Marco Dogo
Vuk Stefanović Karadžić, ovvero la «funzione della personalità» nella storia balcanica*
Riprendendo un tema cui ha fatto cenno il prof. Frangeš, direi che il mio intervento, se la cosa non appare troppo irriverente, potrebbe recare per il titolo: La funzione storica della gamba zoppa di Vuk . Devo premettere che le mie osservazioni, almeno nelle prime battute, risulteranno meglio comprensibili a chi, del pubblico, abbia visto il film americano di un paio di anni fa, Back to the Future ; il film era centrato su una situazione tipica e nota ai lettori di fantascienza, ossia sulla questione del vincolo rigoroso cui è sottoposto il viaggiatore a ritroso nel tempo: non alterare il passato, pena la scomparsa del presente o il suo mutamento fino alla irriconoscibilità. D'altra parte, nelle riflessioni autobiografiche di ciascuno di noi l'alterazione ipotetica del passato è un esercizio piuttosto frequente, mediante il quale presumiamo di soppesare le conseguenze felici e penose, comunque irreversibili, di scelte compiute o di avvenimenti fortuiti. È appunto in questo ordine di idee che allo stesso Vuk capitò da meditare, in età già avanzata, su due circostanze che tanti anni prima avevano segnato il corso della sua vita: l'infermità al ginocchio, che lo aveva sottratto a morte probabile nella Serbia della prima insurrezione, e l'incontro con Kopitar, cui egli riteneva di dovere quasi tutto ciò che in seguito aveva realizzato.(1) E così come un'alterazione ipotetica del passato era implicita nella meditazione di Vuk, è abbastanza spiegabile che i posteri abbiano tentato di misurare la grandezza della personalità di Vuk chiedendosi cosa sarebbe stato nella storia culturale e anche politica balcanica senza le riforme di Vuk.
È un tipo di domanda che non può interessare chi condivida le preoccupazioni di positività, del resto legittime, espresse dal linguista macedone Blaže Koneski: «Vo istorijata nema ‘ako bilo', ami ima ‘kako bilo'. I toa i nejzinata vrhovna mudrost» (2) (in traduzione libera: nella storia non conta il «se» ma il «come»; e proprio questa è la sua suprema saggezza). È un tipo di domanda che può interessare moderatamente chi, come noi, nutra il sospetto che talvolta occorra domandarsi ako , se, per meglio comprendere kako , come. Ma è un tipo di domanda che non dovrebbe interessare affatto, e che invece paradossalmente più tormenta, proprio chi sia convinto che soggiacciano a leggi di ferrea necessità tanto il come quanto il se del divenire storico. Non è sorprendente che su di essa, e con percorsi di pensiero non dissimili da quelli di Plechanov circa la c.d. «funzione della personalità nella storia» (1989), ci si sia arrovellati in Jugoslavia, su sollecitazione di una doppia ricorrenza karadžićiana, negli anni attorno al 1947-47: ossia in una congiuntura in cui l'ethos della rivoluzione necessaria era chiamato a confrontarsi con la tradizione nazionale e con l'anomalia di un personaggio come Vuk, germinato dall'arretratezza, pressoché autodidatta, per decenni osteggiato e isolato negli ambienti letterari, ecclesiastici e politici del suo popolo, vincitore infine per volontà ferrea e a prezzo di lotte che avrebbero sfiancato chiunque altro: una sfida a qualsiasi pretesa neminovna zakonitost (ineluttabile legge necessaria) storico-dialettica del progresso umano. Vale la pena di osservare che nei testi degli anni successivi al 1948 si colgono anche cenni di attualizzazione di Vuk come «precursore» o «modello da imitare» in rapporto ai problemi della nuova difficile situazione internazionale (Cominform): Vuk che di fronte a tutte le avveristà ed ostacoli non cessa di credere nel suo «partito», Vuk inventore della «propaganda culturale» verso l'esterno, Vuk consapevole dell'importanza di informare il mondo sulla lotta del suo popolo e sugli autentici motivi di questa, e così via. Ma tentiamo ora di riordinare i temi circolanti nel materiale celebrativo-divulgativo dell'epoca, per lo più opuscoli, collane del «lavoratore culturale», testi di conferenze all'Università popolare di Belgrado e simili.
