Ljiljana Banjanin
L’Italia in alcuni periodici belgradesi (fine Otto-inizio Novecento)
Le riviste, i periodici, i giornali rappresentano una ricca fonte di studi letterari, perché rispecchiano i modelli poetici dominanti nell’epoca alla quale appartengono. Allo stesso tempo però, le loro rubriche riflettono l’interesse che l’ambiente culturale – in questo caso serbo e più precisamente belgradese, - nutre nei confronti di altri mondi (letterari, sociali, politici), lontani o vicini geograficamente e culturalmente. Le riviste pubblicate a Belgrado negli ultimi anni dell’Otto- e nel primo decennio del Novecento offrono diverse possibilità di analisi: della letteratura, delle poetiche e della critica della corrente moderna nascente. L’epoca a cavallo tra i due secoli è caratterizzata anche dai mutamenti di tutti gli aspetti della vita sociale, culturale, politica ed essi, anche se extra-letterari, ne fanno parte e si riflettono nelle stesse riviste e nei periodici. Proprio per questo motivo, le pubblicazioni di questo tipo sono un buon indicatore, un “termometro” dei cambiamenti adatto a uno studio pluri- o interdisciplinare. La nostra relazione ha lo scopo di offrire un contributo a questo tipo di studi, individuando l’immagine dell’Italia nelle riviste e nei giornali belgradesi come “Zvezda”, “Delo”, “Nova iskra”, “Radničke novine”, “Pijemont”, “Politika”. Alcuni di essi sono stati importanti nella vita culturale e politica belgradese e serba, altri invece marginali, ma comunque l’hanno segnata lasciandovi tracce significative. Precisiamo che esistono in questo campo alcuni studi che precedono il nostro lavoro nell’italianistica serba e nella serbo-croatistica italiana[1].
L’Italia è stata una meta tra le più attraenti per i viaggiatori provenienti dalle terre slave già dai tempi del Medio evo e del Rinascimento. Nella cultura e nella letteratura serba essa ha avuto un posto privilegiato, come tema dalle varie e diversissime forme: dalle lettere e dai diari alle memorie, dagli schizzi ai racconti veri e propri, dagli appunti ai resoconti e rapporti ecc. A questa varietà di generi corrisponde spesso una varietà di valori/livelli letterari. Molti dei testi proprio perché pubblicati nelle riviste, dovevano assolvere a un compito ben preciso: rappresentare una lettura utile e istruttiva, divertente e documentata. L’Italia era dai serbi percepita e presentata come una terra lontana, diversa dalla loro patria, una terra dell’arte e la culla della cultura europea, ma i viaggiatori la sentivano ““vicina”” e desideravano scoprire e godere delle sue bellezze naturali, del sole e del mare. Con il tema italiano inizia nell’Ottocento il filone del genere odeporico nella letteratura serba. Sull’Italia sono state scritte le pagine più belle (Ljubomir Nenadović) mentre a cavallo tra i due secoli lo stesso tipo di letteratura, sull’esempio dell’Italia, mostra le tracce sia del passato romantico e/o realista, sia le novità della percezione, di una nuova sensibilità e di un nuovo senso estetico che porterà l’epoca nuova, segnando tagli e rotture tra il passato ed il futuro. Questi testi, inoltre, contengono molti strati non visibili sulla superficie: parlano dei loro autori e del loro tempo, diventando non soltanto una testimonianza diretta dell’autore, del suo stile, della sua sensibilità, ma acquisendo il valore di un documento dell’epoca in cui sono stati scritti e pubblicati. In questo consiste l’importanza di questi testi “minori” ma non meno rappresentativi del genere odeporico, che abbiamo scelto di presentare in questa relazione.
