G. A. Casnacich
Giunio Palmotta
Nacque del 1606 da Giorgio e da Orsola Gradi. Stefano Gradi suo contemporaneo e biografo ci narra averlo udito raccontare, che ancora fanciullo vedesse ne’ sogni matrone di esimia bellezza, superiore all’umana, danzargli intorno sonando la cetra e modulando canzoni soavissime. Ed i poetici sogni erano presagio dell’avvenire, chè Giunio, grandicello appena, scriveva in verso latino ed illirico con facilità ammirabile.
Il riunirsi della gioventù ragusea in società regolata da leggi accademiche che avevano per iscopo la coltura dell’intelletto per mezzo della ricreazione, e che per lo più la dirigevano alla drammatica, generò nel Palmotta la neccessità di comunicare le sue ispirazioni tutte sotto tale forma negli anni più maturi. Vi si aggiungeva l’esempio del suo congiunto Giovanni Gondola allora nel fiore di giovinezza e già in tanta fama tra gli illirici. Giunio si pose a scrivere pel Teatro e giunse la sua facilità a tale segno che senza darsi la briga di prima scrivere le sue composizioni, le dettava di getto a suoi compagni. Monumenti di questa facilità ci rimangono: La discesa di Enea agli Elisi tolta dall’Eneide – L’Atalanta – L’Achille – L’Issipile – La contesa di Aiace e di Ulisse per le armi d’Achille – Il ratto di Elena dalle due Eroidi di Ovidio – Dall’Ariosto prese l’Ariodante (Daniza) e dal Tasso Rinaldo e Armida, cangiando nel primo per renderlo nazionale nome alle persone ed ai luoghi. – Dalle storie patrie scelse Pavlimiro e Zaptislava. Tradusse l’Edipo di Sofocle ed un’italiana tragedia di Alessandro Donato – Svevia –.
L’esuberante facilità fu d’ostacolo al Palmotta per toccare il sommo della missione drammatica; poiché improvvisando la maggior parte de’ suoi drammi, era costretto a sceglier i colpi di scena e le situazioni drammatiche tra quelle che negli studj fatti gli erano rimaste impresse come le più capaci d’effetto, o a contentarsi di una serva imitazione degli antichi. Questa medesima facilità non gli lasciò attingere a quella purezza del linguaggio che si scorge ne’ pochi scrittori i quali ci restano ad esso anteriori ed anche ne’ suoi scritti medesimi più meditati.
Il canto con cui il popolo Slavo solennizza ogni circostanza della vita che si sollevi oltre le quotidiane, diede occasione al Palmotta a scrivere un gran numero di Canzoni le quali erano tradizionalmente per lungo tempo conservate.
È molto conosciuto un di lui satirico poemetto contro uno della famiglia dei Sorgo, che pare lo avesse provocato, Ma in questo si lasciò trasportare dallo sdegno a tali bassezze che avrei creduto onorevole per il Palmotta nemmen parlarne, se pur la verità non mi vi costringesse.
Educato sovrattutto ai sentimenti religiosi, la pratica dei quali occupava gran parte della sua vita, in età più matura rivolse il suo poetico ingegno alla traduzione d’un opera che rimanesse a posteri durevole monumento di sua cristiana pietà. Scelse a ciò la Cristiade di Monsignor Girolamo Vida. Questo poema avea destato sommo entusiasmo fra i contemporanei sì che Leone X al leggerne i due primi canti avea esclamato con Properzio:
Cedite, Romani scriptores, cedite Grai;
Nescio quid majus nascitur ÆNEIDE.
Il Palmotta tradusse questo poema amplificandone alcune parti e suddividendo i sei canti li ridusse a ventiquattro. Questa traduzione per la castità ed eleganza del linguaggio con cui fu espressa gode meritamente classica rinomanza, perciò mi sia permesso citare, traducendo il Gradi, onde si possa conoscere quali norme si fosse prefisso l’autor nostro “Osservando che la lingua slava per l’ampieza della terra e della gente su cui si estende soffre delle varietà che la dividono in molti dialetti, seguì il Palmotta uno stile non già preso a suoi concittadini che non sono d’origine slava, ed i quali per le continue relazioni commerciali cogli Italiani e con altri stranieri hanno corrotta la lingua loro con vocaboli e frasi barbare; ma scelse invece il dialetto dei limitrofi Bosniaci, i quali siccome per la bellezza e per la maestà del loro corpo così anche per il loro dialetto sembrano formati dalla natura alla grazia ed alla dignità. Che se i Dalmati ed i Croati o qualunque altro ramo del popolo Slavo vi trovassero alcun modo di dire non consentaneo alle abitudini dei loro dialetti concedano al nostro Poeta quella indulgenza di cui erano generosi gli Ateniesi a Pindaro, a Callimaco ed a Teocrito poeti dorici; come dall’altro canto lo erano i Siciliani, i Beoti, i Laconi a Sofocle, ad Euripide e ad Aristofane che scrissero nell’attico dialetto” Il Palmotta avea deciso di pubblicare la sua traduzione dedicandola a Cristina di Svezia: esiste ancora inedita una poesia in onore di quella Sovrana che dovea esser promessa al Poema, ma poi, né si sa bene il motivo, mutò di proposito e venne in luce appena nel 1680 a Roma coi Tipi del Mascardi, a spese di Giorgio suo fratello il quale la dedicò al Cardinale Francesco Barberino, Decano del Sacro Collegio. Ne fu fatta una ristampa a Buda d’Ungheria nel 1835.
Caro a suoi concittadini, all’epoca in cui la repubblica toccava l’apice della prosperità, circonddato da affettuosi congiunti ed amici finì la sua vita nel 1657 compiuto il 50mo anno, creduto felice dal Gradi, per non essere sopravvissuto all’epoca del terremoto che pochi anni dopo distrusse Ragusi.
Oltre le opere già nominate esistono due suoi poemetti illirici inediti, uno sullo sposalizio di Gesù Cristo con S. Caterina da Siena, e l’altro sulle glorie dei Re Slavi della Dalmazia; non che un poemetto latino – Panegyris – e un’ode pur latina in lode di Giovanni Bargiocchi Gesuita stampata in Ancona nel 1635 da Marco Salvioni.
G. A. Casnacich, Giunio Palmotta, in: Galleria di Ragusei illustri, Ragusa: Pier-Francesco Martecchini, 1841.
Датум последње измене: 2008-08-04 10:54:20