Anzitutto, una collocazione di Vuk rispetto alle grandi correnti europee fra XVIII e XIX secolo e alla sua filiazione ideale (ma solo ideale, perché sappiamo che nei fatti il rapporto fru burrascoso) da Dositej Obradović: Vuk illuminista o romantico? I primi biografi di Vuk avevano adattato la formula alla complessità del personaggio, scrivendo di un Vuk «romantico e realista». Ora, mezzo secolo più tardi, nel 1947, il filologo slavo Aleksandar Belić proponeva un ulteriore aggiustamento in conformità al nuovo sistema di valori: in Vuk andava sottolineata la concezione pratica del lavoro letterario (qualche anno dopo Ivo Andrić scriverà: un majstor , mastro artigiano, che lavora al suo zanat , mestiere, sapendo cosa e come lavora), (3) la precedenza assegnata ai grammatici sui letterati nel controllo dello strumento linguistico, la messa al bando di ogni soggettivismo e l'indicazione dell'utilità per il popolo quale scopo intrinseco dell'attività letteraria; insomma, un Vuk realista e razionalista, necessario approdo formale e contenutistico verso cui lo spingeva la motivazione, forse inizialmente, ambientalmente, epocalmente romantica della sua lotta per elevare la lingua popolare a standard letterario.(4)
Di qui all'estetica realista di Svetozar Marković il passo era breve, ed era già stato in effetti compiuto pochi anni dopo la morte di Vuk,(5) sebbene in misure generazionali la distanza fosse molto più ampia; la distanza temporale successiva fu poi colmata dalla scoperta che di Vuk si poteva tranquillamente parlare, citando magari Ždanov, in termini di sua sostanziale prossimità, affinità alle moderne concezioni del realismo socialista(6). La vita di Vuk si prestava davvero ad essere rappresentata come una sequenza di decisioni corrette, coerenti agli interessi generali del popolo serbo, tanto quanto costose, per lui, sul piano personale. Scrisse in proposito Belić: «Con il suo spirito e il suo lavoro Vuk ha dimostrato cosa può fare per il suo popolo un uomo, quando sceglie ( izabere ) la via giusta e si dà l'obiettivo di tenere duro ( istraje ) sino alla fine sulla via ben scelta».(7) Un uomo, dunque, che sceglie e tiene duro: buon paradigma a edificazione dei quadri rivoluzionari; ma come spiegare i risultati straordinari conseguiti dall' individuo , non potendosi concedere che fosse la provvidenza ad assisterlo, o Kopitar a guidarlo, come Belić(8) è forse l'unico a riconoscere? Semplice la risposta: «Vuk Karadžić è uno splendido esempio di come una certa uslovljenost (condizionamento, determinazione) socio-economica, quando la situazione è matura per un rivolgimento storico, trova le corrispondenti energie umane che la realizzeranno».(9)
Esattamente come l'eroe di Plechanov, prodotto e insieme interprete della necessità, la personalità di Vuk non possiede dunque, né potrebbe possedere, qualità tali da collocarla fuori dal tempo e dello spazio. Proprio qui, tuttavia, si insinua maligno il dubbio: quale è spazio di Vuk? Ovvero, che sarebbe stato se Vuk fosse rimasto in Serbia? Dubbio legittimo, giacché era difficile immaginare operanti nella Šumadija di Vuk quelle «nuove condizioni socio-economiche» che in Austria invece ponevano all'ordine del giorno il problema culturale della borghesia nazionale serba. Risposta al dubbio: se per ipotesi fosse mancato il contatto, la «reazione chimica» con un ambiente più avanzato, l'opera di Vuk non avrebbe avuto le proporzioni, né la qualità, che in effetti ebbe: ma Vuk passò in Austria, e realizzò la sintesi fra lotta culturale e lotta politica dei due spezzoni del suo popolo.(10) Né avrebbe potuto, Vuk, non passare in Austria, perché la storia lo spingeva; agli scettici, ecco un ulteriore prova: l'incontro con Kopitar. L'interesse di Kopitar per le questioni linguistiche degli Slavi del sud, scrisse in modo caratteristico Boris Ziherl nel 1949, era legato ad un reazionario progetto austro-slavo di cui l'allievo Vuk sarebbe dovuto divenire l'agente, lo strumento: ma con la sua opera l'allievo si strappò al ruolo assegnatoli (11) e la grande Austria, che aveva inteso giocare sulle contraddizioni fra lingua popolare e «vecchia» lingua, ne uscì essa stessa neminovno nadigrana (12) (ineluttabilmente giocata, battuta).