Già negli anni Novanta i viaggiatori serbi che sulle tracce dei loro predecessori visitano l’Italia, ne lasciano testimonianza nei loro testi, nei quali si conferma la tradizione del viaggio dei serbi in Italia. Essi, tuttavia, vivono tale esperienza in modo diverso rispetto ai viaggiatori ottocenteschi e i loro testi lo dimostrano chiaramente. Stevan M. Veselinović, firmatosi con le sole iniziali, pubblica nella rivista “Zvezda” (1898), il cui redattore e fondatore era il realista serbo Janko Veselinović, un breve testo intitolato Pučina. Putničke uspomene (Dall’alto mare. I ricordi di un viaggiatore). Per il modo di scrivere e concepire il viaggio, l’autore appartiene ancora alla tradizione del realismo ottocentesco, con alcune tracce romantiche (l’io narrante, l’alba, la roccia, il superamento della notte). Il testo, appartenente al genere di “memorie” (“putničke uspomene”), è soggettivo senza pretese di esattezza, come risulta già dall’inizio, nel passo della descrizione dell’incontro con il mare che avviene all’alba mentre il viaggiatore, già moderno (viaggia in treno), lo scorge dalle alture montagnose, vivendolo come un sogno:
“Čini mi se […] da priroda ne može pružiti posmatraču ništa lepše od tako plavoga mora, uokvirena u krševito belo stenje. Nebesni lazur nije lepši od plavetnila njegova, […]. To je idealan mir. […] More je stajalo tada na horizontu kao lepa slika u ateljeu znamenita umetnika, i kad ga prvi put tako ugledaš, dugo se ne razbiraš da li je to san ili java […]. ”[2]
Il mare però, diventa una fonte di insicurezza e il viaggio in nave in mezzo alla tempesta, da Ancona a Ravenna è descritto alla maniera romantica e con molta enfasi, a volte esagerata, ricca di particolari realistici. Negli stessi anni, nel 1895, nel “Delo” belgradese Marko Car pubblica il suo Kroz Umbriju i Toskanu. Bilješke i utisci s puta (Attraverso l’Umbria e la Toscana. Appunti e impressioni del viaggio) [3], un testo nuovo e diverso. La struttura è tradizionale (si tratta di “appunti” datati), moderna è la sensibilità del viaggiatore: gli spostamenti sono per lui “letovanje” (vacanza estiva) o “seljakovanje” (vagabondare) e riempiono l’anima del viaggiatore di un piacere estremo che porta allo “spokoj”, alla serenità in armonia con il mondo esterno. Il più grande esteta nel passaggio dei due secoli, Car viaggia attraverso l’Italia, la sua seconda patria, quella ideale, e offre una visione individuale e individualistica, segnata dalla sua personalità e dalle sue impressioni, indicando chiaramente ed esplicitamente una via nuova, e informando che le sue lettere da Spoleto, Perugia, Assisi, Firenze saranno soltanto appunti e impressioni di mete scelte da un viaggiatore dai gusti ricercati che vuole osservare non quello che offre un moderno Baedeker ma quello che desidera egli stesso. La natura verde e lussureggiante, i colori, le colline, i laghi, le città immerse nella storia e nell’arte, liberano con delicatezza e dolcezza l’autore dalla vanità, dal dolore, dalle “kvestije” morali sublimando le impressioni in quella bellezza che egli identifica con la dolcezza, la trasparenza e la leggerezza della rugiada, “nešto nalik na blagu rosicu” (Car, 1895: 221). Il testo odeporico diventa così un saggio sulla storia delle città umbre, sulla loro arte e sulla letteratura. L’autore viaggia per soddisfare il proprio desiderio e coinvolgere il lettore nell’esperienza estetica vissuta, senza far sentire il peso della saggezza, della sapienza, priva di qualsiasi altra funzione tranne quella di provocare le sensazioni estetiche legate alla bellezza.
