passata nel seminario di Spalato, egli avrebbe scritto: «E vedo un altro servitore, più montanaro e bronzino, che urlava i suoi canti slavi, a tentazione del mio maestro di retorica, vicentino, ridente di gusto a quella cantilena lunga e roca. . .»[3] Il Tommaseo era partito per l'Italia vergognandosi di quel cantare, e avvertendo il bruciore di quelle risate, e non riusciva a comprendere come persone di cultura, quali ad esempio il suo conoscente Jakšić o l'amico Marinovich, rimasti in Dalmazia, potessero trovare un qualche interesse nella lingua del popolo e nella sua tradizione orale.
«Le uve son poche, arcipoche», comunicava nel settembre del ‘27 il Marinovich da Sebenico al Tommaseo, «e la vendemmia quindi sarà melanconica al maggior segno, né avremo il piacere di udir la prediletta canzone del Pije vino Kraglievichiu Marco (Beve il vino il principe Marco) risuonar sulle labbra de' nostri selvaggi dal mare al1'Alpe».[4] — Canzone prediletta? Per il Marinovich sì, certo, ma non così per il Tommaseo, il quale più tardi, riferendosi a questa stagione della sua vita, avrebbe confessato: «Dell'illirico, ricca e soave e poetica lingua, parlata dalla servitù e dai contadini, non sentivo le bellezze, e non curavo di apprenderla bene».[5]
Solo un decennio più tardi, dopo un lungo e penoso periodo passato a Parigi, l'atteggiamento del Tommaseo nei confronti della poesia popolare dalmata e del mondo slavo in generale sarebbe cambiato radicalmente. Dopo la morte dell'imperatore Francesco I ebbe il permesso di rientrare nei territori absburgici, grazie a un'amnistia concessa ai fuorusciti politici. Ai primi di ottobre del ‘39, lo troviamo già in Dalmazia, cui si avvicina, affinato nello spirito dalle sofferenze dell'esilio, con una pietà e una sensibilità tutte nuove. Poco tempo prima, durante un breve soggiorno a Bastia, in Corsica, il Tommaseo aveva scoperto, attraverso la mediazione del tedesco Adolfo Palmedo, uno dei più famosi libri sulla sua patria: Il viaggio in Dalmazia di Alberto Fortis, scrittore e professore padovano. In esso, viene descritta con amorosa attenzione la semplice vita del popolo, e viene rivelato il miracolo della sua poesia.[6] Scoprire che tale poesia aveva suscitato l'ammirazione dei «grandi ingegni germanici», Goethe in testa, indusse il Tommaseo, appena riuscì a riambientarsi, a tender l'orecchio all'«illirico» (così avrebbe chiamato, secondo la moda romantica, la lingua serbo-croata), a cercar di riprendere la pratica di questo, che era l'idioma della madre recentemente scomparsa, e perfino a tentare di scrivere in esso un lamento in memoria di lei. Il suo «maestro d'illirico», Spiridione Popović, un possidente serbo di Sebenico, era uomo di non mediocre cultura e di vivo senso patriottico, che non si lasciò sfuggire l'occasione d'informare il suo illustre concittadino delle vicende dei popoli jugo-slavi e dei loro recenti sforzi tesi ad affermare, al cospetto dell'Europa, un'identità culturale e politica autonoma. Tra i primi libri che il Popović gli fece conoscere fu, naturalmente, il Dizionario serbo di Vuk Stefanović Karadžić, oltre alla sua raccolta delle poesie popolari.