Come dire che né i piani di Kopitar né la forza dell'Impero potevano qualcosa contro le idee-guida necessariamente prodottesi in determinate condizioni storiche e da Vuk accolte e praticate come necessarie. Del resto, osservò Milovan Djilas, già prima di Vuk Sava Mrkalj e Luka Milovanov stavano lavorando, indipendentemente l'uno dall'altro, alla questione della riforma ortografica: ciò che dimostra appunto come le grandi idee siano prodotto dello sviluppo sociale.(13)
È inutile dire quanto poco questa linea interpretativa si prestasse ad un'adeguata considerazione della fatica , degli sforzi intellettuali, del costo soggettivo pagato da Vuk, giorno dopo giorno, per la messa in opera di quelle «idee necessarie». «Maestro di energia», lo chiamò Ivo Andrić; ma in fondo, per i più la questione si riduceva alla formula plechanoviana secondo cui nessuno è più energico di chi consideri la sua propria attività come un anello necessario nella catena degli eventi necessari, ciò che per lui equivale alla impossibilità di restare inattivo e di agire in modo differente da come agisce.(14) Lo stesso Belić, per altri versi sensibile alla complessità del problema, finisce per scrivere che Vuk, nella riforma ortografica, «lavorò così come unicamente poteva fare», e che tutto sommato irrilevanti, ininfluenti, non più che fastidiosi contrattempi rispetto al corso generale dell'opera, sarebbero da ritenersi le polemiche all'epoca intercorse fra Vuk e i suoi avversari.(15) È dubbio, in realtà, e sembra a noi che ci sarebbero semmai riferimenti testuali per sostenere l'opposto, che Vuk traesse conforto dal sentirsi «agente della storia», e che vivesse a questo modo il cumulo di resistenze, ottusità, diffamazioni e boicottaggi incontrati lungo un cammino già di per sé non facile.
Accanto a questo aspetto soggettivo, la questione ne presenta anche uno, per così dire, storiografico, cui accenna Ivo Andrić in un testo del 1950: Vuk è uno dei pochi grandi riformatori cui sia stato concesso, ancora in vita, di assistere al completo trionfo delle proprie idee; ma questo «lieto fine» in cui tutto è confluito, pensiero ed opera, vita e lotta di Vuk, un lieto fine postumamente culminato nella grande cerimonia del 1897 a Belgrado, così come agevolava la «normalizzazione» e il recupero istituzionale di Vuk, avrebbe fatto retrospettivamente perdere la memoria del lato mučno i trnovito , tormentato e spinoso, della vita di Vuk, del lato buntovno, oporo i opasno , sovversivo, scomodo e pericoloso, in definitiva rivoluzionario, della sua impresa. Ciò che invece avevano perfettamente colto i contemporanei, personaggi come Stratimirović o Hadžić, incarnazioni dell'ordine costituito, preoccupati di contenere gli effetti distruttivi (perché tali davvero apparivano loro) delle riforme di Vuk e di render la vita dura a lui e ai suoi aspiranti seguaci.(16) Una volta rovesciato il sistema di valori, negli anni di ferro attorno al 1947-48, il carattere innovatore, rivoluzionari dell'impresa di Vuk si lasciava apprezzare a fondo attraverso l'esercizio dell'alterazione ipotetica del passato. Infatti, non appena dimostrata la neminovnost , l'ineluttabilità della comparsa di Vuk nella storia culturale serba, il letterato Ilija Kecmanović rabbrividiva alla sola idea che Vuk potesse «non esserci stato»: «Se Vuk non fosse intervenuto così presto a collegare la sua moderna ortografia alla questione della lingua popolare, oggi ci troveremmo ancora ad usare una quantità di segni (della tradizione slavo-ecclesiastica)… E come si potrebbe oggi, con rapidità e successi maggiori che presso qualsiasi altro popolo, alfabetizzare e avvicinare al libro le nostre masse popolari,k i nostri contadini e operai, se la nostra ortografia fosse rimasta così nepamenta , inintelligente, e impratica quale era prima di Vuk? Come potrebbe realizzarsi la nostra politica culturale oggi?».(17)