Il primo viaggiatore del Novecento, il miglior realista serbo, il più europeo e italiano allo stesso tempo, che nelle sue novelle felicemente ha unito le influenze slave/russe con quelle romanze, italiane precisamente, Simo Matavulj ha lasciato nelle Bilješke jednog pisca (Appunti di uno scrittore) alcune impressioni di una missione italiana per conto del principe Nikola (1882). Alla soglia del XX secolo è in viaggio come un cittadino qualsiasi dai gusti raffinati però, che porta la moglie a scoprire le “tre Rome”, quella antica, quella medievale e quella moderna e ne lascia le tracce in un racconto Neobičan gost u Petrovu domu (Un ospite insolito nella dimora di Pietro), pubblicato nel febbraio 1901 nella rivista “Nova Iskra”[4]. L’inizio è tipico delle novelle di Matavulj, che assume il ruolo di un cronista, osservatore della scena della narrazione, in una specie di Rahmenerzählung: “Pričao mi je Laza Kostić, da je njegova žena klekla i zaplakala se, kad su njih dvoje prvi put ušli u Petrovu crkvu u Rimu”.[5] Come in un manuale di viaggio è presentata la descrizione della chiesa: sono riportati dettagli e alcuni dati precisi relativi alla tomba, alla cupola di Michelangelo, all’altare (135m lunghezza, 87 candelabri sulla tomba, 153m altezza, 51m dalla tomba all’altare). E’ realistica e viva la visione della chiesa che si offre allo straniero non come un luogo sacro ma come un’enorme piazza sulla quale i turisti chiacchierano, gli operai lavorano e fumano persino, mentre i confessori di varie lingue aspettano i fedeli. Il confessionale con la scritta “Lingua illyrica” rallegra il Nostro aumentando però in mezzo alla folla la sensazione di solitudine, superata alla vista dei bottoni d’argento e dei baffi sottili (“srebrna puca i upredeni brkovi”) dei pellegrini magiari che fanno sentire “dah zavičaja”. Il bisogno di sentirsi vicino alla patria nel monumento più grande e più bello del mondo cristiano, è vissuto da Matavulj come un’allucinazione:
“Milozvučna srpska reč romorila je u pregratku veličanstvenoga hrama, reči umiljate, skromne, silne u prostoti svojoj, reči koje govorahu o Bogu, o duši, o lepoti vere, o višim potrebama čovekovim!.. Nađosmo nekoga čara u tome, da slušamo reči materinskoga jezika, a da ne vidimo ni govornika ni slušaoce!”[6].
Il gruppo di fedeli bugneschi di Subotica composto da uomini alti e prestanti, e da donne “ritratto” della salute, raccolti attorno al giovane francescano, sono per Matavulj l'immagine della gioventù slava, della fede ferma e profonda. L'incontro spontaneo e la conversazione della moglie di Matavulj con una donna del gruppo, semplice e confidenziale, sazia la sete e la fame dell'anima di identificarsi con gli slavi, altri e diversi ma tuttavia vicini. L'ospite inatteso, strano nella dimora di San Pietro diventa così la stessa lingua serba, viva ma invisibile e tuttavia presente nel magnifico monumento cristiano. Il realista Matavulj con questo racconto e con il suo sentirsi vicino agli altri slavi legati dalla stessa lingua, si avvicina al romanticismo ottocentesco, con l'Italia come sfondo della sua narrazione.
Di Roma, quella natalizia, scrive un viaggiatore anonimo, firmatosi con le sole iniziali N.V., nel giornale belgradese dal nome pieno di significati “Pijemont”: Pismo iz Rima. Božić u Rimu (La lettera da Roma. Il Natale a Roma), rimanda per le descrizioni e per lo stile semplice a Ljubomir Nenadović: il cielo azzuro e chiaro è in contrasto con le vette appenniniche innevate, “la città eterna” sembra immersa nei suoi dintorni, circondata - come in un abbraccio, - dai castelli romani. La natura immobile, trasparente e immutata dai tempi di Romolo e Remo, si scontra con la vita irrequieta della città in fermento. La piazza di San Pietro sembra un formicaio di turisti e il viaggiatore riporta le stesse immagini che abbiamo già visto in Matavulj: le folle di turisti stranieri girano per il monumento più imponente della cristianità, mentre
“Rimljani radije idu u na molitvu u manje crkve. Katedrala sv. Petra na njih čini utisak više jednog umetničkog muzeja no hrama za molitvu. Dok se u njoj pobožno mole, klečeći iza nekog stuba, dotle kuriozni s 'Bedekerom' u ruci, razgledaju arhitekturu i tumače stil. Mnogi od bigotnih stranaca dolaze na Božić u Rim (...), da se (...) ispovede i pričeste. Stoga u ispovedaonicama svih narodnosti danas sedi po jedan ispovedaonik dotične narodnosti i ispoveda”.[7]