Per il Tommaseo si trattò di una scoperta addirittura sconvolgente, che avrebbe lasciato un'impronta profonda sugli anni più maturi e fecondi della sua vita: non soltanto egli tentò di scrivere in «illirico», tradusse e pubblicò un florilegio dei canti di Vuk con un personalissimo commento, raccolse personalmente nuovi canti tra il popolo dalmata, ma modellò anche su tale scoperta una visione tutta sua della storia, del presente e del futuro, sotto molti aspetti utopistica e strettamente romantica. Desideroso di conoscere più da vicino le vicende della Serbia e del suo popolo, fece chiedere al Karadžić, attraverso conoscenti comuni, quale libro consultare, e la risposta che gli giunse da Vienna fu preziosa: Vuk infatti gli consigliò di procurarsi il volume di Amie Boué, La Turquie d'Europe, recentemente apparso a Parigi, in cui i Serbi venivano presentati, secondo una concezione herderiana e romantica, come una nazione contadina governata da assemblee popolari, vigorosa e incorrotta nella sua nativa semp1icità. Questa letteratura confermò il Tommaseo — da sempre sospettoso della civiltà cittadina e borghese — nell'impressione ricavata dalla lettura dei canti epici della Serbia: «Questa piccola regione», scrisse in una scheda dedicata alla Turquie d'Europe, «che fin dal principio del secolo volse gli sguardi a sé dell'Europa... è serbata ad onorati destini, se la sua poesia non inganna, che è misura e specchio della civile grandezza».[9]
La piccola e pastorale Serbia — la coraggiosa Serbia che, già nel 1804, per prima nei Balcani s'era sollevata contro il dominio ottomano, parve al Tommaseo una promessa e una grande speranza per il mondo slavo e l'Europa intera. Da tempo egli osservava con preoccupazione la crescente potenza russa, ed era convinto, come molti suoi contemporanei, che l'impero dello zar rappresentasse, per la sua sete di dominio e il suo dispotismo, un'incombente minaccia. L'Europa doveva dunque stare all'erta, per non cadere «nelle sporche ugne russe», diventandone una provincia. Ed ecco che proprio dal cuore della Slavia nasceva, col risorgere della Serbia, la possibilità di uno sviluppo diverso. Tra gli Slavi, secondo il Tommaseo, era in corso un tiro alla fune, il cui esito avrebbe segnato la sorte del mondo per parecchie generazioni: da una parte stava la Russia, rappresentante dell'autocrazia e della sopraffazione; dall'altra, la Serbia, portabandiera della libertà e del rinnovamento sociale. «Se Russia prevale, Slavia e Grecia son ite, se prevale la Slavia del mezzodì, per lei si ricongiungono, dopo la divisione lunghissima, l'Occidente ringiovanito e il risuscitato Oriente».[10]
Nel 1839, viaggiando da Sebenico a Venezia, dove intendeva stabilirsi, il Tommaseo si fermò anche a Trieste. Sul vapore che lo portava dalla Dalmazia, egli fece la conoscenza di un giovane, Antonio Gazzoletti, che, dopo lo sbarco nel porto adriatico, lo introdusse nel circolo della rivista La Favilla. Questa rivista bisettimanale, fondata nel ‘36, fu diretta appunto a partire dal ‘39 da Francesco Dall'Ongaro e Pacifico Valussi, due immigrati di simpatie mazziniane, dotati di notevole talento letterario e giornalistico, che si erano proposti di portare nella città di Trieste, dedita al commercio e al guadagno, fermenti nazionali e culturali. Il Tommaseo scoprì il gruppetto della Favilla con lieta sorpresa, resa più gradevole dall'ammirazione che subito gli tributarono il Valussi e il Dall'Ongaro. Bastò infatti un breve incontro di due giorni — quanto durò la sua sosta triestina — perché i redattori della Favilla lo riconoscessero come loro giuria intellettuale e ideologica. Ed egli non mancò di trasmettere loro l'entusiasmo provato per la scoperta di una