Sempre in tema di dinamizzazione e controllo dei processi culturali va infine segnalato un certo modo di valutare Vuk alla stregua del presente (il presente del '47-'48) che risente in maniera accentuata della congiuntura politica e ideale: ritratta di ciò che all'epoca fu chiamato il «contributo di Vuk alla unificazione culturale jugoslava». Il discorso sarebbe assai complesso, ma una semplificazione estrema (certo criticabile) lo ridurrebbe alle seguenti proposizioni: mediante la riforma ortografico-linguistica Vuk perseguiva l'utile del suo popolo; egli pensava all'unità linguistica del suo popolo, dei Serbi sva tri zakona , di tutte e tre le confessioni; non è chiaro se con ciò Vuk identificasse l'area di parlata štokava con l'area etnica serba (se cioè – riprendendo la distinzione cui si è riferito il prof. Ekmečić – a questo proposito egli pensasse alla lingua come mezzo di comunicazione o come carattere primario di identità etnica). Di qui potevano dipartirsi giudizi diversi circa le componenti di tolleranza, panserbismo, panslavismo, jugo-slavismo presenti nel pensiero di Vuk. Aleksandar Belić, per esempio, sul piano storico esaltò in Vuk il «grande programma di unione culturale di tutti nostri popoli (a partire da) quell'incontro fraterno che ha significato la piena unificazione culturale e intellettuale dei Serbi e dei Croati»(18); mentre Djilas, con approccio unitarista a-etnico di derivazione staliniana, insisteva piuttosto sulla funzionalità della lingua letteraria unificata nel processo di (diremmo oggi) nation building su un territorio compatto ed economicamente connesso;(19) ancora, si poteva mettere in risalto la portata pan-balcanica dell'influenza di Vuk, che offrendo un modello razionale imitabile avrebbe stimolato la rivoluzione culturale nazionale anche presso i popoli limitrofi:(20) ed è innegabile che qualcosa del genere abbia funzionato presso i Macedoni e gli Albanesi.
Ma cosa resta oggi di tali valutazioni? A noi sembra che sfuggisse loro, né poteva essere diversamente in una temperie di bratstvo-jedinstvo (fratellanza-unità) e di ottimismo rivoluzionario, un dato contrale della questione: e cioè che, in quanto intrinsecamente connessi all'autodefinirsi di una moderna identità nazionale, i due principi innovatori di Vuk, ortografico e linguistico, erano in realtà strategicamente divisivi su un piano più ampio, in duplice senso diacronico e sincornico. Della cosa si erano resi conto una cinquantina d'anni prima, all'inizio del secolo, cogliendo ciascuno a suo modo un corno del problema, due personaggi diversi tra loro come il dotto Stojan Novaković, accademico, statista e doplomatico serbo, e l'esule ramingo Krste Petkov Misirkov, padre della moderna lingua letteraria macedone. Allievo di Djura Daničić, a sua volta collaboratore di Vuk, e alieno da nostaligie regressive slavofile,(21) Novaković si trovò nondimento a lamentare, nelle splendide pagine di alcune note di viaggio in Macedonia nel 1905, che la riforma ortografica di Vuk avesse spezzato l'unità indivisa, pre-nazionale, dell'area culturale slavo-ecclesiastica balcanica, sottraendola al retaggio politico dellos tato serbo;(22) mentre Misirkov, in quell'epoca alle prese con problemi di emancipazione linguistica dal bulgaro, constatava come la riforma linguistica di Vuk, spostando ad ovest il baricentro linguistico serbo, avesse concretamente significato per gli Slavi macedoni marginalizzazione culturale e conseguente esposizione all'influenza etnica bulgara.(23) Ma in fondo, osserviamo noi, anche ad ovest cosa si era davvero unificato a mezzo secolo dall'accordo di Vienna,s e nel 1912 Jovan Skerlić poté uscirsene con una proposta ai Croati di scambio di ostaggi, o meglio di vittime sacrificali, cirillico contro ijekavo , che tanto sapeva di espediente estremo di fronte al fallimento?
Inutile, in ogni caso, imputare a Vuk le conseguenze o le mancate conseguenze della sua opera attraverso le generazioni, così come gli splednori o le piattezze di più di un secolo di letteratura su di lui. Ciò di cui possiamo sicuramente essergli grati, qui ed oggi – sebbene non si tratti certo di un merito fra i suoi maggiori – è di averci fornito l'occasione e la materia per un interessante scambio di idee fra studiosi di varia formazione e nazionalità.
Note
* Questo contributo utilizza materiali e risultati parziali di una ricerca condotta con finanziamento MPI 40% presso l'Istituto di Storia medioevale e moderna dell'Università di Trieste.