La più importante festa cristiana, il Natale, diventa il punto di partenza per la critica che l'autore muove nei riguardi della situazione politica italiana: egli individua la causa dei festeggiamenti in tono minore, anzi quasi inesistenti, nella disputa tra lo Stato e la Chiesa, disputa che dura dai tempi di Cavour e di Pio IX, ma nella guerra in cui il Papa “drži stranu Turcima” trova altre spiegazioni. I romani, gli italiani sono coinvolti nella guerra in Libia; ne danno conferma i giornali, i cui titoli informano su “Il Natale a Tripoli”; le locandine con i programmi dei cinema romani mettono in rilievo i documentari sui teatri di guerra, e persino l'opera inaugura la sua stagione con Wagner e non con un nome nazionale. L'autore critica apertamente questa scelta: “Prva stvar koja se daje, nije ni Verdijeva ni Maskanjijeva, no – Vagnerova! 'Sigfrid'! Zar to nije karakteristično za ovo ratno vreme?” Questa domanda retorica contiene una sfumatura critica molto forte e suona come una condanna, il che coincide con la linea editoriale del “Pijemont” nel quale la lettera è stata pubblicata.
Roma veniva percepita dai viaggiatori serbi come il centro del mondo europeo attraverso i due secoli della letteratura odeporica, legato all'arte ma anche alla cristianità e questi testi lo dimostrano. Venezia invece, “la regina dell'Adriatico”, temuta e spesso odiata da creare dei topos letterari negativi nel Romaniticismo serbo, rappresentava da sempre una “porta” che al nostro viaggiatore si apriva verso l'Italia e lo stupiva con la sua bellezza particolare.
Nel più importante quotidiano belgradese, la “Politika”, a partire dal 1905 Branislav Nušić, usando lo pesudonimo Ben Akiba, inizia a pubblicare una serie di lettere intitolate Ben-Akibino putovanje po Evropama( Il viaggio di Ben Akiba per le Europe). Si tratta di lettere brevi, concise, adattate alle esigenze di un quotidiano e alla sua tipologia: il grande commediografo si rivela anche in questo tipo di testi, un grande maestro del comico, che ridendo mette a nudo la società e le sue deformazioni. Criticato da Skerlić per questa sorta di liquidazione della letteratura e del proprio talento, sprecato nella quotidiantità, ma lodato da Matoš[8] per le stesse ragioni, Nušić usa la sua parodia pungente e la satira prendendo come spunto l'Italia, per parlare con distacco, e da una certa distanza, della propria città, dei mali belgradesi del suo tempo. Già nel 1906 nel breve testo Vezuv (Vesuvio)[9] il paragone tra il Vesuvio e la Avala è una chiara provocazione: un'eruzione, realmente impossibile ma utopicamente immaginabile, della lava che dal cratere di Avala giunge a lambire le porte di Belgrado, e la conservazione della città, svelerebbe alle generazioni future, non la vita evoluta e civilizzata come lo era quella dei cittadini di Pompei, ma i difetti dell'apparato politico, del consiglio comunale belgradese perso nelle discussioni e negli intrighi dei suoi segretari e scrivani che amano più la burocrazia della loro città. Vezuv così annuncia e introduce le due lettere dall'Italia, la XVI e la XVII, con il titolo goethiano Kroz zemlju gde no limun radja (Attraverso il paese dove fiorisce il limone) e Venecija la bella, uscite entrambe nel 1908 [10]. Nella prima, gli stereotipi si susseguono in un'allegra e divertente carrellata di humor bonario e benevolo. Lo schema semplificato di questi stereotipi sull'Italia e sugli italiani rappresenta uno spunto per parlare dell'altro e della sua realtà diversa da quella nazionale. Fanno parte di un immaginario sull'Italia: il mare (onnipresente), i ladri italiani (sulla strada, in teatro, all'osteria, in chiesa), il prete (che si incontra ovunque), mentre una parte del “decoro” in ogni stazione è costituita da un pappagallo, una palma e un paio di mutandoni del capostazione. Gli italiani poi, sono tutti uguali, amanti del sole, dei maccheroni, mentre i loro figli raramente assomigliano ai padri; le loro donne invece, sono belle e tolleranti, perché – contrariamente a quelle belgradesi, - permettono le uscite serali dei mariti, per il solito caffé al bar. Il cibo italiano non attira il viaggiatore serbo con i suoi risotti, i gatti e i maccheroni, e una semplice bistecca “alla casalinga” risulta così cara come se la carne fosse stata importata dalla Serbia.