Slavia ribelle, patriottica, portatrice di genuini valori popolari. Per il gruppetto raccolto intorno alla Favilla si trattò di una conferma preziosa del loro credo, secondo cui il risorgimento italiano, cui andavano, si iscriveva in un più vasto movimento di portata europea. Essi non erano insensibili al mondo slavo, di cui a Trieste era impossibile non accorgersi, e già nell'aprile del ‘39 per esempio, il Dall'Ongaro aveva pubblicato sulla Favilla un lungo articolo sulle poesie popolari slave; ma ora, sotto l'influenza del Tommaseo, si proposero di fare qualcosa di più, presentando il risorgimento slavo nei suoi momenti salienti e nei personaggi più importanti e additandolo ad esempio ai triestini e agli Italiani.[11]
Nel ‘42 venne pubblicata sulla Favilla la già citata lettera di Tommaseo a Stieglitz: nei tre anni successivi, apparve sulla rivista triestina una lunga serie di Studi sugli Slavi, scritta da due studenti ragusei che frequentavano l'università di Padova e gravitavano nell'orbita del Tommaseo. Le quindici puntate della serie affrontavano parecchi aspetti chiave del mondo slavo contemporaneo, riservando particolare attenzione ai Serbi e ai Croati, di cui si ponevano in rilievo sia le benemerenze storiche, per il ruolo di baluardo della cristianità contro il pericolo turco sostenuto nei secoli passati, sia le bellezze della poesia popolare.”[12]
Questi articoli, alla cui pubblicazione la censura frappose naturalmente parecchi ostacoli, furono una primizia per la stampa contemporanea italiana: mai, fino ad allora, gli Slavi meridionali erano stati presentati al mondo della cultura con tanta dovizia di particolari e con tanta vibrante simpatia. La figura di Vuk Stefanovič Karadžić e la sua opera vi investivano un ruolo centrale, dato che i due autori, seguendo in ciò la lezione tommaseiana, vedevano proprio nelle poesie popolari serbe la testimonianza di quell'amore per la libertà, che, in un futuro più o meno vicino, avrebbe certamente assegnato agli Slavi un loro posto nel consesso delle nazioni.[13]
All'inizio del ‘44, intanto, appariva a Zagabria l'unica opera completa scritta dal Tommaseo in lingua «illirica»: le Iskrice, le Scintille, in cui venivano ribaditi il suo pensiero e la sua fede nei popoli slavi e nel ruolo ad essi assegnato dalla Provvidenza nel grandioso processo d'elevazione spirituale, in cui era coinvolta l'umanità intera. Il tono biblico e profetico dell'opera affascinò letteralmente i suoi contemporanei: dappertutto, il libretto andò a ruba, e il suo autore divenne, per dirla con un giornale di Belgrado, «una delle stelle fisse sul nostro orizzonte letterario».[14] Tra gli ammiratori delle Iskrice, non potè mancare naturalmente Vuk Stefanović Karadžić, il quale vi trovò del resto molti echi delle sue teorie: non solo di quella sul contributo della letteratura popolare alla creazione di una nuova coscienza nazionale, ma anche di quella sul valore che la semplice lingua del popolo poteva avere, giustamente coltivata, nella sua crescita morale e civile.'[15]
Risale a questo periodo il contatto diretto tra il Tommaseo e Vuk. Questi inviò allo scrittore dalmata il secondo volume della sua raccolta di canti popolari, e il Tommaseo gli rispose con una lettera piena d'ammirazione, in cui lo invitava a continuare nei suoi sforzi a favore del «nostro popolo meraviglioso». Vuk, toccato da tale spontanea ammirazione, rispose a sua volta con una lettera commossa, in cui affermava che le parole del Tommaseo gli erano giunte «come uno dei premi maggiori che io abbia avuto per il mio operare».[16]