- Ai due fattori sopraindicati Vuk ne aggiungeva per vero un terzo: l'influenza della moglie, buona viennese, che l'aveva convinto a restare nella capitale austriaca e a guadagnarsi da vivere con la letteratura. Nel 1842 il russo I. I. Sreznevski, filologo slavo, raccolse dallo stesso Vuk queste riflessioni, che poi riportò nella biografia di lui, pubblicata nel 1846: v. Duncan Wilson, The Life and Times of Vuk Stefanović Karadžić, 1787-1864 , Oxford, 1970, p. 86 (quest'ultima è un'ottima biografia di Vuk, dichiaratamente costruita su fonti secondarie ma di grande utilità per la massa di informazioni offerte e la sistematicità dell'esposizione).
- Epigrafie adottata in Cvetan Stanoevski, Diplomatija vo istorii. Istorija na diplomatijata , Skopje, 1986.
- Ivo Andrić, O Vuku kao piscu. O Vuku kao reformatoru , Beograd, 1950.
- Aleksandar Belić, Vuk Karadžić i naša narodna kultura , Predavanje održano na Kolarčevom narodnom univerzitetu, Beograd, 1947 1 , 1949 2 ; dello stesso, v. anche la raccolta di lezioni tenute all'Università popolare, Delo Vukovo , Beograd, 1948.
- Fra gli scritti di Svetozar Marković, più significativi sotto questo profilo, v. Pevanje i mišljenje (Poetare e pensare) del 1868 e Realnost u poeziji (Realismo in poesia) del 1869-70, contenuti rispettivamente nei voll. I e II dei Sabrani spisi , Kultura, Beograd, 1965.
- Ilija Kecmanović, (letterato, responsabile di istituzioni scolastiche e culturali nel dopogruerra), Vuk-Njegoš-Svetozar Marković , Sarajevo 1949.
- A. Belić, Vuk Karadžić , Narodni univerzitet, Beograd 1948.
- «Senza Buk, non ci sarebbe stata riforma della nostra lingua letteraria; ma altrettanto vero è che senza Kopitar la riforma di Vuk non sarebbe stata ciò che in effetti è stata» ( Vuk Karadžić , cit.).
- Milan Bogdanović, (critico letterario, docente di letteratura serba, responsabile di istituzioni culturali nel dopoguerra), Do Vuka i od Vuka , in M. Bogdanović, B. Kovačević, Vuk Karadžić. Njegov život i kulturno-revolucionarni rad , Narodni univerzitet, Beograd 1948.
- Ibidem.
- B. Ziherl, articolo pubblicato in «Književne novine», 8 febbraio 1948, rip. In I. Kecmanović, cit.
- Milovan Djilas, O Vuku Karadžiću , Ogledi iz književnosti, Beograd, 1949.
- Ibidem.
- Georgij V. Plechanov, La funzione della personalità nella storia , Roma, 1973, pp. 33-34.
- A. Belić, Vuk Karadžić , cit.
- I. Andrić, cit.
- I. Kecmanović, cit.
- A. Belić, Delo Vukovo , cit.
- M. Djilas, cit.
- M. Bogdanović, cit.
- Nella polemica innescata negli anni '60 dalla «Epistola da Mosca, ai Serbi» di A. S. Homjakov e altri dieci membri del Comitato slavo di beneficienza di Mosca, Novaković aveva preso le parti di Daničić e dei liberali occidentalisti, contro gli slavofili: cfr. Traian Stoianovich, The Pattern of Serbian Intellectual Evolution, 1830-1880 , «Comparative Studies in Society and History», I, March 1959, pp. 259-260.
- Stojan Novaković, Dva dana u Skoplju. 14-15-16 Jul 1905. Beleške i razmišljanja s puta , in S. Novaković, Balkanska pitanja i manje istorijsko-političke beleške o balkanskom poluostrvu, 1895-1905 , Beograd, 1906, pp. 71-73.
- K. P. Misirkov, Origine e sviluppo delle teorie bulgara e serba sulla nazionalità dei macedoni (1905), in M. Dogo, Lingua e nazionalità in Macedonia. Vicende e pensieri di profeti disarmati, 1902-1903 , Milano, 1985, pp. 158-159.
Marco Dogo, Vuk Stefanović Karadžić, ovvero la «funzione della personalità» nella storia balcanica , in: Vuk Stefanović Karadžić la Serbia e l'Europa , edizione a cura di Marco Dogo e Jože Pirjevec, Trieste, Editoriale Stampa Triestina, 1990, pp. 147-157.
Датум последње измене: 2008-07-05 11:10:05