La seconda lettera da Venezia “la bella” è più pungente perché la città si presta, in un forte contrasto, a continui paragoni con Belgrado: i canali liberano le autorità cittadine dall'organizzazione della pulizia delle strade. Nušić propone ironicamente di adottarli anche nella sua città, per evitare la sporcizia e il disordine, mandando però prima una delegazione scelta tra gli uomini più “meritevoli”, a studare “il caso” nella città lagunare. Il carattere allegro dei veneziani (del facchino, del portiere, del gondoliere), il loro buonumore nel lavoro quotidiano contrastano con la mentalità dei belgradesi e amara è la confessione:
“Kako je to lepo kad tako čitav jedan narod, nehoteći zlo da misli, peva. Kako bi to lepo bilo kad bi i kod nas svi pevali i kad bi pevajući svršavali poslove. [...]
Jel'te da bi to lepo bilo kad bi se tako pesmom sve svršavalo? Ali gde sam se ja izgubio? Mesto u Veneciju, ja vas vodim u Upravu Varoši Beograda. Taman posla”.[11]
Scritte per un giornale, le lettere di Nušić parlano dell'Italia scrutata con gli occhi di un cittadino semplice che viaggiando vede la quotidianità e la paragona – non senza rammarico, - con la sua esperienza in patria. La funzione del testo era il divertimento di una lettura senza un coinvolgimento più profondo e lo scopo era raggiunto, ma un'analisi attenta rivela che Nušić usa l'Italia, il Vesuvio, Venezia e tutti gli stereotipi, come punti fissi della scena di una commedia, per mettere a nudo e criticare la Serbia e Belgrado che egli conosceva.
Nella “corrispondenza” che si legge nel sottotitolo di Pisma iz Italije( Lettere dall'Italia) di Sava Kovačević pubblicate in uno dei primi numeri dell’organo del partito social-democratico serbo, “Radničke novine” nel 1911, troviamo un testo di viaggio insolito, unico per il modo di presentare e vedere l’Italia. Nelle otto lettere pubblicate a partire da febbraio e fino ad aprile, l’autore esplicitamente rifiuta di parlare dell’Italia “la bella”, di “fantasticare” del cielo azzurro richiamando al topos più diffuso, facendo il riferimento anche al cielo come sede di dio e della speranza dell’uomo religioso:
“Kad sam već ovamo u Italiji, vi ćete, možda, očekivati od mene, da vam, (...) pišem o lepom, azurnom i ljupkom nebu italijanskom. Ali ja vam te želje neću moći ispuniti. Pre svega, kada bih i hteo baš o tome da vam pišem, ja bih mogao reći samo ovo: između talijanskog neba i našeg nema razlike. Da ga naročito opisujem i fantaziram o njemu, trebalo bi da gledam neprekidno u njega. I onda učinio bi dve štete: prvo, mogao bih tako zevajući u nebo pasti u koji kanal, a ovde je to vrlo lako i moguće, i atko, ako se ne bi utopio, ja bi se izvukao mokar i skapao bi kao pas na ovoj zimi; drugo, ja sam odavna prestao gledati na nebo i tražiti ma šta na njemu.
Neka mi oprosti „preblagi“ ovu jeres, ali je tako!