Negli anni successivi, il contatto tra i due, per quanto non frequentissimo, fu costante. Tramite tra di loro fu anche un comune amico, Dimitrije Vladisavljević, maestro nella scuola della comunità serba di Trieste. Presso questa comunità, che aveva raggiunto già nel corso del ‘700 una notevole floridezza economica e si era inserita nel tessuto cittadino come una delle componenti più vive, Vuk aveva trovato, da decenni, sostenitori, amici e protettori. Durante i suoi viaggi, egli faceva di frequente tappa a Trieste, dove veniva sempre accolto calorosamente, e dove la sua opera innovatrice — ben più che in altri ambienti serbi — veniva apprezzata al suo giusto valore. Non è un caso che la sua traduzione dei Vangeli in lingua moderna, avversata dalle autorità religiose in quanto troppo lontana dai canoni dello slavo ecclesiatico, potesse essere data alle stampe nel 1846 proprio grazie all'appoggio finanziario dei Serbi di Trieste. Tra i primi a ricevere la nuova versione dei Vangeli, fu il Tommaseo, il quale ne rimase talmente affascinato, che accarezzò per un momento l'idea di ristamparla in caratteri latini, per distribuirla tra i dalmati, ai fedeli dell'uno e dell'altro rito.[17]
I burrascosi avvenimenti, che travolsero nel ‘48 il regime di Metternich, e le vicende della rivoluzione veneziana, che videro tra i protagonisti anche il Tommaseo, interruppero la corrispondenza tra i due letterati, ma non spensero in Tommaseo l'ammirazione per Vuk, che avrebbe espresso ancora più volte negli anni successivi in scritti pubblici e privati. In uno dei momenti più tragici della sua vita, nella primavera del ‘49, quando ormai era evidente che la repubblica di Venezia era destinata a crollare ben presto sotto i colpi della reazione absburgica, il Tommaseo, con la caparbietà tipica del suo carattere ribelle, iniziò a pubblicare un giornale dal nome significativo: La fratellanza de' popoli. Tra le ultime cose che vi stampò, era un'ampia recensione dei Canti del popoio di Serbia di Vuk Stefanović Karadžić. Proprio quando gli Slavi, per l'appoggio dato da Croati e Russi al trono di Francesco Giuseppe, venivano tacciati di affossatori della libertà, il Tommaseo vi ribadiva la sua fede nella loro potenzialità innovatrice: «Quest'è la più antica, la più epica, ed alta poesia d'Europa», affermava. «Questi al popolo slavo documenti di vera nobiltà, e vaticinii d'illustre avvenire».[19]
Note
- N. Tommaseo, Scritti editi e inediti sulla Dalmazia e sui popoli slavi , a cura di Raffaele Ciampini, tomo I, Firenze, 1943, p. 116.
- Biblioteca Nazionale, Firenze, Tomm., 86, 61; 100, 32; 100, 27.
- R. Ciampini, Vita di N. Tommaseo , Firenze, 1945, p. 40.
- Biblioteca Nazionale, Firenze, Tomm., 100, 32, Marinovich a Tommaseo, 3 sett. 1827.
- N. Tommaseo, Un affetto, Memorie poetiche , a cura di Michele Cataudella, Roma, 1974, p. 15.
- Jože Pirjevec, Niccolò Tommaseo tra Italia e Slavia, Venezia, 1977, pp. 42, 43.
- Ibidem, p. 47 sgg.
- Ibidem, pp. 58, 59.
- N. Tomrnaseo, Intorno a cose dalmatiche e triestine, Trieste, 1847, pp. 95, 96.
- J. Pirjevec, op. cit., p. 89.
- Ibidem, p. 66 sgg.
- Ibidem, pp. 68, 69.
- Biblioteca Nazionale, Firenze, Tomm., 142, 7bis, Valussi a Tommaseo, s. d.
- J. Pirjevec, op. cit., p. 75.
- Biblioteca Nazionale, Firenze, Tomm., 58, 83, Buratti a Tommaseo, Vienna, 21 ott. 1945.
- Kosta Milutinović, Vuk i Tommaseo, in “Savremenik”, Jul. - Dec. 1965, vol. XXII, a. II, Belgrado, 1965, pp. 84, 85.
- Ibidem. p. 85; J. Pirjevec, op. cit., pp. 95, 96.
- K. Milutinović, op. cit., p. 89; J. Pirjevec, op. cit., p. 242.
- Ibidem, p. 144.
Jože Pirjevec, Vuk Stefanović Karadžić, Niccolò Tommaseo e Trieste , in: Vuk Stefanović Karadžić. La Serbia e L'Europa , Edizione a cura di Marco Dogo e Jože Pirjevec, Trieste, Editoriale Stampa Triestina, 1990, pp. 21-29.
Датум последње измене: 2008-06-21 16:18:25