Ja tražim dole, na grešnoj zemlji sve, ama baš sve, pa čak i njega: preblagog boga”.[12]
L'autore considera le numerose, troppe chiese sparse ovunque, in tutta l'Italia, luoghi visibili e concreti di una forte religiosità e della tradizione cristiana/cattolica degli italiani, una “smešna lakrdija”. Venezia invece, che lasciava stupiti, impauriti o estasiati, ma comunque mai indifferenti i viaggiatori stranieri, di qualsiasi provenienza, non suscita in questo viaggiatore serbo una forte impressione. Venezia è paragonata a un’enorme catapecchia sciupata (“ogromna, olupana straćara”), a una cripta (“velika, živa grobnica”), i suoi palazzi e le antichità lo lasciano indifferente; tranne il monumento a Garibaldi che, con la spada in mano e in grandezza naturale merita di essere nominato e descritto in dettaglio, perché ha unificato l'Italia. Dei veneziani, questa gente strana (“čudan svet”) che nasce, vive e muore sul mare, che nel sangue porta la voglia di partecipare al carnevale, Kovačević critica tutto, dal carattere alle abitudini, come un qualcosa di negativo che indebolisce la razza. Nella lettera scritta da Firenze cambia tono e tema; sono “veličanstvene demonstracije”, “magnifiche” manifestazioni, lo sciopero generale organizzato dalla Confederazione dei lavoratori di Torino, per festeggiare il cinquantennio dell'unificazione. L'autore si considera fortunato di poter partecipare a questo avvenimento di un “partito fraterno” e le lettere descrivono l'atmosfera in cui gli operai si mescolano con il popolo della chiesa, i contadini con i cittadini, il sacro e il profano che egli non comprende del tutto, abituato alle grandi divisioni nette che non permettono i compromessi:
“To je bio jedan čudan prizor. Pogledaš u zastave: lepršaju se religiozne pored antireligioznih, nacionalističke pored socijalističkih i republikanskih! Muzike jedne sviraju neke marševe, druge nacionalnu himnu, treće marseljezu i internacionalu, četvrte republikanske pesme i marševe, a u isto vreme popovi naredili te zvone na svim crkvama zvona!!!”[13]
L'autore nota il grande ruolo e il potere che la musica esercita sulle masse, creando l'atmosfera di appartenenza e unione:
“Marseljeza je silna, gromka, idealna. Ona diže u vis, opija, zanosi! Internacionala je još silnija: [...], a kada se u masi peva, ona obuzima celo biće i tu se čovek gubi! Ali ova pesma: crvena zastava tako je silna i gromka, [...] Ona je po akordima i po stilu i po sliku frapantna. [...], kad se dođe na stih: Nećemo ni papu ni kralja! Napolje sa njima, živela socijalna svetska republika! Prosto se sve pretvori u takav zanos da je to teško opisati” [14].
Proprio qui Kovačević si sente parte del movimento socialista e descrive tutto quello che lo riguarda, possiamo dire con grande coinvolgimento, mantenedo sempre un tono solenne. Informa in tutte le lettere delle manifestazioni, del congresso di agricoltori a Bologna; dello statuto dei ferrovieri, appena entrato in vigore, che gli permette di fare dei paragoni con le misere condizioni di lavoro e di vita dei ferrovieri serbi, dello sciopero dei socialisti italiani uniti con i proletari europei contro il militarismo nascente. Una vera apologia esaltata è la lettera che l'autore dedica alla città di Bologna “la rossa” e alla Romagna intera: una regione definita la Sassonia italiana “già molto rossa” (“već jako crvena”) e della quale loda l'alto livello di organizzazione operaia, le ottime paghe, l'esistenza dell'ufficio di collocamento operaio, i mezzi di informazione anche femminile.
Il periodo che abbiamo scelto, gli ultimi anni dell'Otto- e il primo decenio del Novecento è caratterizzato nella letteratura serba dai cambiamenti delle correnti, delle poetiche prevalenti, ma anche dal cambiamento delle influenze straniere. L'Italia però come meta di viaggi è presente anche in questo periodo e i testi pubblicati nelle riviste “minori” mostrano una varietà tematica, dei generi ma anche dei valori letterari, aggiungendo all'odeporica serba alcuni temi ed alcuni modi diversi di presentare l'Italia. Essa è anche qui legata all'immagine dei viaggi classici, alla scoperta delle città, della storia europea e dell'arte: Venezia, Firenze, Roma, ma ci sono anche Bologna per esempio, Ravenna, Ancona, Spoleto, Assisi. I testi si snodano su una scala che va dalla semplice descrizione, al racconto o al testo estetico, diventando anche viaggio soggettivo, eclettico, ideale, nonché annuncio della modernità. L'immagine dell'Italia rimane però quella di un paese “wo die Zitronen blűh'n” che ha consolidato il romanticismo, dal cielo azzurro, dal mare blu, e dove la natura è ricca e dolce, i cui abitanti sono segnati dalla bellezza, ma dove all'inizio del XX secolo nasce anche l'Italia “rossa”.
Questi testi letterari o alcuni di essi, sul margine tra il letterario ed il giornalistico, permettono di riconoscere gli stereotipi dell'Italia oscillanti tra connotazioni positive e negative, il che dipende dalle circostanze nelle quali si trova il nostro autore/viaggiatore, e che spesso produce un effetto comico, ironico o critico. L'Italia nei testi in questo periodo è un topos dinamico e produttivo; parlando di essa come dell'altro/diverso i viaggiatori/scrittori/giornalisti belgradesi parlano anche della loro cultura di provenienza e del loro ambiente.
- Riportiamo soltanto alcuni titoli, senza pretesa di completezza, precisando che non esiste una bibliografia completa sul nostro tema. Fondamentale riteniamo lo studio di Olga Stuparević, Srpski putopis o Italiji, in Uporedna istraživanja, 1, IKUM, Belgrado, 1976, pp. 103-182. Cfr. anche Željko Đurić, Italija Miloša Crnjanskog – Ljubav u Toskani, in Susret pesničkih svetova. Srpsko-italijanske književne veze, Vizartis, Belgrado, 1997, pp. 133-186; Marija Mitrović, Sul mare brillavano vasti silenzi. Immagini di Trieste nella letteratura serba, Il Ramo d’Oro Editore, Trieste, 2004, pp. 242; Ljiljana Banjanin, P. P. Njegoš e Lj. Nenadović: un incontro italiano, in L’Est europeo e l’Italia. Immagini e rapporti culturali,a cura di E. Kanceff e L. Banjanin, Slatkine-CIRVI, Geneve-Moncalieri, 1995, pp. 313-329; Id., La “Lettera dall’Italia” di Jovan Dučić, Bollettino del C.I.R.V.I., a.XXIV/II, 48, Moncalieri, 2003, pp. 257-280. .
- S. M. V., Pučina. Putničke uspomene, cit., p. 3: “ Mi sembra […] che la natura non possa offrire allo spettatore nulla di più bello di un mare così azzurro, incorniciato dalle bianche rocce carsiche. L’azzurro celeste non è più bello del suo blu profondo, […]. E’ la quiete ideale. […]. Il mare giaceva sull’orizzonte come un bel dipinto nello studio di un famoso artista, e quando lo scorgi per la prima volta, a lungo non distingui se si tratta di sogno o di realtà […].”
- Marko Car, Kroz Umbriju i Toskanu. Bilješke i utisci s puta, “Delo”, 1895/VI, pp. 9-19, 220- 229, 409-418.
- Simo Matavulj, Neobičan gost u Petrovu domu,“Nova Iskra”, 1901, br. 2, g. III, pp. 39-42.
- S. Matavulj, Ibid, p. 39: “ Laza Kostić mi ha raccontato di come sua moglie si era inginocchiata singhiozzando, quando per la prima volta loro due erano entrati in San Pietro a Roma”.
- S. Matavulj, Ibid, p. 40: “La melodiosa parlata serba scorreva in un reparto del monumentale tempio; parole dolci, discrete, potenti nella loro semplicità, parole che parlavano di Dio, di anima, di bellezza, di fede, di bisogni superiori dell’uomo! […] Eravamo affascinati da quelle parole della nostra lingua materna, che ascoltavamo senza vedere né l’oratore né gli ascoltatori!”
- N.V., Pismo iz Rima. Božić u Rimu, “Pijemont”, 25. XII 1911/I, n. 126-128, p. 2: “ I romani preferiscono andare a pregare nelle chiese più piccole. La basilica di San Pietro sembra essere per loro un museo piuttosto che un tempio dedicato alla preghiera. Mentre vi pregano devotamente, inginocchiati dietro un pilastro, i curiosi con una guida in mano, osservano l’architettura e spiegano gli stili. Molti stranieri bigotti visitano Roma a Natale […] per […] confessarsi e per ricevere la comunione. Perciò nei confessionali di tutte le nazioni oggi si trova un confessore che confessa”.
- Skerlić era contrario a quello che egli definiva come “idustrijalizacija talenta”, mentre Matoš proprio in questo tipo di scrittura riconosceva un genere nuovo e un modello di cultura moderna. Cfr. Jovan Skerlić, Humor i satira g. Branislava Đ. Nušića. Ben Akiba, “Srpski Književni Glasnik”, 1907, XIX/ 4, Beograd, pp. 276-285 e Antun Gustav Matoš, Predgovor Pričama Branislava Nušića, Matica Hrvatska, Zagreb, 1912, p. 13.
- Branislav Nušić, Vezuv, “Politika”, 29. III 1906, 795, p. 3.
- Branislav Nušić, Ben-Akibino putovanje po Evropama (XVI/Kroz zemlju gde no limun rađa; XVII/ Venecija „la bella“), “Politika”, 30.III 1908, n. 1510, pp. 2-3; 3.IV 1908, n. 1514, pp. 3-4.
- B. Nušić, Ben- Akibino putovanje po Evropama. XVII/Venecija“la bella“,“ Politika”, 3.IV 1908, 1514, p. 3: “Com'è bello quando un popolo, non pensando il male – canta. Come sarebbe bello se anche da noi tutti cantassero e cantando sbrigassero le loro faccende. [...]. E' vero che sarebbe bello se così, cantando, finissero tutti i lavori? Ma dove mi sono perso? Invece di portarvi a Venezia, volevo condurvi nell'Amministrazione comunale di Belgrado. Ci mancherebbe altro!”
- Sava Kovačević, Pisma iz Italije, “Radničke novine”, 24. II 1911, p. 1: “Visto che sono qui in Italia, vi aspettereste forse che io vi [...] descriva il bel cielo italiano, azzurro e amabile. Ma non potrò esaudire questo vostro desiderio. Prima di tutto, anche se proprio volessi descrivervelo, potrei dire soltanto questo: tra il cielo italiano e quello nostrano non ci sono differenze. Per descriverlo in modo particolare e fantasticarvi, dovrei continuamente fissarlo. E faccendo così, causerei due danni: primo, rimbambito così dal cielo, potrei cascare in qualche canale, il che qui è molto fattibile e possibile e così, anche se non affogassi, me la caverei uscendone fradicio e con questo freddo creperei come un cane; poi, già da molto ho smesso di volgermi al cielo, cercandovi una cosa qualsiasi.
Che il „beatissimo“ mi perdoni questa eresia, ma è così! Cerco qui sotto, su questa terra peccaminosa tutto, ma proprio tutto e persino lui: il beato Signore Iddio”. - S. Kovačević, Pisma iz Italije, 26.II 1911, cit., p. 1: “ Era uno spettacolo singolare. Alzavi lo sguardo verso le bandiere: sventolavano le une accanto alle altre: religiose e quelle antireligiose, nazionaliste accanto a quelle socialiste e repubblicane! Alcune bande suonavano le marce, altre l’inno nazionale, La Marsigliese o L’internazionale, altre ancora le canzoni o le marce repubblicane, e nello stesso tempo i preti hanno ordinato che suonassero le campane di tutte le chiese!!!”
- S. Kovačević, Ibidem, p. 2: “La Marsigliese è possente, forte, ideale. Solleva, inebria, entusiasma! L’Internazionale è ancor più possente: […], e quando si canta nella massa, ti assorbe completamente e ti ci perdi! Ma questa canzone, La bandiera rossa è così potente e sonora […]. Colpisce per i suoi accordi, lo stile e le rime. […], e quando arriva il verso: Non vogliamo né il Papa né il re! Fuori tutti, viva la Repubblica sociale internazionale!, tutto si trasforma in un entusiasmo difficilmente descrivibile.”
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